L’educazione dei bambini come progetto della comunità
Nel cuore della Toscana, a meno di un’ora da Firenze, Pisa e Siena, il Comune di San Miniato rappresenta una realtà locale che ha saputo conciliare la propria storia con un livello di sviluppo sociale economico e culturale che la rende una fra le tante realtà attive e vivaci del centro-nord dell’Italia.
Le politiche di welfare hanno saputo conseguire risultati superiori alle medie comparative disponibili ed è in questo quadro generale che anche le politiche per l’infanzia si sono sviluppate negli ultimi quarant’anni.
Lo stesso Loris Malaguzzi ha sempre dichiarato di considerare San Miniato un’esperienza speciale, che onora la cultura dell’infanzia con i suoi nidi e con la forza della responsabilità della sua comunità per l’educazione dei cittadini più piccoli.
La domanda e l’offerta di servizi educativi per la prima infanzia si sono rincorse nel tempo a partire dalla fine degli anni’70 del secolo scorso, giungendo a determinare una situazione in cui – attualmente – circa il 70% dei bambini da 0 a 3 anni chiedono di accedere alla rete delle opportunità dei servizi offerti e ben oltre la metà degli stessi bambini frequenta un servizio educativo già nei primi anni di vita, mentre tutti i bambini hanno questa esperienza fra tre e sei anni.
Tutto questo accade in un quadro in cui il protagonismo di una pluralità di soggetti pubblici e privati si colloca all’interno di una responsabilità di governo assunta pienamente da parte dell’amministrazione comunale, anche mediante l’assunzione di una responsabilità finanziaria per coprire la parte prevalente dei costi di gestione del sistema.
Oltre il 75% dei costi di gestione sono infatti coperti dall’amministrazione pubblica; questo consente di garantire alle famiglie un accesso tendenzial mente equo e generalizzato, graduando il peso tariffario sull’effettivo potere contributivo delle famiglie.
In questo modo, lo sviluppo delle politiche e la diffusione dei servizi hanno condotto al radicamento delle esperienze all’interno della comunità, educare è diventato un mestiere sociale e l’educazione dei bambini un progetto della comunità.
Ma questa esperienza ha fondamento nel riconoscimento e nella identificazione di una nuova immagine del bambino come soggetto attivo e
competente, attivo protagonista dei processi che riguardano la sua crescita e lo sviluppo della sua esperienza e conoscenza. Non possiamo non partire proprio da questo concetto per raccontare questa storia.
Le immagini dell’infanzia nei secoli ci aiutano a capire l’importanza di questo tema, il suo carattere fondamentale, segnalandoci come i bambini siano stati da sempre concepiti non tanto come persone quanto come esseri deboli, passivi, mancanti di competenze e autonomie e dunque semplicemente bisognosi dell’affetto e della cura di figure allevanti adulte amorevoli, pronte e solerti. Ma anche le immagini che ci raccontano del nostro passato più recente,
o di quel passato – in molti casi ancora presente – in cui i bambini vivono in condizioni di rischio di sopravvivenza, ci dicono con quante opacità sia stata anche in questo caso mascherata la rappresentazione dei bambini come persone, finendo per risolvere nelle istanze della tutela l’effettivo riconoscimento della loro identità.
Al contrario, la nuova immagine del bambino come soggetto ricco, attivo e competente riconosce i bambini come cittadini nel pieno dei loro diritti, come soggetti curiosi, socievoli e forti, attivamente coinvolti nella creazione delle esperienze e nella costruzione delle loro identità e conoscenze.
I bambini, secondo la nostra idea, posseggono una naturale e formidabile attitudine ad essere attivamente protagonisti della loro crescita e del loro sviluppo, soprattutto nella misura in cui si tenga adeguatamente conto del valore della loro curiosità spontanea verso il mondo e della loro straordinaria abilità di essere costruttivamente presenti all’interno dei contesti di esperienza nei quali sono coinvolti.
Questo bambino ricco, attivo e competente non è prevedibile, e così il progetto educativo dei servizi di San Miniato si orienta alla prospettiva di creare opportunità.
Proviamo a spiegarci meglio con alcuni esempi:
Il contesto fisico è considerato come centrale per le esperienze dei bambini, come qualcosa che sostiene e nutre i processi di apprendimento, piuttosto che esserne un semplice sfondo;
La conoscenza si genera all’interno di contesti spazio-temporali specifici e un nido rappresenta un ambiente e un contesto dove bambini e educatori condividono la vita quotidiana, costruiscono relazioni ed esperienze e generano nuove consapevolezze e al tempo stesso nuove conoscenze; e
La centratura sulle opportunità piuttosto che sui risultati accompagna gli educatori verso la conquista di una comprensione più profonda di come i bambini apprendono piuttosto che semplicemente relativamente a cosa i bambini imparano.
Un progetto con un centro, costituito dai bambini riconosciuti come soggetti attivi e costruttivi, protagonisti delle loro crescita e dello sviluppo della loro conoscenza mediante la relazione con un contesto di opportunità organizzate e aperte al possibile.
Proprio per questo, a San Miniato non esiste alcun riferimento a “servizi per bambini di genitori che lavorano” quale principio ispiratore delle politiche per l’infanzia. Allo stesso modo non c’è un dibattito rispetto al fatto che sia meglio per un bambino piccolo stare sempre a casa con la madre o frequentare un nido o un altro servizio educativo. La questione è di garantire a bambini e genitori contesti diversi e complementari fra di loro.
I nidi non allontanano la responsabilità dai genitori, ma piuttosto li rafforzano nel loro ruolo e approfondiscono la loro consapevolezza dell’identità e della potenzialità educativa di loro stessi e dei loro bambini. E’ anche questo il motivo per cui San Miniato aspira ad accogliere nei propri servizi educativi tutti i bambini e le famiglie della propria comunità.
La prospettiva è quella di servizi disponibili per tutti, nel quadro di una assunzione di responsabilità pubblica che attesti la relazione virtuosa che può venirsi a creare fra politica pubblica, società civile e bambini, in un momento in cui la politica persiste nel prendere direzioni che sono prevalentemente diverse da quelle proprie dei bambini.
Nei paragrafi successivi cercheremo di percorrere le aree nelle quali l’approccio di San Miniato si identifica e si sviluppa:
Lo spazio educativo come generatore di esperienze possibili
L’idea che lo spazio concorra alla qualità delle esperienze che bambini e adulti sviluppano nei contesti educativi non è ancora sufficientemente espressa nella teoria e nella pratica della pedagogia per la prima infanzia.
Infatti, se da un lato il legame tra spazio ed esperienza educativa ha radici profonde nelle riflessioni più avvertite che la pedagogia ha svolto nel tempo – segnandone in particolare alcuni passaggi fondamentali dello scorso secolo – d’altra parte la pratica diffusa dimostra come la consapevolezza dell’importanza di questa relazione sia ancora molto da costruire.
Sebbene lo spazio e la sua organizzazione tradiscano la teoria dell’educazione che appartiene alla tradizione dell’insegnamento scolastico, è bene chiarire da subito che si tratta di una teoria molto lontana dal riconoscimento dell’identità del protagonismo dei bambini nei processi della loro crescita e dello sviluppo delle loro esperienze, conoscenze e apprendimenti.
Se partiamo dalla rappresentazione di un aula scolastica tradizionale – simbolo di un’istituzione scolastica che resiste all’urgenza di rinnovarsi – è infatti proprio per individuarla come l’esatto opposto di ciò che abbiamo in mente. L’aula di una scuola rappresenta infatti la asimmetria degli attori in gioco e la loro distinzione fra chi rappresenta il deposito di un sapere da trasferire e chi un contenitore vuoto da riempire. Di questo costituisce corollario la mancanza del diritto di presenza di una dimensione sociale orizzontale, capace di comprendere la possibilità di relazioni, scambi e dimensioni costruttive condivise.
Quando pensiamo alla socialità dei bambini nei primi anni di vita, al modo in cui può favorire e sostenere processi di esperienza e conoscenza e insieme al modo in cui le situazioni che la accolgono possono esserle di supporto, dobbiamo entrare in rapporto con una dimensione di complessità che passa anche attraverso il modo in cui lo spazio accoglie la socialità.
Se vogliamo, per comodità, prendere spunto dalla classe scolastica dobbiamo intanto pensare che l’unità di spazio che fa da riferimento primario all’esperienza dei bambini in un servizio educativo abbia una propria identità molto più complessa e articolata.
Ciò che vogliamo chiamare sezione è dunque insieme unità e al contempo sistema, che compone elementi e possibilità diverse al suo interno – per il gioco, per le attività, per le situazioni di cura, per il pranzo e per i tempi del riposo – pensando che questa unità complessa sia capace di accogliere esperienze diverse che si svolgono nel tempo di un’intera giornata.
L’articolazione dello spazio in ambiti – aperti ma ben definiti e opportunamente arredati – favorisce lo sviluppo di queste esperienze; un ambiente ricco di stimoli e opportunità organizzate costituisce infatti il presupposto contestuale giusto perché i bambini non si sentano spaesati in una dimensione eccessiva e priva di riferimenti, ma possano riconoscere piuttosto la loro misura e trovare la possibilità di orientarsi e muoversi autonomamente.
Se questo è quello che abbiamo in mente pensando all’unità di riferimento primario che lo spazio deve offrire all’esperienza quotidiana della relazione e del fare dei bambini in un servizio educativo, dobbiamo tuttavia chiarire da subito come questo riferimento non debba essere anche un segno di confine, un limite e una chiusura alla dimensione di possibilità che vogliamo che lo spazio offra all’esperienza quotidiana dei bambini.
Così le sezioni non sono – non devono essere – unità a se stanti, ma elementi in relazione. Questa prospettiva ci suggerisce innanzitutto l’idea che lo spazio debba offrire opportunità di connessione e integrazione alle sezioni, chiarendo da subito però che questa forma di relazione non sarà mai corrisposta da ciò che gli ambienti scolastici tradizionali prevalentemente utilizzano in questo caso, cioè il corridoio come ingrediente architettonico che celebra contemporaneamente alla connessione la completa separazione e autonomia fra gli elementi che connette.
Lo spazio di relazione e connessione che immaginiamo è invece dotato di una identità e di una articolazione interna che lo rende luogo non solo da transitare ma pienamente da abitare. Luogo in cui si ritrovi una dimensione anche sociale più ampia di quella della sezione, eppure capace di offrire angoli, anse, ambiti raccolti. E’ uno spazio comune, caratterizzato da tratti meno domestici, che mette in relazione gli ambienti con trasparenze, tra i locali e verso l’esterno.
Se fino a questo punto abbiamo iniziato a dare il senso di uno spazio che non solo contiene ma che accoglie una rete di possibilità interconnesse tra di loro, il nostro gioco si completa pensando che fra queste possibilità debba trovar riconoscimento anche quella speciale dimensione di esperienza che si può generare solo nella dimensione sociale del piccolo gruppo.
Così, accanto ai luoghi per accogliere e sostenere l’identità sociale del gruppo-sezione e insieme a quelli capaci di non parcellizzare l’esperienza dei diversi gruppi, prende forma l’idea che altri spazi debbano accogliere opportunità specifiche collegate a una dimensione sociale di esperienza più raccolta.
Ambienti ben attrezzati per specifiche attività si configurano come laboratori per offrire ai bambini occasioni di esperienze complementari a quelle già disponibili nello spazio della sezione e che si distinguano dalla routine quotidiana per offrire nuove possibilità di apprendimento. I laboratori completano la prospettiva di rendere lo spazio come una sorta di rete di possibilità per bilanciare aperture e chiusure, stabilità e novità e per sostenere anche negli adulti la possibilità e la capacità di rendere dialogica e policentrica la matrice che sostiene lo sviluppo delle esperienze nello spazio e nel tempo.
Se abbiamo fin qui concentrato la nostra attenzione sugli elementi di base che pensiamo utili per concepire lo spazio interno di un servizio educativo nelle funzionalità più utili all’esperienza dei bambini, anche gli spazi di riferimenti per gli adulti devono ricevere attenzione e cura nell’essere pensati come un’opportunità preziosa per sostenere la dimensione delle scambio e dell’elaborazione collegiale del lavoro tra gli educatori e insieme per essere riferimento accogliente per le situazione di relazione con le famiglie.
Gli ambienti del nido trovano completamento in uno spazio esterno che offra ai bambini ulteriori possibilità di esperienze e relazioni. Il giardino è uno spazio tanto essenziale nella costruzione di un servizio per la prima infanzia da averne nel tempo rappresentato la denominazione più diffusa nel mondo. Non è solo uno spazio scoperto ma un luogo che presenta complessità e articolazione analoghe a quelle dello spazio interno, qui fortemente caratterizzate dal rapporto con gli elementi naturali – alberi, piante, acqua – nel contesto mutevole del tempo atmosferico e delle stagioni.
Lo spunto della relazione con l’esterno può essere la base per sottolineare, insieme al carattere “non istituzionale” di un servizio educativo, anche l’importanza di considerare anche lo spazio esterno come una risorsa non semplicemente circostante ma chiaramente in relazione con tutte le altre:
partendo dagli spazi di immediata accessibilità dall’interno, che possono accogliere opportunità organizzate non così diverse da quelle disponibili nello spazio interno;
per proseguire con opportunità sostenute da un arredo capace di accogliere esperienze di movimento più libero;
fino a ulteriori possibilità più connotate come contesti di esplorazione e da possibilità d’uso non già definite.
Un curriculum costruito sulle opportunità e aperto al possibile
Chiunque osservi con curiosità i bambini la cui esperienza sia accolta in un adeguato contesto di opportunità è facilmente condotto a prendere atto, e insieme a riflettere, sul fatto che i bambini sanno e possono fare molte cose. Qui vorremmo sottolineare che tutto questo si realizza fin dall’inizio e già in modo straordinariamente evidente osservando un bambino di pochi mesi seduto in prossimità di un “cestino dei tesori”, mentre i suoi occhi accompagnano le mani e la bocca ad assaggiare gli oggetti disponibili in quel campionario del mondo raccolto davanti a sé.
Questo interesse per gli oggetti – inizialmente esplorativo e appena dopo sperimentale – non esclude, ma può comprendere da subito, la capacità di condivisione con altri bambini, se solo anche questi sono a portata di occhi, o di mani.
Le radici della naturale attitudine dei bambini a conoscere il mondo attraverso l’esplorazione e la sperimentazione attiva di cosa è possibile fare e degli effetti che si producono facendolo sono profonde, coincidendo almeno con l’inizio della vita, precedendo di lunghi passi le capacità simboliche e linguistiche e insieme costituendone l’indispensabile presupposto.
Siamo dunque realmente molto lontani dall’idea che i bambini siano organismi viventi destinati soltanto col tempo a diventare persone, quasi che la loro identità sia non solamente esposta al cambiamento – come peraltro quella di tutti, adulti compresi, per l’intero corso della vita – ma invece relegata, nei primi anni, ad essere semplicemente in corso di prima formazione.
E da questo punto di prospettiva, l’idea che la base dell’esperienza e dell’essere dei bambini sia la relazione affettiva con chi si prende cura di loro non è falsa in sé, ma certo manchevole per difetto, se arriva a determinare l’idea che le relazioni affettive primarie non siano uno degli elementi necessari ma piuttosto il solo elemento utile e significativo nella prima età.
In realtà, l’idea che i bambini transitino dalla dimensione socio-affettiva per affacciarsi poi a quella cognitiva e linguistica è semplicemente vecchia, certo non rappresentativa di quella immagine “olistica” dell’identità infantile cui sempre più ci si riferisce – e cui qui ci vogliamo esplicitamente riferire.
Vero è, al contrario, che “essere in relazione” e “fare” sono originari elementi di esperienza, concetti che si sostengono a vicenda e co-evolvono. È solo il punto di vista dell’adulto che, per propria comodità, segmenta la costruzione dell’identità infantile mettendo prima la relazione di cura e solo dopo l’insorgere dei processi di conoscenza e di apprendimento. I bambini, in realtà, sono da subito avidi di relazione e di conoscenza allo stesso modo e allo stesso tempo.
Non più, dunque, bambini come persone in corso di costruzione – e intanto semplici organismi bisognosi di cure e affetto – ma bambini-persone, soggetti protagonisti dei propri processi di crescita, relazione, conoscenza e apprendimento. Da subito.
Se questo è il retroterra delle nostre riflessioni sul curriculum, il suo complemento è rappresentato dal considerare che se la natura ha regalato all’uomo un tempo lungo per la propria infanzia – talmente lungo da affondare le radici in un esordio che lascia spazio per pensare anche, pur sbagliando, che la nascita di un bambino non coincida con la nascita di una persona – forse sarebbe saggio pensare che questo dono merita un tempo altrettanto lungo per essere coltivato.
E in questo frangente, si potrà riflettere anche sul fatto che se l’obbiettivo dell’alfabetizzazione – centrale in ogni sistema educativo – ha rappresentato e rappresenta tuttora l’orientamento più corretto per creare condizioni di pari opportunità per tutti, il punto che resta comunque aperto è quello di riflettere su di quali alfabeti abbiano bisogno le persone per esercitare in modo attivo e critico la loro cittadinanza e quale risorsa costituisca il mantenere aperte a lungo le potenzialità di conoscenza prima di inserirle in percorsi formalizzati di apprendimento.
Forse è l’amore per l’intelligenza, insieme alla curiosità di cogliere il suo primo insorgere nel fare attivo, costruttivo e appassionato dei bambini a costituire il nostro punto di partenza.
E insieme l’idea che la prospettiva dell’educazione sia quella di creare le condizioni perché questo accada, anche prima di pensare a che cosa condurrà. Se, infatti, molte teorie e pratiche dell’educazione e dell’istruzione sono costruite intorno a una sorta di imbuto che conduce le diversità a mitigarsi o annullarsi in ossequio all’obbiettivo dell’alfabetizzazione, la prospettiva che abbiamo in mente è l’esatto opposto, pensando che la diversità non è solamente un fondamentale valore intrinseco ad ogni individuo, ma anche il terreno sul quale l’educazione può costruire il profittevole obbiettivo del suo progetto: creare persone curiose del possibile e capaci di attribuire valore e potenzialità all’incontro fra le diversità, non più intese come spesso sono, ovvero un modo per distinguere chi sta avanti da chi rimane indietro, ma invece colte per quello che sono davvero, cioè come il principale e irrinunciabile fondamento della nostra capacità di allargare lo sguardo sul mondo e sulla vita.
Praticare questa idea vuol dire tenere insieme molte cose: la cura per lo spazio e l’idea che il contesto debba entrare in relazione con le relazioni di chi lo abita, l’idea che le famiglie stiano dentro alla scuola e non fuori, l’idea che la cura dei processi richieda ascolto e capacità di riflessione, l’idea che la documentazione sia un ingrediente fondamentale per sostenere la sempre difficile interpretazione delle esperienze e l’idea che il lavoro educativo sia una avventura da condividere in gruppo, mettendo in gioco le individualità e tenendole in dialogo. Tutti questi aspetti stanno insieme e concorrono a un tutto che da subito diventa – e appare – maggiore della somma degli elementi che lo compongono.
Allo stesso modo, la buona pedagogia rifugge dalla stasi e inserisce ogni risorsa e azione che ne sia coinvolta in una dimensione di cambiamento. Nulla di strano se appare ovvio che l’educazione sia un processo che comporta cambiamento, a patto di aver chiaro che la dimensione del cambiamento non riguarda solamente o principalmente i bambini, ma coinvolge accanto e insieme a loro anche educatori, insegnanti, genitori e poi la scuola stessa, con il quadro delle opportunità che offre, insieme a tutto quello che la circonda, a cominciare in particolare dalla comunità locale.
E così, fra esperienza e memoria, trova ospitalità una dimensione riflessiva che coinvolge tutti e che, lungi dal costituire semplicemente il contesto della valutazione e della verifica degli apprendimenti dei bambini, accoglie la sensibilità verso l’inatteso e l’esercizio del confronto e della discussione come strada maestra per interpretare e capire l’individualità di ogni bambino.
Non è un caso che la pedagogia di cui stiamo parlando resista alla prospettiva di individuare traguardi, scegliendo invece di assumere un orientamento possibilista e problematizzante rispetto al futuro: vogliamo che sia una pedagogia in cui la ricchezza delle opportunità messe in gioco, in termini di risorse umane e materiali, è inversamente proporzionale alla attenzione a determinare in anticipo cosa succederà.
Una delle conseguenze più interessanti che ne derivano è costituita dal fatto che la pedagogia di cui parliamo non comprende la possibilità di essere smontata in pezzi per essere rimontata altrove, ma solo quella di essere oggetto di altre e diverse interpretazioni.
La partecipazione delle famiglie e l’educazione familiare
Il tema del rapporto fra famiglie e servizi educativi ha accompagnato da sempre la storia delle esperienze dei nidi di San Miniato per l’evidente legame con la propria famiglia che accompagna un bambino piccolo nello sviluppo di una esperienza extra-familiare come quella di frequentare un servizio per l’infanzia.
E tuttavia, se inizialmente il tema è stato – in modo peraltro del tutto opportuno – quello di mettere a fuoco requisiti e elementi necessari per costruire la nuova esperienza di un bambino in un nido in coerenza, continuità, integrazione con quella già sviluppata nella sua famiglia, possiamo oggi riflettere in modo più ampio e articolato su quali siano, in senso più generale, le potenzialità che possono derivare dall’inserimento della storia dello sviluppo di un bambino nei suoi primi anni di vita all’interno dell’esperienza di rapporto fra la sua famiglia e un servizio educativo.
L’idea che i servizi educativi per la prima infanzia abbiano come interlocutori non solo i bambini ma anche i genitori deriva dall’idea dello sviluppo come impresa congiunta tra i bambini e le persone che si prendono cura di loro e porta in evidenza l’importanza di uno scambio continuo e reciproco tra i diversi contesti nei quali i bambini crescono.
In questo quadro risaltano valori e potenzialità evolutive del condividere – tra genitori e tra genitori e educatori – sia la lettura dei processi di crescita dei bambini che di costruzione delle identità genitoriali.
Occorre infatti aver presente che la frequenza di un servizio per l’in fanzia può offrire ai genitori la possibilità di esplicitare la propria immagine di bambino e del ruolo genitoriale che ad essa corrisponde e che confrontarla con le tante altre con cui entra in contatto può promuovere processi di evoluzione e cambiamento.
Inoltre, un servizio per l’infanzia può accogliere rappresentazioni e idee che le famiglie hanno elaborato rispetto al proprio bambino per inserirle in un percorso progressivo e condiviso di concretizzazione positiva, teso ad accreditare ogni bambino di autonomia e diritto ad essere riconosciuto come interlocutore attivo in ogni relazione.
In origine, alcune delle immagini riduttive e semplificate che i genitori affidano alle educatrici nei primi contatti con loro, al nido, ci rappresentano un bambino fragile – “non può sopportare contrapposizioni e negazioni” – o poco flessibile – “non si riesce a farlo comportare diversamente” – che viene descritto sulla base di ciò che “è/non è” ancora capace di fare ma – tutto sommato – assolutamente chiuso nell’egocentrismo e incapace di rinunce, abile nel condizionare gli atteggiamenti dei genitori attraverso bizze infinite, curioso nei confronti degli altri bambini ma non disposto a condividere, etc. .
Intorno a queste immagini esplodono ben presto contraddizioni e già nella fase di ambientamento i genitori che condividono l’esperienza possono iniziare a ridefinire tra loro e con le educatrici idee e atteggiamenti relativi ai bambini, scoprendo in loro potenzialità per lo più inattese.
Nel corso dell’esperienza assumono un ruolo determinante tutte le strategie che sostengono, valorizzano e documentano i percorsi fatti dai bambini, perché queste vanno a costituire il terreno per una rilettura insieme alle famiglie del valore e della specificità di ogni percorso individuale, verso una ridefinizione del rapporto concreto con i bambini in cui sia riconosciuto maggior rispetto all’interlocutore e sia contemporaneamente assunta una più matura responsabilità da parte degli adulti che operano scelte educative.
Se infatti la rappresentazione più diffusa è che “si deve essere genitori competenti, ma non si è competenti in quanto genitori”, l’opportunità di incontrarsi per confrontare e scambiare esperienze, punti di vista, problemi, dubbi sull’educazione del proprio figlio costituisce una modalità decisamente importante per elaborare modelli educativi di riferimento funzionali.
Il presupposto consiste nell’intenzione di rispondere alla maggior consapevolezza della complessità dei ruoli genitoriali e alla necessità di fare emergere competenze e risorse individuali per far fronte in maniera adeguata a questo impegno.
Nell’esperienza del confronto fra genitori all’interno del gruppo – con la presenza dell’educatore in funzione di coordinatore non direttivo della situazione – nascono pensieri che sempre più si organizzano e si chiariscono, permettendo ad ognuno di raggiungere una sempre maggiore consapevolezza delle proprie potenzialità educative.
La crescita – in questo caso – avviene non tanto con l’acquisizione di competenze che un esperto trasmette ai presenti, ma nella conquista individuale di nuovi livelli di consapevolezza delle proprie potenzialità.
Da questo punto di vista, il diritto di parola, la possibilità di momenti di riflessione e confronto assolvono ad una funzione maieutica, aiutano le persone a sentirsi valorizzate e rappresentano il cammino quasi automatico verso la presa di coscienza.
La qualità dell’incontro interpersonale – non gravato dal giudizio e dalla valutazione ma caratterizzato dall’accoglimento del punto di vista espresso da ognuno come ingrediente messo a disposizione del gruppo – rappresenta senza dubbio l’elemento più significativo nel determinare l’efficacia e la riuscita di un percorso di crescita personale.
Anche l’opportunità – già nella fase di attesa di un figlio – di fare parte di gruppi di genitori e di avere contatti con i bambini può costituire un’altra importante opportunità psicologica e culturale che aiuta a leggere diversamente ed in maniera nuova la costruzione della maternità/paternità, senza pensare di poter annullare ansie, timori o fantasie, ma certamente offrendo un contesto capace di farle diventare esplicite e di contenerle.
Rimangono sullo sfondo – ma su uno sfondo che connota in modo chiaro il corso delle esperienze – quegli elementi della cultura dell’infanzia che fanno parte strutturale di un servizio per l’infanzia e che possono essere una importante suggestione per i genitori:
la grande cura degli aspetti organizzativi ed anche estetici, perché i bambini possano cogliere il valore che a loro si riconosce;
la grande attenzione ai tempi ed alle strategie individuali nell’approccio alle situazioni nuove e il profondo rispetto per il “momento dell’esitazione”, quando i bambini si guardano intorno prima di agire;
l’accettazione incondizionata delle diversità in cui le intelligenze si esprimono, senza misurare quanto si è “più o meno” rispetto agli altri.
In questo quadro, la riflessione sull’identità dei bambini piccoli e sulle possibilità di ognuno di essere un buon genitore per il proprio figlio accoglie, nel tempo, problematiche diverse e, tra loro, strettamente connesse; per fare ancora altri esempi:
quali contesti di esperienza e di relazione offrire ai figli;
come accompagnare i figli verso la scuola dell’infanzia;
l’importanza di una presenza interessata delle famiglie nei servizi per l’infanzia;
la necessità di individuare un sistema di regole e gli spazi di possibile trasgressione da costruire a livello familiare; e
la coerenza degli stili educativi e le differenze tra genitori e nonni nella relazione con i bambini.
E’ rispetto a tutto questo che i gruppi di genitori aprono il confronto e la discussione con la mediazione degli operatori presenti, ed è un confronto che avviene all’interno del contesto educativo, non in un ambiente neutro o lontano dai bambini: anche per questo, si tratta di qualcosa che “lascia il segno”, diventando capace di appartenere maggiormente ai protagonisti che lo alimentano.
Protagonismo dei bambini e educazione
Così, avviandoci alla conclusione, l’incontro fra la testa e il cuore individua uno dei presupposti su cui si fonda, nell’esperienza dei nidi di San Miniato, l’attitudine e il costume – o almeno lo sforzo – di coniugare la definizione forte della cornice organizzativa con la grande libertà riconosciuta ai processi dell’esperienza.
Intorno ad esso si sviluppa l’attenzione ai processi di apprendimento dei bambini, la valorizzazione dell’ambiente come risorsa relazionale, la radicale affermazione del carattere aperto e collegiale del lavoro educativo, l’investimento sulla memoria come strategia per rendere visibile il protagonismo dei bambini e il riconoscimento che la partecipazione delle famiglie non è solamente un fatto dovuto, ma una condizione fondante del progetto di un servizio educativo.
L’idea che il protagonismo dei bambini sia non solo un concetto da evocare, ma una potenzialità intorno cui animare condizioni e opportunità, conduce anche a ritenere che il dovere di testimonianza di questo protagonismo debba essere un obbiettivo primario della pedagogia della prima infanzia, per compensare il difetto di visibilità che i bambini hanno in quanto persone non sempre riconosciute nel loro diritto di espressione e di parola e anche per condurre a saltare con l’occhio e con lo sguardo oltre il muro del pregiudizio, dell’indifferenza, della sistematica svalorizzazione e sottostima dell’identità dei bambini.
E così nella centralità che il tema della documentazione assume nell’esperienza samminiatese riecheggia l’idea che proprio la documentazione sia strategia maestra per rendere visibile un bambino competente e protagonista, per scuotere la sensibilità della cultura adulta verso un nuovo rispetto e riconoscimento della sua identità di persona.
Progettare l’azione educativa a partire dall’organizzazione di opportunità determina per gli adulti una transizione dall’attenzione a ciò che i bambini sanno fare a come i bambini sviluppano le loro esperienze. Questo conduce sulla scena un educatore ricercatore, una persona che riesce a convivere con l’incertezza, assumendola come responsabilità di scegliere e come condizione indispensabile per sperimentare, discutere, riflettere e cambiare, concentrandosi sui processi dell’esperienza piuttosto che sui risultati, e mantenendo nel lavoro il piacere dello stupore e della meraviglia.
Gloria ha scritto parole che meritano di essere ricordate e che sarebbe davvero difficile scrivere meglio:
Bambini capaci di riconoscere e includere le diversità, di adattare il comportamento agli interlocutori che incontrano, di trasformare il contesto sovvertendo ordine e tempo, di comunicare intenzioni, di contrastare programmi e obbligare gli adulti ad attendersi l’ imprevisto: questi sono bambini competenti – “sono” e non “ devono essere” – qualunque sia la differenza che esprimono.
Occorre naturalmente proseguire nella ricerca e alimentare le riflessioni innovative attraverso lo scambio e il confronto fra le esperienze.
Proprio in questa prospettiva, nasce alla fine del secolo scorso la BOTTEGA DI GEPPETTO – oggi Centro Internazionale di Ricerca e Documentazione Sull’Infanzia Gloria Tognetti – per dare risalto alle esperienze raggiunte dai servizi educativi per l’infanzia di San Miniato, al loro consolidato progetto pedagogico, al forte radicamento all’interno della comunità locale e al lusinghiero apprezzamento registrato da parte di numerosi osservatori nazionali e internazionali impegnati nello sviluppo di politiche a favore dei bambini e delle famiglie.
Il Centro internazionale Gloria Tognetti promuove attività di ricerca e documentazione relative ai Servizi Educativi per l’Infanzia del Comune di San Miniato, sviluppa la rete di relazioni con altre realtà locali e soggetti impegnati nello sviluppo di esperienze di qualità nella progettazione e gestione di servizi educativi per l’infanzia, partecipa e sostiene l’evoluzione delle politiche per l’Infanzia e l’aggiornamento delle strategie educative elaborate all’interno dei servizi educativi per l’infanzia. Il centro è anche Agenzia accreditata per la formazione superiore e per la formazione continua.
L’auspicio è di poter coltivare una rete di scambi e confronti fra persone e realtà, all’interno della quale continuare a discutere, riflettere e progettare insieme esperienze di qualità per i bambini e per le famiglie.