«Nella storia delle idee, i Sofisti sono un fenomeno così necessario come Socrate o Platone; questi, anzi senza di quelli sono affatto impensabili». (W. Jaeger, Paideia)
Come evidenzia già il testo dell’esergo1, il V secolo a.C. rappresenta un punto di svolta decisivo per merito dei Sofisti, che si sono fatti carico del problema dell’educazione e hanno iniziato ad elaborare razionalmente il tema della cultura. Jaeger2 arriva addirittura a stabilire un legame storico tra la sofistica e il moderno Umanesimo: «Tutto sommato questi uomini nuovi rappresentano un fenomeno di primissimo ordine nella storia della cultura. Per mezzo loro la paideia, nel senso di chiara idea e teoria della cultura, si è affacciata al mondo ed è stata collocata su un fondamento razionale. In questo senso devono essere considerati tappa importante dell’Umanesimo, sebbene questo non trovasse la sua forma più alta e più vera che nella lotta coi Sofisti e nel loro superamento ad opera di Platone»3.
Va tuttavia subito premesso che, pur avendo degli aspetti comuni (i Sofisti erano educatori itineranti, che insegnavano in cambio di danaro), il contenuto della loro proposta variava dall’uno all’altro; Platone stesso nel Sofista lo sottolinea dandoci diverse definizioni di questa figura nella prima parte del dialogo4; ma, parlando in generale, possiamo dire che l’insegnamento proposto dal movimento sofistico5era rivolto alla formazione individuale e sociale6.
Essi sono stati portatori di un tipo cultura molto variegato che ha un effetto particolarmente rilevante su un terreno che potremmo definire educativo-politico: si può dire che ciò che connata la sofistica nel suo complesso è l’insegnamento della virtù (areté) politica. Questa va intesa nella sua accezione più ampia, in quanto occorre ricordare che nella Grecia Antica manca il concetto moderno di Stato, di conseguenza non vi è separazione tra stato e società civile, anzi vi è una continua interferenza tra quelle che oggi definiamo la sfera sociale e la sfera politica stricto sensu7. L’intento dell’educazione sofistica è primariamente quello di formare il dirigente politico; i sofisti dunque si suddividono in due categorie: gli “innovatori” esaltano l’individuo e la sua affermazione nella polis8, mentre i “conservatori”, i tradizionalisti, valorizzano maggiormente la figura del buon cittadino che non solo conosce e rispetta i fondamenti del diritto e dello stato, ma armonizza quanto più possibile il proprio modus operandi alla polis.
Per valutare le diverse sfumature che questo insegnamento può assumere, prenderemo in esame quelli che tradizionalmente sono considerati i maggiori sofisti: Protagora e Gorgia.
1. L’insegnamento politico di Protagora
Protagora di Abdera può essere inserito nella seconda categoria sopra indicata, quella dei conservatori. Egli qualifica esplicitamente la sua professione come insegnamento dell’arte politica, separandola nel contempo da quella degli altri sofisti che, a suo giudizio, rovinano i giovani poiché li indirizzano verso un tipo di cultura settoriale e fanno loro apprendere solo tante nozioni:
PROTAGORA - Gli altri, infatti, rovinano i giovani: mentre questi sono sfuggiti alle discipline specialistiche, essi ve li riconducono, contro la loro volontà, e li ributtano nelle discipline specialistiche, insegnando loro e il calcolo e l’astronomia e la geometria e la musica (e intanto gettò lo sguardo su Ippia); invece, se uno viene da me, non imparerà nient’altro che quello per cui è venuto. Oggetto di questo studio è la capacità di prendere decisioni riguardo all’amministrazione domestica - come amministrare la propria casa nel modo migliore - e riguardo alla politica - come essere capace in massimo grado di agire e di parlare in ambito politico … SOCRATE - A me sembra che tu parli dell’arte politica e che prometta di rendere gli uomini bravi cittadini. - Socrate, proprio questa - rispose - è la professione che professo (Protagora, 318D9-319A2-6). E ancora:
Tu, proclamando come un banditore te stesso apertamente davanti a tutti i Greci con il nome di sofista, ti sei presentato come maestro di cultura e di virtù ed hai ritenuto per primo di meritare un compenso per questo (Protagora, 349A1-4).
Dunque, in primo luogo qui abbiamo una distinzione tra conoscenze tecniche, sulla cui utilità Protagora sembra nutrire seri dubbi, e l’apprendimento di capacità che devono appartenere al soggetto e che quindi possono essere applicate sia alla sfera economica sia a quella politica. Il suo impegno è quindi di tipo complessivo, generale, ossia volto alla migliore formazione possibile di “bravi cittadini”; ciò costituisce il collante per tenere unita l’intera comunità. In secondo luogo il sofista evidenzia il suo diretto interessamento a formare la classe dirigente della polis stessa; infine con la sua critica si mostra consapevole di una profonda differenza: vi erano anche sofisti che, lungi dall’avere, come Protagora, un concetto elevato del proprio compito educativo, si prefiggevano come scopo la semplice comunicazione del proprio sapere.
Il sofista accetta poi la definizione, proposta da Socrate, del suo insegnamento come tecnica politica (319A); questo è un dato importante in quanto Platone gli fa dichiarare espressamente di insegnare un’arte, non una scienza: il bisogno che i sofisti soddisfano infatti non è tanto quello scientifico-razionale, ma quello attinente ad un’immersione pratica nella vita della polis.
1.1 Il “Protagora” di Platone
Il dialogo platonico costituisce una delle fonti principali per capire quale era il tipo di insegnamento proposto da Protagora e per avere uno squarcio sui temi che caratterizzavano le discussioni tra sofisti e sul modo in cui si svolgevano.
Qui il lettore vede svolgersi una lunga discussione tra Socrate e Protagora, a cui partecipano anche altri sofisti (Prodico, Ippia, Callia e Crizia, che intervengono a turno una sola volta), su temi prettamente etici9. Il discorso ha un andamento molto vario10 per gli argomenti affrontati da Socrate e dal sofista di Abdera, il quale risponde alle provocazioni socratiche fino alla fine, anche se da ultimo si mostra piuttosto infastidito e insofferente ad esse. Facendo assumere a Protagora questo atteggiamento drammaturgico, Platone sottolinea che tra i due grandi pensatori intercorrono profonde differenze di pensiero e di metodo; anche Socrate, infatti, verso la metà del dialogo (334C-335C), minaccia di interrompere la discussione, irritato dal modo di parlare del suo interlocutore. Tuttavia non deve sfuggire l’accordo di fondo che spesso si stabilisce tra i due su diverse importanti questioni: prima fra tutte la necessità, condivisa da entrambi, di porre la questione dell’insegnabilità della virtù (361C-E), tema dominante del dialogo, e la preminenza della conoscenza sui piaceri (351B-352D)11. A conferma di questa vicinanza, anticipo la significativa conclusione del dialogo che, ironicamente, mostra come le affermazioni del sofista e quelle di Socrate si siano invertite proprio sul tema centrale della riflessione: l’insegnabilità della virtù.
E mi pare che l’esito dei nostri discorsi, se fosse personificato, ci accuserebbe e riderebbe di noi. E se potesse prendere la parola ci direbbe: “Siete davvero strani, o Socrate e Protagora: tu, Socrate, mentre prima sostenevi che la virtù non è insegnabile, ora ti sforzi di sostenere il contrario di quello che avevi detto, cercando di dimostrare che tutte quante le virtù, la giustizia, la temperanza e il coraggio, sono scienza, e questo è il modo migliore per mostrare che la virtù è insegnabile. Se, infatti, la virtù fosse altro dalla scienza, come Protagora cerca di sostenere, ovviamente non sarebbe insegnabile; mentre, se risultasse in tutto e per tutto scienza, come tu ti dai da fare a dimostrare, Socrate, sarebbe strano se non fosse insegnabile. D’altra parte Protagora che prima implicitamente ammetteva che la virtù fosse insegnabile, ora sembra, invece, tutto intento a sostenere il contrario, cosicché la virtù appaia tutto tranne che scienza: e, in tal caso, non potrebbe affatto essere insegnabile” (Protagora, 361A2-C2).
Riassumendo per punti lo schema dell’intreccio presentato:
Inizialmente:
Nel corso del dialogo:
2.1 Socrate sostiene che tutte le virtù per essere tali hanno bisogno di un rapporto strettissimo con la scienza;
2.2 Protagora afferma che la virtù non ha niente a che fare con la scienza (anche se vedremo che la posizione del sofista è più articolata e non elimina del tutto la scienza dall’insegnamento della virtù, contrariamente a quanto potrebbe sembrare da questo passo - in cui si dice che Protagora si impegna polemicamente contro Socrate - che vuol mostrare come, in questo gioco delle parti, le posizioni degli interlocutori finiscano per rovesciarsi l’una nell’altra).
Così facendo:
3.1 Socrate dimostra che la virtù, in quanto scienza, può essere insegnata e appresa, ossia va contro la sua iniziale assunzione (2.1) e fornisce una giustificazione alla pretesa del sofista (2.2);
3.2 Protagora, negando che la virtù sia scienza, sta confermando il giudizio iniziale di Socrate (2.1) e confutando se stesso (2.2).
L’apparente confusione con cui Platone vuole che il dialogo si chiuda12, permette non solo di mettere in luce le affinità tra Socrate e Protagora, scopo per cui si è fatto ricorso al passo platonico, ma anche di porre da subito in campo i temi centrali che qui si intende sviluppare: 1) il problema dell’insegnamento della virtù; 2) la ricostruzione del pensiero di Protagora rispetto a questa questione, in quanto il sofista costituisce un esempio di come il movimento sofistico abbia fornito un contributo positivo alla ricerca filosofica sul terreno etico-educativo. Non a caso Platone, in questo dialogo che tratta di virtù, predilige come interlocutori di Socrate per lo più sofisti quali Protagora, Prodico, Ippia, Callia, Crizia, che si mostrano tanto interessati al tema della discussione da pregare gli interlocutori di non interromperla a metà13. Appare dunque evidente che si stanno affrontando questioni che giustamente Platone considera emergenti dall’ambiente sofistico.
1.2 Il mito di Prometeo: insegnabilità della virtù politica
In questo contesto, Protagora si presenta come un sofista con caratteristiche molto peculiari: innanzitutto non si nasconde come gli altri14, ma ammette apertamente di essere un sofista e di educare i giovani, tanto che invita Socrate ed Ippocrate a parlare davanti agli altri della questione che desiderano sottoporgli (317C-D); poi distingue, come già accennato, il suo insegnamento da quello degli altri sofisti (318D-E) e dichiara di insegnare la capacità di amministrare gli affari privati e pubblici, ossia l’arte politica, come Socrate esplicita (319A)15.
Con la narrazione del mito di Prometeo16 egli chiarisce queste sue dichiarazioni. Il racconto prende avvio dall’obiezione di Socrate che si fa portavoce di un’opinione diffusa: questo tipo di arte non può essere insegnata perché, a differenza della altre, che sono praticate da chi ne è esperto, l’arte politica è esercitata da tutti, dal nobile e dal plebeo, dal ricco e dal povero (319C-D). Inoltre emerge un altro problema:
I più sapienti e i migliori cittadini non sono in grado di trasmettere quella virtù, che pure essi posseggono. Infatti Pericle, padre di questi due giovani, li ha fatti educare in modo perfetto in tutte quelle cose che sono in potere dei maestri, mentre in quelle cose in cui egli è sapiente, né li educa egli stesso né li affida ad altri, ma li lascia pascolare da soli e correre liberamente come gli animali sacri, nella speranza che essi possano imbattersi per conto proprio nella virtù. E se vuoi ecco un altro esempio. Lo stesso Pericle tutore di Clinia, fratello minore del nostro Alcibiade, lo separò da costui e lo affidò ad Arifrone, perché lo educasse; ma prima ancora che fossero trascorsi sei mesi, Arifrone glielo rimandò, non sapendo cavarne nulla di buono. E ti potrei citare il nome di numerosissimi altri uomini, che, pur essendo personalmente buoni, non seppero rendere buono nessun altro, né dei parenti né degli estranei (Protagora, 319E1-320B3).
La virtù politica, secondo Socrate, non è dunque una tecnica, perché 1. non c’è nessuno che ne sia esperto, come invece accade per le altre arti, tanto che chiunque può esercitarla; 2. chi la possiede, anche provandoci, non è capace di “insegnarla” a nessuno, nemmeno ai suoi cari, ciò non si verifica invece per nessuna delle altre arti. Questa ultima costatazione non è di poco conto, in quanto non solo mostra, come la prima, che la virtù politica non è una tecnica, ma elimina qualsiasi possibilità di insegnarla o perlomeno trasmetterla in qualche modo attraverso l’educazione.
La risposta di Protagora a questa obiezione (320C-322D) è piuttosto strana: invece di affrontare con argomentazioni efficaci la questione se la virtù sia insegnabile o meno, egli “giustifica” il fatto che chiunque può intervenire in assemblea in quanto portatore della virtù politica. Nel mito narrato dal sofista i due principi morali di aidios e dike (pudore e giustizia) sono doni dati da Zeus a tutti gli uomini, che quindi ne partecipano. L’equa distribuzione di questi doni funge da giustificazione teorica dell’isegoria, il diritto di tutti di parlare in assemblea. Questo diritto viene posto come condizione necessaria e sufficiente per l’esercizio dell’arte politica nella polis: tutti gli uomini possono cioè esercitarla perché hanno uguale diritto di parola, il quale, a sua volta, è loro concesso in virtù dell’innato possesso di pudore e giustizia. Possedere tali virtù è, inoltre, la condizione necessaria e minimale per il costituirsi stesso della Città, che senza di queste non esisterebbe, in quanto prevarrebbe lo stato di umanità primordiale basato sulla legge del più forte.
Fuori dal mito, Protagora precisa che queste virtù sono tramandate da genitori a figli e rinforzate dalla città, in cui tutti i cittadini per osmosi le acquisiscono (325A-326E). Il sofista sta dunque affermando la possibilità da parte dei padri di tramandare di generazione in generazione queste due particolari virtù e il significativo ruolo dello stato, che aiuta in questo proposito collaborando alla formazione di un contesto sociale coerente con il compito pedagogico prospettato. Inoltre, come Jaeger sottolinea, Protagora valorizza ancora il presupposto dell’educabilità dell’uomo, conferendo un valore pedagogico alla pratica giuridica della punizione: «in opposizione alla concezione causale, propria della Grecia Arcaica, della punizione come vendetta per aver commesso un fallo, egli professa una teoria evidentemente affatto moderna, la quale vuole inflitta la pena finalisticamente, quale mezzo per migliorare il malfattore e intimorire gli altri» (JAEGER, Paideia…, p. 529).
Si impone a questo punto un problema: se è vero che tutti i cittadini possiedono l’arte politica in modo innato, in quanto posseggono le virtù di aidios e dike, non è chiaro in che senso essa sia insegnabile17. Infatti se già la si possiede non c’è bisogno di impararla. Protagora sembra prevedere questa obiezione poiché si accinge a mostrare come il fatto che tutti partecipino alla virtù non escluda la possibilità di insegnarla, o per meglio dire, che essa sia insegnabile e possa essere appresa attraverso lo studio:
Ti ho dunque dimostrato che giustamente si accetta il consiglio di ogni uomo sulla virtù politica, poiché si ritiene che ognuno ne partecipi; ora tenterò di dimostrare che, si pensa, tale capacità non sia dovuta né alla natura né al caso, ma sia frutto di insegnamento e di studio da parte di chi si viene formando (Protagora, 323C3-8)
Si affronta innanzi tutto la dimostrazione della possibilità che tale virtù sia insegnabile. Il succo della dimostrazione si basa sulla constatazione che l’arte politica è un’arte particolare, perché è diffusa come nessun’altra tra i cittadini; tuttavia il suo possesso da parte di tutti non significa che non ne esistano maestri, ma solo che è più difficile trovarli, appunto perché in dose minima tutti la possiedono e cercano sia di attuarla sia di trasmetterla agli altri:
Socrate, ora tu fai il difficile, perché tutti sono maestri di virtù, ciascuno secondo la propria capacità, e per questo nessuno ti sembra tale; è come se tu cercassi chi è maestro di greco: non lo troveresti e non troveresti neppure, credo, se tu lo cercassi, chi ha insegnato ai figli degli artigiani quell’arte che hanno imparato dai padri, nella misura in cui il padre e gli amici che praticavano la medesima arte ne erano capaci. E chi abbia ulteriormente insegnato l’arte a costoro, non credo sarebbe facile scoprirlo, Socrate, mentre sarebbe semplice trovare il maestro di chi non conosce una data arte. Questo vale rispetto la virtù e rispetto a tutte le altre cose. E se c’è qualcuno che si distingua tra noi anche di poco nel saper guidare alla virtù, rallegriamocene (Protagora 327E1-328B1).
Dal momento che tutti conoscono una tale arte è difficile distinguere coloro che la insegnano da quelli che la esercitano e basta. Cosa che si capisce bene con l’esempio della lingua greca: poiché tutti parlano greco, non è facile rintracciare chi è il maestro del parlar greco, mentre non è difficile distinguere tra colui che parla greco e colui che non lo parla chi sia maestro di greco; ciò vale per tutte le arti. Questo esempio può risultare inappropriato in quanto si riferisce ad un apprendimento pratico per pura comunicazione continua e naturale, senza momenti di insegnamento specifico e tecnico, il che non sembra applicabile all’arte politica, almeno nel senso complesso in cui la propone lo stesso Protagora. D’altro canto, però, tale esempio risulta interessante in quanto mette in luce la difficoltà di individuare la forma specifica dell’insegnamento di quest’arte, difficoltà che deriva in larga misura dalla tradizionale organizzazione politica della polis greca.
Il sofista sembra alludere a due questioni: 1) il possesso minimale di un’arte può non essere sufficiente e spesso richiede dei perfezionamenti significativi, 2) la distinzione tra il possedere in una certa misura un’arte e il saperla insegnare. Questa differenza permette a Protagora di divincolarsi dalla logica secondo cui il fatto che tutti posseggono l’arte politica renda superflua la figura del maestro. Infatti possedere ad un livello minimo un’arte non è sufficiente né ad applicarla correttamente né ad insegnarla, così come, ad esempio, colui che parla greco potrebbe non pronunciare correttamente le parole sia dal punto di vista fonetico sia dal punto di vista logico-grammaticale (Protagora era famoso per i suoi studi grammaticali che a quel tempo erano embrionali)18, in quanto non ha una conoscenza adeguata di tale lingua; ma ammesso pure che la abbia, potrebbe comunque non avere attitudini educative ecc. Pertanto ci sono molte varianti di cui tener conto e che portano a concludere che possedere un’arte non costituisce una garanzia per quanto riguarda il saperla insegnare. L’accenno en passant a questa distinzione risulta prezioso perché fornisce una risposta alla obiezione di Socrate che il sofista ricorda a 324D, quella per cui genitori virtuosi “generano” figli mediocri, nonostante si siano impegnati a trasmettere loro una buona educazione.
Riassumendo si può dire che non si individuano facilmente veri maestri di arte politica, in quanto tutti la esercitano, quindi la possiedono, ma non tutti quelli che la esercitano e la possiedono sono anche in grado di insegnarla. Protagora dunque valorizza il suo insegnamento, in quanto è una rarità anche tra i sofisti, dei quali pochi, come abbiamo già ricordato, sono capaci di svolgere questo importante compito educativo:
Io credo di essere appunto uno di questi, e di aiutare chiunque, a diventare buono e virtuoso più di tutti gli altri ed in misura corrispondente alla ricompensa che esigo, e in misura anche maggiore, come lo stesso discepolo ritiene (Protagora, 328B1-4).
Dunque, nonostante la virtù politica sia comune a tutti, in quanto tutti la possiedono, vi è un secondo livello della questione che è proprio del maestro, che non solo partecipa di questa virtù come tutti ed esercita l’arte politica grazie ad essa, ma è capace di insegnare agli altri ad essere migliori e virtuosi, cosa tutt’altro che semplice.
Il cuore della riflessione finora condotta sull’areté politica sta nella opposizione, in realtà apparente, tra virtù come natura (capacità innata) e virtù come tecnica, intesa sia nel senso di 1. esercizio, “abitudine” nel senso aristotelico del termine, e si in quello di 2. capacità tecnica che come tale può essere insegnata o appresa. In realtà non vi è nessun contrasto tra i due versanti, in quanto essi sono entrambi necessari al costituirsi del comportamento virtuoso.
Innanzitutto la predisposizione naturale alla virtù, che è già in senso debole virtù, deve essere coltivata dalla pratica e dal buon esercizio, indirizzata da una buona educazione, dall’insegnamento, altrimenti essa non si attualizza, ma rimane solo in potenza.
Questo Protagora lo esplicita bene nella lunga analisi riguardante la virtù del coraggio (349E-351B) che si configura come forza d’animo, quindi come dote innata; questa però solo se adeguatamente indirizzata da una buona educazione coincide con il coraggio, altrimenti è solo audacia, che è opportunamente distinta dal coraggio (al contrario la mancanza di questa dote naturale genera, in assenza di educazione, viltà):
Non sono la stessa cosa l’audacia e il coraggio, cosicché avviene che tutti i coraggiosi siano audaci, ma gli audaci non tutti coraggiosi: infatti l’audacia… può derivare agli uomini dall’arte, dalla passione e dalla follia, mentre il coraggio è frutto della natura e della buona educazione delle anime (Protagora, 351A4-B2).
Dunque il coraggio va insegnato, perché «consiste in una forma di educazione particolare da adattare alla natura di ognuno e da finalizzare al potenziamento di tale natura… <credo che> questa interrelazione tra natura da una parte ed educazione dall’altra si debba estendere anche alle altre virtù politiche» (BARBANTI, Unità…, p. 314). Emerge da ciò un elemento importante: per Protagora la virtù, non scaturisce dalla semplice compresenza di natura ed educazione, come di primo acchito possiamo pensare leggendo superficialmente il passo platonico, ma sembra piuttosto essere frutto della relazione tra i due, nel senso di un vero e proprio intreccio, in cui due elementi si condizionano reciprocamente.
Questa concezione dell’insegnamento della virtù, che Platone fa esprimere a Protagora-personaggio, trova conferma in un frammento protagoreo, il che rende quasi certa la sua attribuzione al Protagora storico:
Nello scritto che è intitolato Grande Trattato, Protagora disse: «due cose l’insegnamento richiede: disposizione naturale ed esercizio», e anche: «Bisogna imparare incominciando da giovani» (DK 80 B3).
Protagora diceva che non vale nulla né l’arte senza applicazione, né l’applicazione senz’arte (DK 80 C10).
Appare dunque chiaro che non si dà virtù senza predisposizione naturale, la quale è condizione necessaria, ma non sufficiente dell’essere virtuosi; per cui occorre una guida che educhi in funzione di essa (insegnamento teorico) e l’esercizio pratico da parte dell’educando. L’attenzione posta sull’esercizio rivela l’importanza della dimensione pratica: la virtù ha luogo nella prassi etico-politica, ossia è tale perché si attua in azioni concrete in un determinato contesto. L’azione virtuosa non è un automatismo ma deve essere adeguatamente stimolata e indirizzata.
Questo è compito specifico del sofista, maestro di virtù.
1.3 La conoscenza dell’utile e l’arte retorica
Si è finora legittimato il precipuo e importante compito del sofista. Tuttavia ancora non si è chiarito in che cosa consista l’insegnamento della virtù politica, da lui proposto, ossia si è detto come esso avviene ma non cosa riguarda nello specifico.
Per rispondere a questa questione occorre far riferimento ad un altro dialogo platonico, il Teeteto. Qui è stata attribuita al sofista la posizione epistemologica che identifica la conoscenza con la percezione sensibile. Questa idea è basata sulla lettura in chiave sensistica della celebre massima protagorea dell’Homo mensura - «L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono di quelle che non sono in quanto non sono» (DK 80 B1) - secondo cui le cose sono così come appaiono a ciascuno attraverso i sensi. Questa posizione viene duramente criticata: se così fosse, infatti, tutti sarebbero ugualmente sapienti, proprio perché tutti hanno sensazioni, e nessuno avrebbe bisogno di imparare alcunché dai sofisti; pertanto, se questa è la sua convinzione, Protagora, cadrebbe, senza accorgersene, in auto-contraddizione quando afferma di insegnare la virtù e di essere sapiente più degli altri (161D-E).
Data la durezza con cui il sofista è stato attaccato, Platone fa pronunciare a Socrate un’immaginaria autodifesa (165A-168C), inspirata a quello che Protagora avrebbe potuto dire per difendere e giustificare il suo compito di educatore:
Quanto alla sapienza e all’uomo sapiente, sono ben lontano dal negare che esistano, ma chiamo anzi sapiente proprio chi a uno di noi, a cui le cose appaiono cattive e per il quale sono tali, operando un’inversione, le fa apparire ed essere buone … Ma io credo che uno, il quale per una dannosa disposizione dell’anima ha opinioni ad essa conformi, con una buona disposizione può essere condotto ad avere opinioni diverse: sono queste rappresentazioni che alcuni, per ignoranza, chiamano vere, mentre io dico che le une sono migliori delle altre, ma per niente più vere. E quanto ai sapienti … per i corpi li chiamo medici; per le piante agricoltori. Affermo, infatti, che anche questi ultimi ingenerano nelle piante, quando qualcuna di esse è malata, sensazioni utili e vere in luogo di quelle dannose; così i sapienti e validi oratori fanno apparire giuste alle città le cose utili anziché quelle dannose. Poiché in realtà ciò che a ciascuna città appare giusto e bello, lo è anche per essa, finché lo ritenga tale. Ma il sapiente, in luogo di quelle singole cose che sono dannose per loro, ne fa essere ed apparire di utili. Secondo il medesimo ragionamento anche il sofista, che è così capace di educare gli allievi, è sapiente e degno di ricevere molte ricchezze da parte di coloro che ha educati (Teeteto, 166D5-167D1).
Stante il fatto che ognuno ha la capacità di percepire le cose in un certo modo, colui che sa ha una capacità, un’abilità in più: quella di trasformare una sensazione o una opinione peggiore in una migliore. Il passaggio da un’opinione all’altra non può essere assimilato alla confutazione socratica, volta a far partorire la conoscenza dall’anima dei propri interlocutori, mettendo in gioco la coppia vero-falso, che Protagora rifiuta esplicitamente, sostituendola con il criterio migliore-peggiore. Ci sono tanti diversi sapienti e a seconda dell’ambito in cui operano essi acquistano nomi diversi: quelli che fanno prevalere il migliore nei corpi si chiamano medici, quelli che si occupano delle piante agricoltori e così via. Il terreno in cui operano invece i sapienti e i bravi oratori è quello della città, alla quale fanno apparire giuste le cose utili, opponendosi a quelle controproducenti.
In questo quadro, Protagora qualifica il ruolo specifico del sofista come colui che è in grado di educare i giovani ad essere sapienti e bravi oratori, ossia a far prevalere nella città la scelta più utile. Si noti come l’educazione impartita abbia uno scopo essenzialmente pragmatico, in quanto volto ad apportare l’utile all’interno della polis; questo significa che l’efficacia o meno di questo tipo di insegnamento è immediatamente verificabile, in quanto volta a produrre qualcosa di concreto.
Dunque il sofista dovrà insegnare all’educando sia la capacità di rintracciare le cose utili (quindi la sapienza concernente le cose utili) sia quella di farle apparire giuste alla polis attraverso il discorso (l’arte retorica), dovrà quindi insegnargli ad essere sapiente e nello stesso tempo un buon retore (due abilità strettamente connesse nell’Atene del V secolo a.C., come risulta immediatamente evidente se si pensa alla natura e al funzionamento assembleare di quel sistema democratico). Il sofista dunque è un esperto innanzitutto di parole e di discorsi e insegnerà sicuramente le tecniche retoriche. Saper ben parlare nelle assemblee e nei tribunali è una capacità fondamentale per la formazione dell’uomo politico, il quale deve essere un bravo oratore per persuadere le folle. Questa tecnica può risultare importante non solo per i governanti: se si pensa che la virtù politica, come si è mostrato con il mito di Prometeo, si fonda sull’isegoria, l’arte retorica, in misura minima, dovrebbe essere appresa anche da tutti i cittadini della polis, al fine di poter bene esercitare questo diritto; tuttavia Protagora pensa soprattutto alle classi dirigenti, a quelli che propongono le soluzioni e guidano la massa. Si deve concludere che la retorica costituisce una parte essenziale dell’insegnamento dell’arte politica che Protagora doveva offrire ai suoi contemporanei. Il ruolo del maestro-sofista viene quindi in prima istanza salvaguardato in quanto “tecnico” della parola e della persuasione.
1.4 L’importanza della conoscenza
L’attività, propria del sofista, però, è connotata nel passo platonico anche, e soprattutto, come un saper trasmettere la capacità di distinguere l’utile dal dannoso nell’ambito specifico della polis. Per far ciò appare necessario che il sofista conosca in qualche misura l’utile, ciò che giova a una certa polis, che ne possieda cioè una sorta di conoscenza. Occorre però fare attenzione all’accezione che Protagora conferisce a questa parola: essa non può essere assimilata alla conoscenza certa di un teorema matematico, né ad una conoscenza che faccia da discrimine tra vero e falso. Piuttosto essa sembra una conoscenza che si basa sull’esperienza concreta di individuare l’utile, che è sempre diverso in base alle circostanze o ai soggetti di riferimento:
Io conosco molte cose che non sono utili agli uomini, cibi, bevande, medicine e moltissime altre, e poi quelle che sono utili, e altre ancora, che per gli esseri umani sono indifferenti, mentre per i cavalli sono utili; e altre cose che lo sono per i buoi soltanto o per i cani; altre che non sono utili a nessun animale ma alle piante (Protagora, 334A3-8).
Quindi il sofista è sapiente, conosce, nel senso che sa che una stessa cosa è utile in un contesto e inutile in un altro e agisce di conseguenza, individuando di volta in volta l’utile nelle diverse circostanze.
Anche nel contesto di una città l’utile non è mai assoluto ma ha una valenza temporalmente limitata, perché può mutare in seguito a cambiamenti di varia natura che in essa si possono verificare; per questo Protagora afferma che ciò che appare giusto e utile ad una città per essa lo è effettivamente, almeno «finché lo ritiene tale». L’oggetto della sapienza propria del sofista è un concetto duttile e mutevole, non assoluto, il che spiega la particolare concezione che Protagora ha della conoscenza stessa, che è poi quella che si propone di insegnare.
Per comprendere meglio che cosa egli intenda per conoscenza, può essere utile approfondire il confronto che, su questo terreno, Platone mette in scena tra Socrate e Protagora.
SOCRATE - La maggior parte degli uomini ritiene che, pur essendo la scienza spesso presente nell’uomo, non sia essa che lo comanda ma qualcos’altro: talora l’ira, tal’altra il piacere, tal altra ancora il dolore, qualche volta l’amore, spesso la paura: insomma concepiscono la scienza come una sorta di schiava trascinata da tutte le parti da quelle passioni. Hai anche tu una tale opinione della scienza, o ritieni che sia una cosa bella e capace di guidare l’uomo, e che se uno conosce i beni e i mali non possa essere vinto da alcun’altra cosa … e che il sapere sia il più valido ausilio dell’uomo?».
PROTAGORA - Da un lato condivido questa opinione di cui parli, o Socrate, ma nello stesso tempo, più che per chiunque altro per me, è disdicevole affermare che la sapienza e la scienza non sono le più potenti delle cose umane» (Protagora, 352 B3-D3).
Qui il sofista esprime una posizione che si accorda più con quella di Socrate che con quella espressa dalla massa. Tuttavia l’incertezza che manifesta Protagora nell’accettare la posizione socratica è probabilmente un segnale platonico: il sofista, pur accettando la funzione di guida della conoscenza, si discosta dalla concezione di Socrate secondo cui essa coincide con la scienza del bene e del male19. Per Protagora invece essa si risolve nella individuazione pratica dell’utile che egli è restio a connotare come “scienza”, perché teme che con questa parola si intenda un sapere stabile, oggettivo, valevole per ogni circostanza.
In conclusione, il sofista si propone di insegnare ai giovani questo tipo particolare di conoscenza, individuata come tecnica politica; questo è possibile per la peculiarità di tale arte, che per avere quella efficacia pratica a cui mira, deve fondarsi sulla capacità di rintracciare il particolare utile nelle varie città, quindi su una sorta di conoscenza che sappia discernere l’utile dal dannoso, non in assoluto, ma in relazione alle diverse circostanze. Colui che è in grado di far questo è virtuoso, nel senso che svolge bene il proprio compito all’interno della polis, in quanto ha come fine del suo agire l’utile della stessa. Una volta dunque che Protagora ha chiarito in cosa consiste il suo insegnamento il compito educativo dei sofisti appare prezioso, in quanto sono in grado di educare i governanti e i cittadini ad essere virtuosi.
Lo stesso Platone valorizza il contributo positivo che Protagora ha apportato al tema dell’educazione, come è evidente alla fine dell’omonimo dialogo (357D-E). Tuttavia, rintraccia i limiti di questa, pur positiva, posizione: Protagora sbaglia la risposta al problema educativo, individuando nell’utile il fine del suo insegnamento senza ancorarlo ad un principio oggettivo (come la conoscenza del bene e del male proposta da Socrate nel dialogo). L’utile non basta a guidare l’agire virtuoso, in quanto non è detto che esso giovi all’anima del soggetto e alla polis stessa. I sofisti «ignorano se la loro merce giova o nuoce all’anima e lo ignorano anche i loro acquirenti, a meno che non si tratti per caso di uno che, a sua volta, sia medico delle cose dell’anima <312 E>»20.
Senza un principio oggettivo di riferimento l’utile è un concetto relativo, che dipende totalmente dal soggetto che lo determina; dato che bene ed utile non coincidono, il rischio che si incontra è quello di realizzare un utile, che è tale da un certo punto di vista e dannoso da un altro. Ad esempio un medico che salva un malato fa certamente una cosa utile, ma non sa se questa sua azione possa avere delle conseguenze anche catastrofiche. A questo punto tutto appare affidato alla pura casualità.
Inoltre il discorso protagoreo ha un’ulteriore debolezza: il criterio dell’utile dovrebbe ammettere anche l’affermazione del vero in quanto, anche se solo su base pratica-esperienziale, deve essere vero che quella cosa è utile e quell’altra dannosa per quella specifica città in quella specifica situazione. Non a caso, proprio su questo terreno, Platone elabora una fondazione teorica, secondo una metodologia scientifica, che prende e supera il modello delle matematiche.
2. Il problema della virtù in Gorgia
Un altro grande sofista, verso il quale Platone mostra attenzione e rispetto21 e che merita attenzione per il suo apporto sull’educazione è Gorgia.
La situazione è totalmente diversa da quella di Protagora, Menone, che è stato allievo di Gorgia, dice di apprezzarlo più degli altri sofisti, perché si propone solo di rendere abili a parlare e non promette di insegnare la virtù, anzi deride coloro che lo fanno (Menone, 95B-C). Mentre Protagora si dichiara apertamente maestro di virtù Gorgia era, e voleva essere, famoso come un eccellente retore e grande maestro dell’arte retorica, per cui in questo ambito si presenta certamente come un educatore. Lo esplicitano chiaramente due frammenti:
Per> esercitare l’anima a fare gare di virtù: nessuno mai inventò un’arte più bella di Gorgia. (DK 82 A8)
A me sembrerebbe una bella cosa, se qualcuno fosse in grado di educare gli uomini, come Gorgia di Lentini, Prodico di Ceo e Ippia di Elide (DK 82 A 8a=Platone, Apologia di Socrate 19 E 1-3).
Nel secondo passo, Gorgia viene presentato insieme ad altri due sofisti, famosi per essere tecnici del linguaggio, il che non lascia dubbi al fatto che l’educazione a cui ci si riferisce sia quella dell’arte retorica, praticata anche da Gorgia.
Tuttavia, pur non dichiarandosi maestro di virtù come Protagora, Gorgia mostra di non ignorare questo problema. Infatti nel Gorgia, egli afferma che se gli allievi che vanno da lui per apprendere l’arte retorica non conoscono la giustizia, il bene, il bello (459D), le impareranno da lui:
GORGIA - Ma io penso, Socrate, anche se non sa queste cose le imparerà da me.
SOCRATE - Fermati qui. Dici bene infatti. Affinché tu renda retore altri, è necessario che questi conosca il giusto e l’ingiusto, o prima, o anche dopo, apprendendolo da te.
GORGIA - Certamente (Gorgia, 460A3-B1).
Il Leontinese assume l’insegnamento etico come «frutto naturale del suo operare»22. Il problema etico, qui riassunto dalle parole di Socrate, è stato introdotto proprio dal sofista a 456C-D, che lo aveva connesso al possibile utilizzo immorale dell’arte retorica: non bisogna servirsi male di essa, così come non bisogna servirsi dell’arte del combattimento e della pancrazio per ferire o uccidere gli amici.
Il sofista ha dunque una sua impostazione morale che assume come parte necessaria dell’insegnamento dell’arte retorica e di qualsiasi altra arte, il cui utilizzo deve essere retto. I maestri insegnano la loro arte agli allievi perché ne facciano un uso giusto (456E).
Gorgia sembra quindi porre una questione fondamentale per l’insegnamento, quella del buon utilizzo da parte dell’allievo delle competenze che ha acquisito, problema che ogni maestro dovrebbe tenere in considerazione quando impartisce gli insegnamenti di cui è capace.
2.1 Il kairos
Il problema morale del giusto utilizzo o, potremmo dire, dell’utilizzo virtuoso (in quanto giusto, bello e buono) delle arti che il maestro insegna all’allievo, richiama, ed è strettamente connesso a un concetto cardine del pensiero sia retorico sia etico di Gorgia: il kairos. Egli asserisce con forza la legge fondamentale che deve guidare ogni azione su due terreni:
Questa <è> la legge più divina e generale: dire e tacere, compiere e omettere ciò che si deve nel momento in cui si deve (kairos) (DK 82 B 6).
Si noti l’insistenza sul dire-tacere (sfera del linguaggio) e sul compiere-omettere (sfera dell’azione pratica): l’agire umano è sempre caratterizzato dalla necessità di fare delle scelte che sono positive se si fondano sull’individuazione del momento opportuno in cui si deve fare ciò che si deve23. Questo momento viene identificato da Gorgia con la legge divina e universale, di cui occorre tener conto per agire eticamente in ogni circostanza24.
Un soggetto è virtuoso quando le sue azioni e i suoi comportamenti si attuano nel momento opportuno (kairos), cioè quando essi corrispondono a quanto viene richiesto in una data circostanza, quando cioè sono opportuni in quel contesto.
Dunque al variare della realtà variano anche i comportamenti virtuosi, tanto che ciò che in un contesto è giusto in un altro può non essere tale: «i doveri variano secondo il momento, l’età, la caratteristica sociale; una stessa azione può essere buona e cattiva a seconda di chi ne è il soggetto»25. Questo significa che le azioni in se stesse non possono essere né virtuose né viziose, esse cioè non sono passibili di alcun giudizio, il quale va formulato considerando la relazione tra esse e il contesto in cui si attuano.
Il medesimo ragionamento riguarda tutte le azioni, quindi anche quella che svolge un soggetto praticando un’arte. Si capisce ora meglio il problema posto da Gorgia sul retto uso delle arti acquisite per mezzo dell’insegnamento, perché esso è un problema che rientra nell’orizzonte morale designato da Gorgia sulla base del kairos. Infatti la pratica di un arte in sé non può essere giusta o ingiusta, virtuosa o meno, in quanto il giudizio non si riferisce all’arte stessa, ma al suo utilizzo in un determinato contesto, utilizzo che acquista una connotazione morale: se un’arte viene applicata nella circostanza opportuna (l’arte del combattimento contro i nemici) si attua un’azione virtuosa e un corretto utilizzo dell’arte appresa; qualora invece venga utilizzata nella circostanza sbagliata (l’arte del combattimento rivolta contro gli amici), l’azione che si compie è dannosa e l’utilizzo dell’arte stessa è scorretto, perché - si afferma in Gorgia, 457A - ne stravolge lo scopo:
non sono malvagi coloro che insegnano, né … è malvagia e colpevole l’arte: lo sono invece a mio avviso coloro che non ne fanno un retto uso (Gorgia, 457A1-3).
L’uso retto di un’arte, così come le azioni moralmente giuste in genere, è dunque determinato dal momento opportuno in cui si attua, quindi dal concetto di kairos.
Per questo Gorgia può compiere, attraverso un’attenta analisi delle varie situazioni, una descrizione di ciò che si deve e non si deve fare in certe circostanze, come mostrato nel frammento, che descrive una serie di atteggiamenti morali profondamente diversi:
soccorritori di quanti sono ingiustamente sfortunati, punitori di quanti sono ingiustamente fortunati; sprezzanti rispetto all’utile, pacati rispetto al decoro; capaci di temperare, con la moderazione del senno, la smodatezza della forza; tracotanti verso i tracotanti, modesti verso i modesti, intrepidi di fronte agli intrepidi, tremendi nelle situazioni tremende. A testimonianza di queste virtù … (DK 82 B 11, 6).
Lo stesso discorso vale anche per le arti che hanno un proprio utilizzo specifico buono, ma anche, come abbiamo visto per l’arte della pancrazio, un uso improprio e/o negativo. Questo modo di procedere ha portato a considerare Gorgia uno dei precursori dell’etica della situazione, cioè di un’etica che non è universalmente data, ma che «indica, descrive le caratteristiche delle singole realtà e quindi individua la condizione della loro armonia, della loro “virtù”» (Migliori, Filosofia…, p. 152).
2.2 La pluralità e la relatività della virtù
Se i comportamenti virtuosi emergono dal contesto dell’agire pratico in relazione al momento opportuno, va da sé che per Gorgia vi sono molteplici virtù e non una definizione di virtù universalmente valida, come riferisce una testimonianza aristotelica:
Coloro che parlano in senso universale ingannano se stessi, quando affermano che virtù è l’atteggiamento morale dell’anima o la buona condotta o qualche altro concetto parimenti generico; infatti molto meglio di quanti danno queste definizioni dicono coloro che, come Gorgia, fanno un’enumerazione della virtù (Aristotele, Politica, A 13, 1260 a 25-28 = DK 82 B18)26.
In questo brano Aristotele critica chi non dà una buona definizione di virtù e dichiara che, in questo caso, preferisce piuttosto una enumerazione come fa Gorgia. Che il sofista si limiti a fornire un elenco delle diverse virtù senza definirle è confermato anche da Platone nel Menone:
SOCRATE - Ma tu personalmente per gli dèi, Menone, che cosa dici che è la virtù? dillo e non rifiutarti, in modo che io mi trovi ad aver detto la più felice menzogna, se mostrerai che tu e Gorgia lo sapete… MENONE - In primo luogo, se vuoi definire la virtù dell’uomo maschio, è facile dirti che è questa: essere in grado di trattare le cose della città, e facendo questo, fare del bene agli amici e del male ai nemici, e cautelarsi per non subire, a propria volta, qualcosa del genere. Se vuoi sapere la virtù della donna, non è difficile rispondere che la donna deve amministrare bene la casa curando le faccende interne, ubbidendo anche al marito. E ancora diversa è la virtù del fanciullo, femmina e maschio, e anche quella dell’uomo anziano, sia di quello libero sia di quello schiavo. E ci sono numerose altre virtù, cosicché non è difficile dire che cosa sia la virtù: infatti, la virtù varia a seconda di ciascuna attività ed età, rispetto a ciascuna azione, per ciascuno di noi. E così, Socrate ritengo che sia pure per il vizio (Menone, 71D4-72A5).
Anche se il sofista non risponde direttamente alla domanda, in quanto non è presente, è comunque chiamato in causa da Platone, il che rende plausibile che nella risposta di Menone siano contenuti alcuni elementi del pensiero gorgiano. Reale27 nota che «questa caratterizzazione fenomenologica della virtù, che elenca solo varie forme di essa, viene correttamente considerata di genesi gorgiana»; infatti è confermata dai frammenti di Gorgia: nell’Epitafio (DK 82 B6) e nell’Encomio di Elena (DK 82 B11, 1).
L’elenco compiuto nel passo non risponde alla domanda socratica su che cosa è virtù, ma semplicemente enumera le varie virtù, che si modulano e sostanziano in relazione alle diverse situazioni, attività e persone. Le virtù sono molteplici, in quanto ognuna è relativa ad una particolare circostanza. Il sofista ha un atteggiamento per così dire “descrittivo” e considera dunque le diverse virtù come distinte e separate28, senza darne una definizione precisa: egli parla di virtù, ma non ne possiede un concetto chiaro. Questa impostazione gorgiana è confermata da un gioco particolare presente nel Menone: sia Socrate (71C-D) sia Menone (73C, 76A-B) sostengono di non ricordare che cosa Gorgia dicesse intorno alla virtù, ossia cercano la definizione gorgiana senza però trovarla - il che è ovvio visto che non c’era29.
Questo atteggiamento non definitorio, che il sofista utilizza per parlare di virtù, e la loro caratterizzazione in relazione alla circostanza ha portato qualche studioso a ritenere che il sofista consideri le virtù il frutto di una convenzione sociale, quindi del nomos, delle leggi che regolano una determinata società e non un’altra. Infatti le virtù che il sofista descrive sono conformi alle usanze e alla tradizione del tempo e sembrano mancare di un ulteriore fondamento metastorico. Una conferma di ciò si ritroverebbe in Gorgia 482 C-D30, dove Callicle attribuisce la sconfitta di Gorgia di fronte a Socrate al fatto di aver fondato il proprio argomento su usanze condivise, cioè sul nomos anziché sulla legge naturale, cioè sulla physis:
Gorgia, alla domanda da te <Socrate> rivoltagli se fosse in grado di insegnare la giustizia a chi fosse andato da lui per imparare la retorica senza sapere che cosa fosse la giustizia, si vergognò di dire di no e disse che gliela avrebbe insegnata, solo per conformarsi ad un certo costume degli uomini, i quali si sdegnerebbero se uno dicesse di no (Gorgia, 482C4-D4).
Tuttavia come nota giustamente Untersteiner31, questa affermazione corrisponde più al pensiero di Callicle che a quello di Gorgia. Quindi appare del tutto riduttivo attribuire al secondo una simile posizione. Rimane comunque vero che il Leontinese in questo passo è presentato come una sorta di “conformista” che adegua il proprio insegnamento sulla virtù della giustizia alle convinzioni degli uomini del suo tempo. Ciò conferma che egli non possiede un pensiero ulteriore e stabile, cioè un proprio concetto di virtù32, su cui fondare una vera educazione, ma solo una sorta di sensibilità morale, corrispondente all’ambiente sociale del suo tempo. Perciò anche le norme morali da egli fornite sulla base del kairos, non hanno un fondamento oggettivo, perché mutano a seconda del contesto di riferimento e non seguono un principio stabile che regoli l’agire pratico. In questo senso allora si può dire che le virtù e le azioni morali scaturiscano, per Gorgia, principalmente dall’adesione ad un determinato contesto socio-culturale e ad una tradizione specifica, per questo sono prive di valore universale e di una rigorizzazione concettuale. 2.3 La non-insegnabilità della virtù
Una volta compresa la sua concezione di virtù, si capisce la motivazione profonda per cui Gorgia non si è mai dichiarato “maestro di virtù”: se la virtù si configura come una sorta di intelligenza della realtà, non statica né sempre uguale a se stessa, che cambia nelle varie situazioni a cui si applica, il suo insegnamento non può essere assimilato a quello riguardante le altre arti, ad esempio la retorica. Dato che la virtù non coincide con una legge assoluta che deve essere applicata in ogni caso, a prescindere dalla situazione data, ma è più vicina ad una «sensibilità pronta e intelligente per le situazioni psicologicamente più complesse»33, non è possibile nemmeno parlarne in astratto, ma solo in riferimento alle azioni contingenti.
Tuttavia, anche se la virtù, per questa sua peculiare caratteristica, non può essere insegnata o appresa, risulta possibile “educare” ad avere un comportamento virtuoso, cioè indirizzare gli uomini, attraverso l’esempio concreto, per così dire “di vita”, verso una corretta valutazione delle situazioni a cui corrisponde un altrettanto corretto agire. Non solo, ma una volta chiarita la non insegnabilità della virtù risulta comunque possibile fornire alcune coordinate, le linee di fondo di un atteggiamento virtuoso che, in un dato contesto, valgono “per lo più” cioè nella maggior parte dei casi.
Di molti soldi, infatti, hanno bisogno quelli che molto spendono, non quelli che dominano i piaceri naturali, ma quelli che sono schiavi di tali piaceri e coloro che cercano di acquistare onori grazie alla ricchezza e alla magnificenza … Nemmeno per gli onori porrebbe mano a simili imprese un uomo anche solo un po’ assennato. Dalla virtù, infatti, e non dalla malvagità, vengono gli onori (DK 82 B 11a, 15-16).
Insieme alle indicazioni concrete su come comportarsi nei confronti del denaro, Gorgia mostra anche la convenienza di tale atteggiamento virtuoso: la virtù viene ripagata con onori, quindi se si vuole tale riconoscimento conviene attuarla. E ancora aggiunge:
Per i vecchi, infatti, io non sono motivo di afflizione; per i giovani, d’altra parte, non sono inutile, di quelli felici non sono invidioso, ho compassione degli infelici; Non disprezzo la povertà, né antepongo la ricchezza alla virtù, ma la virtù alla ricchezza (DK 82 B 11a, 32).
Si afferma qui la preminenza della virtù sulla ricchezza, dove per virtù probabilmente si intende la continenza e la giustezza di questo atteggiamento pervasivo, che si declina nelle varietà delle situazioni. Il sofista, lungi dal non possedere un solido background morale, fornisce degli esempi di comportamento virtuoso. Ma in questi conferma la sua adesione agli standard morali più diffusi nella società tradizionale.
2.4 L’esempio gorgiano
Inoltre, sulla base di alcune testimonianze, è possibile supporre che questa logica esemplificativa dipendeva anche dalle sue scelte di una vita che è stata all’insegna della virtù:
Visse con mente lucida quasi ottanta anni. E poiché un tale gli domandò quale stile di vita avesse osservato, in modo da vivere così tanto tempo in modo armonico e nel possesso dei sensi rispose «Non ho mai fatto nulla in funzione del piacere» (DK 82 A11).
E ancora:
Non c’è dubbio che il siciliano Gorgia visse centootto anni. - tra gli oratori, Gorgia, che alcuni chiamano sofista<visse> centootto anni; poi morì, in quanto si astenne dal cibo. Dicono che, quando gli fu domandata la causa della sua lunga e sana vecchiaia, nel pieno possesso di tutti i sensi, rispose «perché non mi sono mai dato ai banchetti degli altri» (DK 82 A13).
Il sofista ha condotto una vita equilibrata e virtuosa, lontana dagli eccessi del piacere e sotto il controllo dell’auto-dominio, perciò egli è riuscito a vivere piuttosto a lungo, superando certamente la durata della vita media degli uomini dell’epoca.
Non c’è dubbio che Gorgia sia stato uomo temperante, che è riuscito ad agire virtuosamente
esercitando due cose più di tutte quelle altre che bisogna esercitare: senno e forza, l’uno per decidere, l’altra per mettere in pratica (DK 82 B11,6).
Indirettamente dunque il sofista ha indicato una sorta di ricetta per la virtù: occorre esercitare senno e forza, due capacità inscritte nell’uomo. Esse pur essendo innate non sono per così dire “automatiche”, ma solo attraverso l’esercizio possono emergere. Si afferma, come in Protagora, quell’intreccio fruttuoso tra esercizio pratico e predisposizione naturale che porta all’acquisizione della virtù.
3. Conclusioni
In conclusione, ci sembra di poter dire che sia Protagora sia Gorgia, seppur in modo diverso, hanno fornito un valido e positivo contributo alla riflessione sul problema educativo, ignorato dalla massa, in particolare sulla questione dell’insegnamento della virtù, qui presa in esame. Questi maestri itineranti di sapienza su compenso non hanno solo posto con forza il problema, ma hanno fornito materiale per un vivo confronto, tanto che anche Platone si è posto in dialogo con loro. L’Ateniese apprezza entrambi, ma discute teoreticamente soltanto con Protagora; questo perché, come mi sembra di aver messo in luce, gli atteggiamenti dei due sofisti sono opposti. Il sofista di Abdera ha un impianto gnoseologico e si dichiara “maestro di virtù”, inglobando in questa posizione tanto la tecnica retorica, quanto la conoscenza dell’utile. Attraverso quest’ultima, nello specifico, egli fornisce una concettualizzazione, una base alla sua pretesa di insegnare la virtù, legittimandola.
Gorgia al contrario, sebbene non abbia ignorato il problema della virtù e di una prassi eticamente corretta, circoscrive il suo insegnamento all’arte retorica e non arriva ad una rigorizzazione concettuale della sua posizione in ambito etico, limitandosi ad una atteggiamento descrittivo e situazionale. Per questo Platone non discute con lui a quel livello di etica filosofica che il retore rifiuta, senza per questo disprezzarlo.
Nonostante questa differenza i due sofisti possono però essere accomunati dagli esiti simili in cui incappa la loro riflessione etica, nella misura in cui entrambi aprono la strada a posizioni immoralistiche, portate avanti dagli altri sofisti34. Questo spiega perché Platone, pur considerando gli aspetti positivi del loro contributo, sente l’esigenza di fondare teoreticamente le sue tesi muovendo criticamente dalle loro posizioni.