Premessa
L’interesse per l’impegno educativo di Agostino occupa un posto di rilievo nella vasta gamma degli studi sul vescovo di Ippona1. Il riferimento immediato sul quale si è concentrata l’attenzione degli studiosi è notoriamente il dialogo De magistro in cui, accanto al tema fecondo del maestro interiore, vengono discusse le possibilità dell’insegnamento e dell’istruzione.
Pur riconoscendo la fecondità dei temi esposti nel dialogo agostiniano che rimane un utile punto di riferimento anche per il nostro lavoro, nel presente saggio vorremmo, tuttavia, soffermarci sui compiti educativi assunti dal vescovo di Ippona attraverso la redazione del testo sulla Città di Dio. Infatti, fin dall’apertura dell’opera egli si assume, per così dire, l’onere di insegnare non solo i principali contenuti della religione cristiana, capaci di illuminare anche sulle vicende del tempo presente, ma soprattutto di indicare quale via debba essere percorsa per il conseguimento dell’equilibrio interiore e della salvezza eterna2.
Tre quindi i poli tematici sui quali vorremmo, brevemente, concentrare la nostra attenzione: l’educazione alla vita, alla pace e alla vita comunitaria che si raccoglie intorno all’idea di popolo.
Per affrontare queste tre complesse, ma anche attualissime questioni, il vescovo di Ippona si presenta come un maestro dinanzi ai suoi discepoli, la cui fiducia nei confronti degli interlocutori nasce dall’esperienza e dalla conoscenza dell’animo umano, capace e ricco di potenzialità, ma anche dalla determinazione di chi sa di dover comunque rendere comprensibili i contenuti della fede.
Egli, dunque, come una guida attenta si preoccupa di offrire ad ognuno la bussola per orientarsi nel proprio pellegrinaggio temporale e in vista di quello eterno.
1. Educare alla vita: tra la vergogna e la ragione
Dinanzi ai disastri causati dall’indebolimento morale dei romani, incapaci di resistere agli attacchi dei barbari, Agostino cerca di respingere le accuse rivolte ai cristiani3 e, nel contempo, sottolinea come il Cristianesimo sia portatore di valori autenticamente universali, centrati sul riconoscimento della dignità della persona umana, in quanto tale.
Di questo si avvidero persino i barbari che ebbero rispetto per coloro che, durante i saccheggi delle città, si rifugiavano dentro i templi consacrati a Dio e non agli dei4. Prima dei romani, i barbari ebbero una qualche forma di rispetto e di considerazione verso la religione cristiana.
Proprio a partire da questo riconoscimento inizia l’insegnamento di Agostino che si focalizza sul primato della dimensione interiore e sul rispetto della vita umana. Egli, infatti, dopo aver invitato a pensare agli uomini non in base alla loro appartenenza civile e religiosa, ma all’inclinazione che rende migliori o peggiori, a seconda dell’autenticità e sincerità con le quali ciascun essere umano affronta le avversità e le sofferenze: i giusti con pazienza e sacrificio, i malvagi con rabbia e desiderio di vendetta5, si persuade che anche da un’esperienza così cruenta, come è il sacco di Roma, gli uomini di fede possono ricavare un qualche insegnamento.
In primo luogo, la devastazione dei barbari costringe i credenti a fare i conti con l’effettiva importanza che ciascuno assegna alla vita spirituale. I fedeli, infatti, non si comportano tutti allo stesso modo, dimostrando in alcuni casi di essere effettivamente distaccati dalle cose del mondo, mentre in altri di essere mortalmente dipendenti dalla materia. Per questo motivo, solo coloro che pongono, quotidianamente e realmente, Cristo al centro della loro vita possono sperare di essere salvati, anche in mezzo alle torture, mentre per gli altri il desiderio di salvaguardare prima i beni e poi il Bene erode avidamente la vita spirituale e aumenta l’onda d’urto della disperazione, rendendo incapaci di resistere a qualunque sofferenza che, a causa della mancanza della fiducia in Dio, si rivela insensata, inaccettabile, cruenta e genera un insaziabile desiderio di vendetta6.
Questo avvertimento anticipa il motivo centrale dell’insegnamento sul senso del vivere. Il vescovo d’Ippona cerca, infatti, per un verso di riconoscere, senza banalizzarne la dimensione tragica, quella che potremo definire l’indifferenza della morte e, per l’altro, ribadisce il carattere illecito del suicidio che non può essere ammesso nemmeno come soluzione rispetto al male inflitto dall’esterno, perché il vero male è solo quello che viene dall’intimo, l’unico in grado di comprometterne, fino a deturparla, la bellezza e la dignità dell’uomo. Nel togliersi la vita, come vedremo, non viene riparato il male, ma solo generato un secondo quello di colui o colei che decide di togliersi la vita.
Da un certo punto di vista, spiega Agostino, è possibile dire che la morte è indifferente, nella misura in cui questa ha il merito di mettere gli uomini tutti sullo stesso piano, non solo perché non vi è alcuno che possa non morire, ma anche perché chiede alla vita, sia essa lunga o breve, di misurarsi, sempre e comunque, con l’evento che le è maggiormente contrario: il finire7.
Siamo in tal senso incoraggiati a spostare il fuoco della nostra attenzione dalla morte alla vita rispetto alla quale ciò che conta non è tanto la durata che, almeno fino ad un certo punto non dipende da noi, quanto piuttosto l’intensità. Gli uomini, in altre parole, dovrebbero angosciarsi di meno a causa della morte e pensare di più alla qualità e al senso che danno alla loro vita8. Ci sono vite vissute da morenti e persone che arrivano alla morte dopo aver intensamente ed energicamente vissuto ogni istante della loro vita. Come verrà ampiamente trattato nel libro XIII la morte fisica è un istante impercettibile in cui si attua il passaggio tra il non già e il non ancora.
Il vescovo di Ippona è attento e consapevole della profonda sofferenza e dell’umiliazione subita da molte donne vittime di violenze e di soprusi, la cui dignità, soprattutto durante le scorrerie dei barbari, è stata gravemente offesa. A queste donne si accosta con comprensione e rispetto, per mostrare loro che la violenza esteriore può ferire senza macchiare e offendere senza, tuttavia, cancellare la dignità dell’essere personale.
Chiamato a rispondere anche della possibile scelta di quelle donne che, avvertendo il disonore, decidono di darsi la morte, Agostino ripete che la morte non è la soluzione del male, ma in un certo senso ne è la sua riproduzione, infatti, pensare di potersi sottrarre al male subito togliendosi la vita non cancella il male commesso da altri, anzi, spiega Agostino, lo raddoppia9.
Pensando di suggerire alle donne violentate una soluzione diversa dal suicidio, Agostino però, accentua l’idea di una possibile scissione tra fisico e spirituale, che non è senza difficoltà, anche in riferimento ad una visione unitaria dell’essere umano sostenuta, come vedremo, nel prosieguo del testo; egli sostiene, infatti, che, quand’anche il corpo venga violato, la parte spirituale, se è rimasta retta e casta, non potrà essere oltraggiata da quella violazione10.
Per un verso viene espressa, in modo positivo e costruttivo, la capacità umana di separarsi da sé, per cui nel momento in cui viene effettuata una violenza, l’essere umano sembrerebbe capace di distanziarsi e distaccarsi fino a quasi non essere contaminato dal male che si sta compiendo su di lui11. Per l’altro anche salvaguardano la validità di questa intuizione è difficile sostenere che una persona che subisce violenza si senta ferita solo nel corpo, perché la mortificazione subita traccia un solco profondo nell’anima, una lesione indelebile, che può anche indebolire e demotivare irrimediabilmente l’originaria tensione al bene12. Nei casi di violenza fisica è forse impossibile sostenere che non venga contaminato lo spirito, non nel senso temuto da Agostino di un acconsentire alla perversione del carnefice, ma nel senso che è tutta la persona ad essere coinvolta: la dimensione fisica, come quella spirituale, che vi è incarnata.
Del resto è pur vero che l’Ipponate vuole soprattutto difendere la purezza della disposizione interiore e ribadire il rapporto tra mezzi e fini, per mostrare come la dimensione fisica dell’essere umano deve essere intesa come uno strumento in rapporto a quella spirituale e non viceversa. Da qui dipende anche il diverso peso della colpa che non può essere attribuita alla vittima, se questa non ha mai manifestato alcun compiacimento alla passione perversa dell’altro, da cui è stata travolta. In effetti, spiega Agostino: “Con questo evidente ragionamento noi affermiamo che anche se il corpo è contaminato, ma il proposito della volontà non muta per consenso al male, il peccato è soltanto di chi si è unito carnalmente con la violenza, non di colei che sopraffatta lo ha subito senza volere”13.
In questa prospettiva, due sono i motivi che rivestono un certo interesse sotto il profilo morale: anzitutto il riconoscimento secondo il quale l’esteriore non può contaminare l’interiore. L’interiorità appare, da questo punto di vista, come una roccaforte blindata contro il nemico, che può essere espugnata solo da noi stessi; infatti, questa fortezza è, come mostra nel VIII libro delle Confessioni14, agitata solo da contrasti interni che possono giungere anche a lacerare la volontà fino a spezzarla e a farla allontanare dal bene15. Da qui sorge anche la responsabilità che riguarda la purezza e la rettitudine del nostro essere interiore, che deve essere salvaguardato e custodito, affinché il male che altri compiono sia estromesso dalla vita spirituale e non provochi alcun genere di corruzione morale16.
Siamo dunque responsabili non del male inflitto dall’esterno, ma della nostra capacità di resistere17; da questa nostra disposizione al bene dipende anche l’attitudine a guardare a noi stessi con stima e rispetto e scoprire nella vita le risorse e le risposte per risollevarsi dall’abisso di dolore nel quale rischiamo di sprofondare. Per questo motivo le parole del vescovo d’Ippona sono necessarie, come lo erano quelle contenute nell’opera De vera religione, che, come è stato sottolineato, rappresenta un modello di insegnamento per la vita cristiana18.
In secondo luogo viene riaffermata la centralità della volontà alla quale è affidato il controllo della vita morale; se il volere, anche nelle peggiori avversità, sarà capace di rimanere stabile nella linea del bene, non potrà essere oltraggiato, mentre se non sarà in grado di resistere alle provocazioni e seduzioni del male, allora dovrà vergognarsi non del peccato subito, ma unicamente di quello commesso cedendo al negativo.
Tutto, come noto, dipende dalla volontà, la quale, del resto, vive in una conflittualità perenne19, che le impedisce di assicurare il recte agere. A questo riguardo, sottolinea anche Sciuto, la volontà “può come ogni creatura, venir meno e tendere al nulla - deficere - in quanto prende la sua origine ex nihilo; come, dunque, è ontologicamente produttiva se compie il bene, mossa da causae efficientes, così è ontologicamente negativa se compie il male, mossa da causae deficientes. Ma la defezione, per la sua stessa natura, non è necessaria bensì libera”20.
Per essere coerente con la propria costituzione originaria la volontà, come ogni altro bene, deve in ogni caso tendere all’armonia e alla pace. Queste sono, infatti, le caratteristiche essenziali delle nature create verso le quali conduce anche la riflessione di Agostino che si estende ad esplorare l’universalità e l’inevitabilità della pace.
2. Educare ad amare la pace
La pace costituisce il fine più universale, quello a cui tendono tutti gli esseri umani, quasi una via d’accesso per conoscere e comprendere i desideri degli uomini e le loro possibilità di realizzazione, perché fondamentalmente essa non è un fine estrinseco, ma è all’inizio di tutto. Il tendere dell’uomo è finalizzato a conseguire un bene stabile e duraturo. Essere felici è non avere contrasti che possano contristare l’animo e perdurare in una condizione di generale benessere fisico ed interiore, perciò, spiega Agostino “potremmo dire che la pace è il fine del nostro bene”21.
Viene qui a saldarsi ciò che attraverso il male si era separato. Se per mezzo del male subito possiamo distaccarci da noi stessi, per essere felici e vivere in perfetto accordo è necessario che tutto il nostro essere viva in armonia22. La pace, dunque, che è il fine universale a cui aspirano gli esseri umani, rappresenta anche un importante fattore di coesione umana e sociale23.
Paradossalmente anche un’associazione di banditi deve essere regolata secondo una certa armonia ed un certo equilibrio, altrimenti viene ad essere minacciata l’intera organizzazione e persino impedito il successo delle azioni scellerate prefigurate. E del resto nemmeno del peggiore degli uomini può dirsi che non viva in pace24.
La pace indica l’ordine con cui si armonizzano le diverse parti del corpo fisico e sociale. Per dirlo con le parole di Ghisalberti: “La pace, in tutte le sue forme e manifestazioni, si appella all’ordine, dunque a un bonum, a qualcosa di positivamente esistente, che trattiene in sé una disposizione ordinata per potersi rivelare come bounum, a qualsiasi grado della scala dei beni esso si collochi”25.
Mostrare che vi è una pace del corpo ed una dell’anima, una pace che investe i rapporti familiari, civili e mondiali significa ammettere che a ciascuno di noi è anche affidato un compito nella vita, in quella temporale come in quella eterna: mantenere l’originaria tensione al bene e perdurare in esso. Siamo disposti in modo armonico, fin dall’inizio: la nostra costituzione corporea, come quella spirituale posseggono una naturale propensione all’accordo che è necessaria per la sopravvivenza. Il corpo non potrebbe vivere e riprodursi senza l’equilibrio dei suoi organi, così pure le facoltà umane non realizzano il loro fine più proprio, la comprensione o l’espressione dei sentimenti, se si occupano ciascuna di qualcosa di diverso rispetto alle loro rispettive inclinazioni.
In controtendenza rispetto al discorso svolto in precedenza, Agostino arriva ad affermare che la parte fisica e quella spirituale non solo devono tendere ad armonizzarsi ciascuna per se stessa, ma sono anche interdipendenti in modo che l’una non possa sussistere senza l’altra. Così Agostino: “Se manca la pace del corpo è ostacolata la pace dell'anima irragionevole perché non può raggiungere la placazione degli impulsi. L'una e l'altra insieme favoriscono quella pace che hanno l'anima e il corpo nel loro rapportarsi, cioè la pace di una vita ordinata in buona salute”26.
La spinta con cui gli uomini aspirano al mantenimento dell’ordine originario è l’amore. L’ordine, infatti, da cui dipende la pace deve essere garantito solo mediante l’amore, lo stesso che il Creatore ha impresso alla creatura, per mezzo della creatio ex nihilo. Tutto, dunque, nella vita dell’uomo parla il linguaggio dell’amore che si rivela come norma, sigillo o regola a cui aderire e per mezzo del quale perdurare.
Veniamo traghettati dall’origine alla fine: dalla pace alla beatitudine celeste per mezzo dell’amore, che chiede di essere incarnato ed espresso in ogni circostanza e situazione. Amare è anche essere educati ed educare il prossimo a scoprire la propria costituzione e vocazione: “Ora Dio maestro insegna due comandamenti principali, cioè l'amore di Dio e l'amore del prossimo (Cf. Mt 22, 34-40; Mc 12, 28-31; Lc 10, 27-28), nei quali l'uomo ravvisa tre oggetti che deve amare: Dio, se stesso, il prossimo, e che nell'amarsi non erra chi ama Dio. Ne consegue che provvede anche al prossimo affinché ami Dio perché gli è ordinato di amarlo come se stesso, così alla moglie, ai figli, ai familiari e alle altre persone che potrà e vuole che in tal modo dal prossimo si provveda a lui, se ne ha bisogno”27.
I fedeli vivono ogni esperienza e ogni legame nel segno della libertà e della responsabilità. Per mezzo dell’amore si aprono all’esperienza radicale dell’incontro con la novità rappresentata dall’altro, rispetto al quale è sempre necessario prendere una decisione: o scommettere sulla possibilità che, nella e dalla relazione, sia sempre possibile qualcosa di nuovo e di ulteriormente indeducibile, oppure ripiegare verso il terreno e più conosciuto, ma forse anche più arido, dell’essere individuale che, nella sua voracità, persegue gli interessi più disparati, anche i più mediocri, pur di conquistare un potere.
3. Il popolo in cammino verso la città celeste
Un ultimo nucleo di considerazioni può dunque, a questo punto, essere svolto proprio attorno alla nozione agostiniana di popolo28. Infatti, se dall’amore retto e perverso sorgono due città e da queste due popoli29 e se, come dice Agostino, il popolo è “l’insieme degli esseri ragionevoli, associato nella concorde comunione delle cose che ama”30, possiamo ricavare degli indizi utili anche per definire i caratteri dell’essere educati a vivere nella e della comunione fraterna che unisce i credenti, rendendoli un popolo e non una somma di singolarità indipendenti.
Agostino ci pone in effetti dinanzi ad un diverso modo di concepire l’identità comunitaria, sollevandola dai pesi e dalle ristrettezze del tempo presente per innalzarla verso una piena e definitiva realizzazione.
Nell’accogliere pienamente definizione agostiniana di popolo, riconsideriamo i membri della comunità cristiana, i quali non vengono identificati in riferimento ad un principio giuridico o geografico, ma al riconoscimento dell’amore che unifica e fonda ogni altro legame interumano. In base a questo nuovo apprezzamento si ridefinisce anche la nozione di Stato, nel senso che “lo stato di Dio è dunque la comunità della caritas, così come lo stato del mondo è la comunità della cupido. Cioè, l’intera dottrina di Agostino circa la caritas, riccamente sviluppata, viene ora inserita nella dottrina sulla civitas”31.
In tal modo, da una parte, come è stato osservato, “Agostino riconosce alla civitas Dei peregrinans una valenza essenzialmente profetica ed escatologica, ponendola al riparto dal doppio pericolo della temporalizzazione, che la irrigidirebbe in istituzione storico-politica, e della spiritualizzazione, che la ridurrebbe, vanificandola, a una figura atemporale e indifferente”32; dall’altra viene riaffermato il primato della vita interiore su quella esteriore. Infatti, “sostenendo il primato dell’interiorità e dell’amore come fattori costitutivi della civitas e dell’idea stessa di populus, egli pone le premesse per un profondo ripensamento dei legami della vita associata, qualificata in ultima analisi dalla natura dei fini ultimi autenticamente perseguiti, più che dall’appartenenza puramente fattuale ed esteriore, anche se tutelata dalla forma del diritto”33.
L’essere umano si scopre guidato dalla verità che abita nell’interiorità (De v. rel. 39,72) e influenza il modo di scegliere e vivere i propri legami34. Questi ultimi, infatti, possono essere pienamente vissuti solo se istruiti dalla pienezza dell’amore che, donandosi, non perde niente della propria ricchezza, ma anzi conforta, sostiene e riempie incessantemente coloro che gli si rivolgono e lo cercano. Chi vive secondo questo modello altruistico, in cui al primo posto vi è il donare piuttosto che il ricevere, è già interiormente unito a coloro che riconoscono in Cristo il loro principio e modello35.
Il popolo romano, a cui Agostino ha accordato la dignità di popolo proprio perché ha saputo coagularsi attorno all’amore della gloria e della giustizia, è stato pertanto superato dal popolo cristiano a cui l’Amore stesso si è rivelato affinché a tutti sia concessa la possibilità di confidare in Lui. Attratti e risanati dall’amore, i credenti, in ogni tempo e in ogni parte del mondo36, sono chiamati a vivere in comunione rispettando l’ordine che è stato loro imposto dal Creatore, infatti, “anche quando potrebbe sembrare che l’anima comandi in modo encomiabile sul corpo e la ragione sui vizi, se l’anima e la ragione non sono al servizio di Dio come Egli ha comandato di essere servito, non possono assolutamente comandare in modo giusto al corpo e ai vizi”37.
Da qui si comprende che esistono un amore retto e un amore perverso che orientano il vivere; se per un certo verso è necessario individuare come criterio identificativo del popolo la condivisione dell’amore per il medesimo bene, per l’altro è opportuno stabilire una gerarchia tra diversi generi di amore. Vi è, infatti, spiega Agostino, “un amore con cui si ama ciò che non si deve amare; esso è disprezzato da chi possiede l’amore, con cui si ama ciò che si deve amare. Entrambi questi amori possono coesistere nell’individuo; il bene dell’uomo è quando, aumentando l’amore con cui viviamo bene, diminuisce l’altro con cui viviamo male, finché non si sia risanati alla perfezione e tutta la nostra vita della carne e ciò che è secondo i suoi sensi”38.
Il popolo cristiano è stato, dunque, costituito attorno alla verità di un evento che si è realizzato nella storia, ma che di per sé è oltre la dimensione della temporalità. La patria dei credenti in Cristo, dunque, è solo provvisoriamente il mondo, perché definitivamente essa è situata nell’ordine intemporale39. Tutto questo modifica la percezione dell’essere e del vivere, del legare e dello sciogliere tutti i legami40.
I cristiani, spiega il vescovo di Ippona, vivono nel mondo come estranei, pellegrini che attendono di raggiungere la loro vera patria situata altrove, in alto41.
Così, Agostino invita a considerare ciò che è stato dato. La giustizia terrena può in qualche modo avvicinare gli esseri umani alla perfetta giustizia, che è quella divina; la giustizia mondana può, in altre parole, riconoscere il principio a cui tutto è dovuto, ovvero le è dato sapere che tutto ciò che esiste proviene da Dio e niente di ciò che è umano può essere stabilito al di fuori di Lui, senza perdere in dignità e perfezione. Pretendere di sottrarsi all’ordine non rende l’uomo più libero, ma lo fa sprofondare nel disordine; l’umana giustizia allora ha il dovere di ricondurre tutto al principio da cui è stata posta42.
La perfetta giustizia non prescrive solo il dovere, essa cioè non consiste solo in un criterio formale, ma si incarica anche di indicare ciò che all’uomo spetta di eseguire: il retto amore43. È in definitiva solo l’amore che rende un insieme di individui un popolo. Un amore che non è puro desiderio, ma ordinata dilectio, nella misura in cui ama prima di tutto il fondamento dell’amore e poi esegue il comandamento dell’amore del prossimo: “Non vi può essere dunque un insieme di uomini associato da un accordo giuridico e da comunione d’interessi, se manca questa giustizia, per la quale l’unico e sommo Dio comanda alla città che, obbedisce, secondo la sua grazia, perché nessuno offra sacrifici se non a Lui; una giustizia per la quale in tutti coloro che appartengono a questa città e obbediscono a Dio l’anima comanda al corpo e la ragione ai vizi, fedelmente e nel giusto ordine; una giustizia per la quale ogni singolo giusto, come pure un insieme o un popolo di giusti, vive della fede, la quale spinge ad amare Dio come deve essere amato e il prossimo come se stesso. Se non vi è questo, sicuramente non vi è popolo, se è vera questa definizione di popolo. Non vi è neppure uno Stato, poiché non c’è cosa del popolo dove non c’è popolo”44.
Se l’uomo pretende di agire rivendicando la propria totale autonomia e autodeterminazione, perde se stesso, la propria integrità e s’incammina verso le tenebre della dimenticanza e della lontananza dal bene45.
Incoraggiandosi gli uni gli altri e uniti nel riconoscere i beni che sono stati donati, i credenti si affidano alla misericordia del divino ordinatore per conseguire la perfetta concordia, non quella stabilita dalle regole del mondo, che sono state indicate dalle imperfette volontà degli uomini, ma da quella divina giustizia, in cui consiste anche la vera pace: “In quella pace finale, poi, a cui deve tendere questa giustizia, che deve essere rispettata per poter conseguire quella pace, la natura risanata nella immortalità e nella incorruttibilità non avrà più nessuna corruzione e nessuno di noi incontrerà più alcuna resistenza, esterna o interna; non sarà più necessario per questo che la ragione comandi su vizi che ormai non esisteranno più, ma Dio comanderà all’uomo, l’anima al corpo, e sarà dolce e facile l’obbedienza, come felice la vita regale. Tutto ciò lassù sarà eterno, come è certo, in tutti e in ciascuno, e per questo la pace di quella felicità o la felicità di quella pace sarà il sommo bene”46.
Da tutto ciò si può osservare come “tutte le volontà che tendono alla pace di Dio formano il popolo della città di Dio; tutte le volontà che tendono alla pace di questo mondo come al loro fine ultimo, formano il popolo della città terrena. Il primo popolo comprende quanti usano del mondo per godere di Dio; il secondo tutti quelli che, se anche riconoscono un Dio o degli dèi, pretendono di usarne per godere del mondo”47.
Si ridefiniscono in tal modo i termini di un’appartenenza alla civitas Dei peregrinans, capace di estendersi al di là di tutti i confini e di esplicitare un’idea di comunione spirituale, grazie alla quale sia permesso agli uomini di riconoscersi come membri di una città che si dispiega nel passato, nel presente e nel futuro, poiché tutti i suoi cittadini sono in cammino verso la comune patria del cielo. Là conosceranno perfetta giustizia, letizia e pace e potranno finalmente godere di quel bene che durante il viaggio hanno potuto solo desiderare. Gli abitanti di questa civitas Dei non conoscono turbamento perché ad essi è concessa una beatitudine perfetta e stabile, a cui aspirano tutti gli uomini fin dal loro sorgere: “Tutto ciò lassù sarà eterno, come è certo, in tutti e in ciascuno, e per questo la pace di quella felicità o la felicità di quella pace sarà il sommo bene”48.
Ma il tendere e il camminare verso la meta non preserva gli uomini dalla possibilità di distogliere lo sguardo e di dirigersi, anche se solo provvisoriamente, altrove. Da questa alternativa si rende possibile una doppia cittadinanza: celeste, per il fine ultimo che si intende perseguire e terrena, per l’attrazione che, momentaneamente, subiamo e dalla quale facciamo fatica a liberarci. Anche la Chiesa è la conferma materiale di questa duplice possibilità. In essa, infatti, convivono santi e peccatori, senza che una tale commistione indebolisca la tonalità spirituale del suo essere manifestazione visibile del popolo di Dio49.
L’esito del pellegrinaggio temporale è indicato nella visione sul giudizio finale nel quale la città celeste e il suo popolo, ovvero tuti coloro che hanno desiderato mantenere la rotta dell’amore, saranno finalmente saziati, i desideri soddisfatti, le lacrime asciugate e non vi sarà chi non sia stato consolato.
Presa alla lettera, la visione finale dice di un solo popolo e di una sola città, nella quale regna su tutto il bene50. È la città e il popolo dei salvati, redenti e uniti dall’amore la cui verità regna senza fraintendimenti e confusioni, in cui tutto è chiaro e manifesto e i fratelli si soccorreranno gli uni gli altri e coopereranno per realizzare tutte le opere del Signore. Un popolo questo che comprende gli uomini più disparati, ma che non coincide con la totalità degli uomini di ogni razza e di ogni epoca, “poiché moltissimi saranno nei tormenti”51.
Un solo popolo, tanto vasto quanto fedele all’amore e una sola città, questa è la realtà che Agostino considera come la terra promessa dell’uomo, la vera patria per la sua piena e definitiva realizzazione. Questo destino, che vede come termine la ricostituzione di un’unità, come lo era all’inizio l’alleanza tra creatura e Creatore, è il pieno compimento dell’essere e dell’attesa dei cristiani che riconoscono nell’orizzonte intemporale il Bene in vista del quale anche il possesso degli altri beni ritrova il suo significato.
Educarci a vivere come cittadini della città celeste richiede un investimento senza limiti di tempo e di energia, essere capaci di realizzarlo senza voltarsi indietro è la sfida più provocante e, per certi versi, anche più seducente del vivere temporale, perché “quella città avrà una volontà libera, una in tutti e inseparabile in ciascuno; liberta da ogni male e ricolma d’ogni bene, godendo indefettibilmente nella letizia dei gaudi eterni, dimentica delle colpe e delle pene, sena dimenticare però la sua liberazione e senza essere ingrata verso il suo liberatore”52.