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Conjectura: Filosofia e Educação

versão impressa ISSN 0103-1457versão On-line ISSN 2178-4612

Conjectura: filos. e Educ. vol.26  Caxias do Sul  2021  Epub 10-Maio-2024

https://doi.org/10.18226/21784612.v26.e021011 

ARTIGOS

Inconscio, mente e uomo: psicologia e filosofia

Unconscious, mind and human being: psychology and philosophy

*Licenciado em Filosofia. Livre-Docente em Filosofia Teorética Professor-Pesquisador vinculado ao Rosmini Institute. Professor Emérito de História da Filosofia na Universidade de Verona – Itália. E-mail: gianfranco.bosio@libero.it


Riassunto

La presente esposizione si propone di impostare un confronto tra la filosofia dell’inconscio e le relative vedute della psicoanalisi di Freud e della psicologia analitica di Jung. Ambedue hanno un importante e purtroppo oggi quasi dimenticato ispiratore filosofico Eduard von Hartmann, autore di una monumentale Filosofia dell’Inconscio (Philosophie des Unbewussten, 1869). La conclusione fondamentale dell’esame è che l’ “inconscio” non può assolutamente spiegare le formazioni superiori del mondo dello spirito, come le idee religiose, le grandi speculazioni del pensiero filosofico e le più alte produzioni dell’arte. Per queste formazioni superiori è necessario ricorrere ad un “Transconcio” che da un lato si impone alla coscienza riflessiva e rappresentativa con una forza del tutto speciale, ma da un altro è privo delle ingannevoli seduzioni istintuali e passionali di carattere torbido proprio dell’ Inconscio.

Parole-chiave Inconscio; Mente; Uomo; Psicologia; Filosofia

Resumo

O presente artigo propõe-se confrontar a filosofia do inconsciente e as relativas visões da psicanálise de Freud com a psicologia analítica de Jung. Ambas têm um importante e (infelizmente hoje quase esquecido), inspirador filosófico Eduard von Hartmann, autor de uma obra monumental Filosofia do inconsciente (Philosophie des Unbewussten) de 1869. A conclusão fundamental da análise é que o inconsciente não pode, absolutamente, explicar as informações superiores do mundo do espírito, como as ideias religiosas, as grandes especulações do pensamento filosófico e as mais elevadas produções da arte. Para essas formações superiores é preciso recorrer a um transconsciente que, de um lado, se impõe à consciência reflexa e representativa com uma força totalmente especial, mas, de outro, é privado das enganadoras seduções instintivas e passionais de caráter tórbido próprias do inconsciente.

Palavras-chave Inconsciente; Mente; Ser humano; Psicologia; Filosofia

1 La mente e l’universo

L’inconscio nella storia del pensiero appare incontestabilmente a prima vista come una scoperta essenzialmente moderna; ed è poi, propriamente una scoperta della tarda modernità; dunque di un’età recente. Ai più sembra che nessuno abbia parlato tanto chiaramente dell’“inconscio” come Freud; sembra proprio che egli sia stato il primo scopritore ed esploratore del nuovissimo continente dell’inconscio e perciò dopo di lui non si sarebbe più potuto muovere un solo passo se non seguendo le strade da lui aperte e tracciate. A parte il fatto che egli ha avuto un grande precursore in un filosofo tedesco che a suo tempo fu molto noto ma che oggi è quasi, e ingiustamente dimenticato, Eduard von Hartmann (opera principale Philosophie des Unbewussten, “Filosofia dell’inconscio”, 1869), che Freud lesse con molto interesse, questa opinione deve essere riveduta.

L’ “inconscio” ha dietro di sé una storia ben più lunga, ben più complessa. Se per “inconscio” non intendiamo soltanto il luogo dei processi psichici che non si affacciano con luminosa chiarezza sul palcoscenico del teatro della consapevolezza cosciente che distingue, discrimina e classifica, ma piuttosto qualcosa di diverso, allora l’inconscio fu scoperto ben prima di Freud, il cui merito indiscutibile è stato di essere il primo che lo ha portato dalla speculazione filosofica alla dottrina e alla pratica terapeutica. L’idea di una mente che pensa, sa e conosce in modi che non riusciamo a configurarci come propri di quello umano è molto più antica. Non ebbe però né poteva assumerlo, il nome con il quale siamo soliti chiamare la dimensione della psiche nascosta, che resta nell’ombra e che a volte irrompe alla superficie contro la nostra volontà ed altre volte resiste ostinatamente ad ogni impresa e ad ogni cammino di impresa e di svelamento. Già la celebre sentenza di Eraclito “per quanto tu possa percorrere i confini dell’anima (psychés pèirata iòn), mai più riuscirai a trovarli, tanto profondo è il suo fondo (oùto bathyn lògon èchei) può essere considerata, naturalmente in chiave moderna, un precorrimento dell’ “inconscio”. Eraclito lo intende però propriamente come qualcosa di molto più ampio della nostra individuale e personale “anima”.

Inteso secondo le nostre anticipazioni l’inconscio appare come una regione della coscienza molto più grande della nostra e che abbraccia tutto intero l’universo; e in questo senso è l’inconscio la potenza che produce l’uomo e non è vero il contrario.

Il primo fra gli antichi che cominciò a parlare più diffusamente di inconscio fu Parmenide di Elea (VI-V secolo a. C.), l’arcaico ed enigmatico pensatore che forse ancor oggi non siamo sicuri di avere compreso a fondo. E’ bene avvertire che né in Parmenide, come in nessun greco, esiste la parola “inconscio”. L’ignoto e nascosto dell’anima-mente molto più grande di noi non era affatto espresso in questa parola ma piuttosto in altre.

“Essere e pensiero sono lo stesso” (èinai kài noèin tautò, frammento 3). Questa è la massima principale e fondamentale del suo ancor oggi enigmatico e misterioso poema di cui si dice che il titolo sia “Sulla natura” (perì fyseos). In altri versi, del frammento 8 il pensatore-poeta afferma : “Lo stesso è ‘pensare’ (noèin) e ciò di cui v’è pensiero”(oùneken èsti nòema); “oùneken” però può intendersi tanto come “di cui” quanto “per cui” oltreché “in vista di cui”. Ci si deve sforzare a mantenere contemporaneamente presenti le tre versioni possibili. Siamo soliti tradurre èinai con “essere” e noèin con “pensare”, dove per “essere” si intende la costanza e la permanenza di ciò che non muta mai, che non diviene, che è sempre identico a se stesso e che non patisce contraddizione; un “non-nato”, incorruttibile, indistruttibile, eterno.

Siamo soliti intendere noèin come un “pensare”, e il “pensiero” è cognizione dell’intellegibile, dell’immutabile e dell’incorporeo, anch’esso eterno, incorruttibile, indistruttibile e non-nato. Così il “vero” pensare, il “vero” conoscere ha per oggetto e per termine l’assoluto, il perfetto, l’incondizionato che è l’indefettibilmente presente in tutto, mentre i vari ònta, gli enti finiti e determinati sono un nulla, sono inficiati dalla contraddizione del divenire, per la quale il loro essere è soltanto un venire alla luce nella presenza per scomparire subito dopo, e dunque l’avvicendarsi delle cose nelle vicende del ondo è soltanto dòxa, “opinione” e mera credenza senza fondamentyo, è fantasmagoria, null’altro che un caleidoscopio di ombre che si succedono senza senso e senza intelligenza. Sicchè Parmenide sarebbe stato il fondatore e l’iniziatore della metafisica; Il sottinteso è però che Parmenide è un “arcaico” e che la metafisica oggi non è altro che residuo di una mentalità arcaica attardata in problemi che hanno perso ogni senso e ogni valore. Ma continuiamo a leggere bene e ad ascoltare il filosofo-poeta di Elea; ne tentiamo una traduzione, la più chiara possibile: “Ugualmente rifletti come cose lontane siano saldamente presenti alla tua mente; non potrai mai separare l’ente dall’ente né quando è diviso né quando consiste interamente in sé in tutto il mondo” (Lèusse d’omòs apeònta nòo pareònta bebaìos; où gàr apotmèxei tò eòn toù eòntos èchesthai oùte skidnàmenon oùte pànte pàntos katà kòsmon synistàmenon, framm. 4).

Nell’abituale prospe.ttiva ontologico-metafisica l’accento cade pesantemente sull’essere dell’ente, e il “noèin” sembra sempre seguire e dipendere da esso, ricevendone in dono la medesima sostanzialità, indistruttibilità immutabile propria dell’ “essere”. Ora tuttavia la prospettiva sembra spostarsi sul primato del noèin. Ma che ne è ora se spostiamo l’accento dall’essere al pensare capovolgendo la prospettiva contraria che privilegiava invece l’essere? E’ sufficiente per venire a capo di n’interpretazione più accettabile di Parmenide? Ebbene, rispondiamo che non ci si può semplicemente fermare a questo passo.

Si deve procedere oltre; altrimenti non si fa altro che capovolgere una prospettiva “realistica” che fa precedere l’essere al pensare che risulta vero soltanto se il pensare si adegua perfettamente all’essere in un’altra, quella “idealistica”, secondo la quale il “pensare” come “atto” e come “attività spirituale” sarebbe la sorgente di ogni razionalità e di ogni intellegibilità dell’essere. Come ci si deve muovere per compiere quel passo decisivo che ci conduce al di là di ogni impasse, di ogni intrico, di ogni inviluppo che ci fa soltanto smarrire la via giusta? E’ necessario ripensare in profondità il significato del noèin. Ed allora vedremo bene che Parmenide non è il precursore né di una metafisica “realistica” della “sostanza, né di una metafisica “idealistica” dell’attualità dello spirito. Ci viene in soccorso Martin Heidegger. Nelle sue lezioni del semestre estivo del 1952, pubblicate in Che cosa significa pensare? (1954), Heidegger scava a fondo e scandaglia il linguaggio di Parmenide e dei Greci dell’età arcaica, scoprendo e rivelando che noèin riveste un ben altro significato rispetto a quelli tradizionalmente codificati di formazione e riconoscimento di idee dell’intelletto. A seguito di lunghe e tortuose analisi e discussioni Heidegger ci presenta come in un lampo la sua comprensione del detto fondamentali di Parmenide Chrè tò lèghein te noèin t’eòn eòn: “Usa” (nel senso di “abbi consuetudine): il lasciar essere posto davanti come anche il prendersi cura: l’essente essendo” (framm. 6, nella traduzione italiana di G.Vattimo, Che cosa significa pensare, v. 2, ed. SugarCo, Milano 1979. p. 94).

Certamente questa non è né vuol essere una traduzione, nemmeno per Heidegger. Continuiamo pure a tradurlo come si è sempre fatto, cercando però in tutti i modi di intendere Parmenide in un modo più originario. C’è qui da avvertire che si deve presupporre una lettura di Parmenide in una prospettiva sapienziale e religiosa, come pure è stato da qualche parte tentato, e non a partire da una di carattere unicamente ontologico-metafisica. Del resto l’andamento poetico e oracolare del poema e la seconda parte, tradizionale e mitologica del poema, potrebbero autorizzare l’adozione di questa lettura.

Noèin vale allora come “prendersi cura”, “accogliere” e rispondere acconsentendo. Chré, da Chràomai, (uso, adopero), intende significare “costume”, “dimestichezza”; ricordiamo la locuzione latina familiariter uti cum aliquo, aver consuetudine di familiarità con qualcuno. Dunque in sostanza “avere cura e prendere dimestichezza con tutto l’essente che si presenta sulla scena del mondo, apparendo e scomparendo nell’orizzonte della presenza. Il noèin in questo senso è “mente” e la “mente” è la sostanza dell’universo, di tutto ciò che è. La mente è ciò che fa luce ed ombra ed è una e la stessa in noi e in tutti i viventi che sentono ed hanno un pur minimo avvertimento di essere. E’ una e molte insieme. E nella” mente” è compreso anche l’ “Inconscio”. Parmenide ha percorso una via parallela a quella del Buddhismo. Anche nel Buddhismo, specialmente nel Mahayana, quello del “medio veicolo”, è la mente la sostanza del tutto. Ma la mente può anche essere bugiarda, mentire ed illudere. A questo però Parmenide non ci era ancora arrivato.

2 Platone: un inconscio superiore che non comprendiamo

Lo ripetiamo: non c’è una sola parola nella lingua greca antica che nomini qualcosa come l’ “inconscio”. Ciononostante Platone è l’ideatore di questo pensiero e ne è profondamente pervaso. La calebre e proverbiale dottrina della “reminiscenza” si avvicina molto all’ “inconscio” ed alla “rimnozione”, ma con qualche differenza sostanziale. Nel Menone, Platone, per bocca di Socrate ne offre la migliore esposizione. Questo pensiero, che a Platone è molto caro, vivo e presente ricorre anche nel Fedone e rappresenta una delle prove più affascinanti dell’eternità e dell’immortalità dell’anima. Ma è nel Menone che esso si presenta nella veste più affascinante.

Nel dialogo Socrate fa dimostrare ad un giovane schiavo quasi analfabeta nientemeno che il teorema di Pitagora, conducendolo attraverso un abile gioco di domande e risposte a costruire un quadrato di area doppia di un altro già dato. Lo schiavetto è sorpreso; sembra non capire come sia riuscito a trascinarsi fuori dall’ignoranza e ad essere invaso dalla luce del sapere. E’ letteralmente stupefatto. Ma Socrate ne dà la spiegazione giusta: “Conoscere è ricordare”. C’era da sempre nell’anima la traccia impressa di ciò che essa già conosceva per averlo appreso in una contemplazione eterna, in un’altra esistenza ben diversa da quella che si conduce quaggiù, nel mondo in cui l’anima è incatenata al corpo, sì che imprigionata in esso ha nascosto ed oscurato questa traccia del vero e perciò l’ha dimenticata. La conoscenza ne è la reviviscenza, il ricordo, la memoria ritornata alla luce. In realtà non siamo mai stati separati e divisi dalla verità. Essa è sempre in noi e presso di noi. Dobbiamo perciò mettere in opera tutto ciò che è necessario affinché se ne ridesti la memoria.

Il discorso di Socrate è tutto una metafora, e poiché i sensi profondi della metafora non sono stati minimamente né esplorati né compresi il suo discorso si è attirato ogni genere di critica. Uno dei sensi della metaforizzazione di Socrate può essere questi: la conoscenza è rimemorazione perché l’ignoranza è l’oblio. E che altro può essere l’ignoranza se non l’ “inconscio”? Il risveglio dal sonno dell’oblio prosciuga l’acqua torbida della palude dell’inconscio e tutto ciò che in queste acque si nascondeva nella torbidità fangosa di acque limacciose ritorna a splendere di una vita nuova e felice. Anche nella psicoanalisi contemporanea l’arte “maieutica” dell’analista fa risalire dall’inconscio alla coscienza vigile e desta tutto il mondo dell’oscurità confusa e tormentosa che si agita in ciascuno di noi. Ma qui cessa l’analogia e subentra la profonda differenza tra Platone e Freud. L’ “oblio” dell’anima assomiglia alla “rimozione” di Freud soltanto in superficie; in profondità tutto è molto diverso. La rimozione freudiana mette da parte ed oscura tutto ciò che dispiace e disturba; l’oblio invece fa perdere la prossimità a ciò che è sorgente di libertà e di gioia.

Il Menone e la reminiscenza (anàmnesis) però non sono tutto nel pensiero di Platone. Ben più profondo e più conturbante è il colpo di scandaglio di Platone nel regno dell’ “inconscio”. L’operetta, alquanto breve in cui esso appare è lo “Ione”. Chi è Ione? Un aedo, un rapsodo, uno che canta i versi di Omero a folle di persone che si incantano, si esaltano e si commuovono nell’ascolto. Ione riferisce che quando canta Omero si esalta, si sente invasato e spossessato, sollevato da un vortice di entusiasmo che lo fa fremere, ridere e piangere. Socrate paragona la sua passione e le sue emozioni alla “pietra di Eraclea”, il magnete che calamita attraendo a sé anelli di ferro che le stanno accanto e che a loro volta assorbono la stessa virtù magnetica attraendo a sé altri anelli di ferro e non la perdono più.

Socrate ricorda a Ione che Omero parla anche dell’arte degli aurighi che guidano il cocchio, dell’arte degli strateghi che dispongono le schiere in battaglia, e gli domanda se egli abbia competenze su questi argomenti oppure no. E Ione acconsente nel negarsi in possesso di queste conoscenze; ma allora come può Ione comprendere Omero e comunicarne con tanta intensità la sua comprensione del poeta? “Creatura leggera, essere alato è il poeta”, e Ione comprende Omero così bene e sa identificarsi tanto con la sua poesia in modo tale da trascinare tutti gli uditori nella stessa onda di esaltazione e di entusiasmo. Socrate conclude che i poeti esprimono così bene i versi che cantano e che declamano non certo in virtù di una scienza appresa soltanto con la pratica e con l’esperienza, ma soltanto per invasamento e per una possessione divina; ed essi stessi non sanno come e donde questo dono superiore in essi discenda; esso è paragonabile a quello dei sacerdoti ispirati, dei Coribanti sacri a Cibele, delle Baccanti care a Dioniso, o degli oracoli e degli indovini che antivedono il futuro.

L’inconscio dell’artista vero non appare come la sfera e la dimensione oscura di ciò che gli istinti, i desideri e le passioni ordinarie della vita hanno fatto sprofondare sotto la soglia della coscienza, ma come un qualcosa che è ben altro e che è immensamente superiore: una “mente” che si comunica ad alcuni privilegiati come un dono concesso senza ragioni speciali di merito e di scienza. Quello che si manifesta all’ispirato come un “inconscio” di cui egli è incapace di rendere ragione è ben altro rispetto ad ogni “inconscio” che possiamo dire “inferiore”; è un a super- e sovra-coscienza. L’“incoscienza” ne è soltanto una parte e un aspetto e in nessun modo la esaurisce.

3 La modernità e l’inconscio: preparazione e completamento

L’ “inconscio” è, nella parola stessa, nelle raffigurazioni e nelle esplorazioni che ne deriveranno, un’invenzione della modernità. La sua storia essenziale, che ne è poi la storia profonda, quella di cui quasi nessuna storiografia ufficiale si accorge, affonda le sue radici nell’audace ed improvviso gesto inaugurale di Cartesio che apre l’età nuova dell’Occidente; a tutt’oggi noi viviamo e pensiamo ancora nella scia di querst’ombra, malgrado il rifiuto assoluto del pensiero di Cartesio. Il Cogito è la cognizione chiara e distinta, clara et distincta perceptio di ciò che possiamo riconoscere come il nostro vero essere.

Il Cogito è, secondo Heidegger, il primo fondamento della “Metafisica della Soggettività”. Per Heidegger il “soggetto” (su-jectum), vale a dire ciò a cui tutto si riferisce e si rapporta per inerenza, è l’autopercepirsi in una presenza innegabile di un nostro pensare, di un nostro percepire e sentire interiore che è nostro, soltanto nostro e di cui non possiamo dubitare, neanche nell’iperbolica posizione di un dubbio (“iperbolico”) che la realtà che prendiamo per vera sia l’opera dell’inganno di un “genio maligno” che abbia dispiegato tutta la sua astuzia malvagia con l’unico scopo di ingannarci e di divertirsi alle nostre spalle e per farci soffrire degli inganni in cui ci precipita.

Ma “se mi inganno sono” equesta certezza non me la può togliere nemmeno il “genio maligno” (Meditationes de prima Philosophia). Il Cogito trasparente a se stesso che si autopercepisce come il luogo in cui si concentrano e si raccolgono le “idee” è il rifugio e la fortezza sicura ed inespugnabile in cui la mente umana mobilita e potenzia tutte le forze e le energie che consentiranno all’uomo di conquistare il sapere onnicomprensivo e indubitabile che gli aprirà le porte della conquista della realtà. Le “idee”, che per Platone erano i lampi e le luci dell’iperuranio che si accendono nell’anima la quale ritrova e riscopre la realtà perduta nell’oblio della discesa nel mondo delle parvenze corporee, diventano ora in Cartesio le evidenze e le certezze conseguite nell’atto di una coscienza che rappresenta, che si rende presente a se stessa, e che dunque pone dinanzi a se stessa le sue “rappresentazioni”. Esse diventano così “il mondo dell’oggettività” posto dinanzi ad un “soggetto”. Cartesio non lo sa, né può saperlo, ma è la sua sistematica il principio della nascita dell’esplorazione dell’inconscio.

Dopo Descartes, Leibniz. Il grande filosofo enciclopedico e multilaterale che ravvisò nelle “monadi” i centri dell’attualità spirituale di ogni perceptio, di ogni appetitio si troverà di fronte alla problematica del rapporto che intercorre tra la puntualità e l’istantaneità della presenza di sé a se stessa della coscienza e l’immensa sfera delle percezioni, dei moti di coscienza, di tutti gli stati d’animo che appartengono ad un “io” e di cui l’ “io” stesso non può rendersi padrone e signore perché gli sfuggono e lo oltrepassano. Sono “al di sotto” dell’attualità della presenza di sé a se stesso, la sola presenza che ci consente appunto di “rappresentare” noi medesimi. Così egli suppose un flusso in cui scorre un’indefinita molteplicità di “piccole percezioni” (petites perceptions), flusso inarrestabile, continuo ed uniforme che diventa coscienza e rappresentazione consapevole di sé quando esse raggiungono ed oltrepassano la “soglia” di una quantità di energia al di sotto della quale non risultano percepibili. (Nouveaux Essais sur l’entendement humain, e Monadologia). Le nozioni di “soglia assoluta” e di “soglia differenziale” dell’ottocentesca psicologia della sensazione (p. es. Weber e Fechner), sono di chiara ascendenza leibniziana. Leibniz è oltreché filosofo, matematico e fisico, e ciò si avverte cospicuamente. Non a caso è inventore del “calcolo infinitesimale”. Il suo impegno speculativo si è concentrato nello sforzo di ricondurre ad una prospettiva di unità superiore l’energia della natura fisica e la libertà della coscienza dello spirito (Principes de la Nature et de la Grace fondés en raison). Certamente Leibniz prepara la via all’esplorazione dell’inconscio procedendo ben oltre rispetto a Cartesio, e con Leibniz già compare l’ “inconscio” assente invece in Cartesio.

Ma, nonostante tutto Leibniz non può essere considerato un vero scopritore dell’inconscio nella configurazione prospettica quale sarà propria della modernità più recente. In fondo in Leibniz una differenziazione tra “coscienza” e “inconscio” ancora propriamente non c’è. Infatti tra la sfera della prima e quella del secondo la differenza è ricondotta ad un livello di tensione dell’energia e dunque ad una ragione “quantitativa”, e perciò Leibniz è ancora lontano dal riconoscimento esplicito dell’autonomia e dell’indipendenza dell’inconscio dalla coscienza. Proprio questo invece sarà il portato specifico di ampia rilevanza non soltanto terapeutica, ma anche propriamente filosofica.

4 Freud e Jung: L’ “inconscio” dall’individualità all’universalità

Flectere si nequeo superos Acheronta movebo. E’ il verso virgiliano che Freud premette in esergo alla sua Traumdeutung (“Interpretazione dei sogni”, 1899). Esso esprime appieno il suo intento e il suo programma, che è una discesa nel profondo della psiche. Questa discesa secondo lui ci ricompensa ampiamente del mancato e impossibile accesso alle regioni superiori dell’essere (i superi), che ci è negato. L’inconscio di Freud è ben altro rispetto alla vita sotterranea e oscurata che non perviene alla rappresentazione “chiara e distinta” della coscienza che si riconosce esplicitamente come il centro dei suoi atti. Per ogni individuo l’inconscio è una potenza vivente che ci perseguita e ci angoscia.

Dove va a finire ogni traccia delle esperienze dolorose e spiacevoli che vogliamo disconoscere, cancellare, dimenticare per sempre? Cade nell’ “inconscio”, è “rimossa”; sicché l’ inconscio è proprio “il luogo del rimosso”. Viene allontanato e coperto da una coltre di ombra tutto ciò che ci è costato sofferenze, malessere e disagi e che la coscienza non può sopportare. Vengono rimossi i conflitti, le frustrazioni, i fallimenti, le invidie della buona fortuna altrui; e nell’inconscio si agitano tutti i conflitti penosi tra noi e noi stessi, tra noi e gli altri. L’inconscio non è soltanto vita rappresentativa e appercettiva, ma soprattutto vita emozionale ed affettiva.

E’ ben risaputo come Freud abbia elaborato due “topiche”, una prima, che è dell’epoca della Traumdeutung che si ripartisce in “conscio”, “preconscio” e “inconscio”, e una seconda, ben più tarda (intorno al 1920), in cui le “istanze” della psiche si tripartiscono in “Io”, “Es” e “Super-Io”. Va precisato che esse non sono affatto incompatibili ma si sovrappongono e si integrano. La seconda, preferita dal Freud più tardo, esprimono la medesima prospettiva, però considerata da differenti angolazioni. Ci sembra di poter dire che mentre la prima riguarda piuttosto l’io dell’individuo in lui stesso, la seconda lo inquadra nelle relazioni affettive e sociali. L’ Es è impersonale, indifferente all’individualità distinta e separata di ciascuno di noi dagli altri. E’ il luogo oscuro in cui si agitano istinti, pulsioni, desideri e forze comunque aggressive di ciascuno. L’ “io” è l’isola fugace ed illusoria in cui la coscienza crede di sentirsi a casa sua, presso di sé, al riparo da perturbazioni dolorose e dannose. Ha qualche confine con l’inconscio ed esercita anche alcune funzioni inconsciamente, però è pur sempre l’istanza della riflessione e del giudizio.

Al di sopra di tutte il “Super-Io”, anch’esso impersonale; esso è l’istanza ereditata dai genitori e soprattutto dalla figura del “padre”, che incarna il mondo delle leggi, dei comandamenti e dei divieti, che reprime e punisce ogni trasgressione ed ogni deviazione, non soltanto quelle commesse di fatto, ma persino di quelle che segretamente si formano nella semplice intenzione e nel desiderio che deve rimanere insoddisfatto e represso. Il “Super-Io” è l’organo psichico della censura che sorveglia, rimuove e reprime ogni moto di sollevazione dell’istinto, del desiderio e della libido (l’Es).

L’incoscio è una potenza maligna, dinamica, che nel corso della vita individuale, man mano che si sviluppa e si consolida la “coscienza” come io individuale e personale, si conquista una sempre più ampia ed estesa autonomia. La via della liberazione dalle scissioni, dai conflitti e dalle lotte che costano malattie e disturbi psichici anche invalidanti e tali da renderci incapaci di condurre un’esistenza accettabile, non piò che consistere nel riportare alla luce i “contenuti” rimossi e rifiutati delle conflittualità dei desideri repressi e delle rimozioni inconsce: lo traduciamo, un po’ malamente perché è difficilissimo renderlo, “Dove era l’ “Es” deve sopraggiungere l’ “Io” “ (wo war Es soll Ich werden).

Sospinto dalle sue intuizioni e dalle sue elaborazioni Freud estenderà le sue riflessioni e le relative sistemazioni ben al di là dell’analisi e della terapia. Investire il mondo sociale dello spirito umano nelle sue molteplici sorgenti, dalla religione quale espressione delle fantasie di compensazione infantili (“Il futuro di un’illusione”, 1927) ai rapporti fra dominatori e sottomessi (“Psicologia delle masse e analisi dell’io”1921), fino all’esame dei conflitti fra i benefici della civilizzazione e i malefici della repressione istintuale (“Il disagio della civiltà”, 1929), è stato l’impegno dell’ultimo Freud.

Nel suo pensiero l’ “inconscio” si presenta come una sfera individuale, legata alla coscienza, da essa sicuramente dipendente, ma con essa sempre in rivolta continua. L’inconscio ha una funzione più reattiva che propriamente attiva. Più che creare autonomamente sfigura e distorce. Ancora un passo in avanti e si giungerà all’ “Inconscio collettivo” di Jung; è la sua grande svolta, a partire dal 1911, l’anno di “Trasformazioni e simboli della libido”. Ben più importante e più originario dell’ “inconscio individuale” è per Jung l’ “inconscio collettivo”. C’è per Jung una coscienza una ed unica, superindividuale in cui si depositano e si sedimentano simbologie e raffigurazioni che ci presentano le esperienze fondamentali e i misteri eterni ed essenziali dell’esistenza: la nascita, l’amore, la generazione, la morte, il divino come sorgente del tutto. Esaminando e descrivendo una sterminata mole di materiale etnologico, dalle mitologie dell’Occidente e dell’Oriente a quelle dei popoli dell’Africa nera, Jung perviene alle sue celebri conclusioni: il mondo dei sogni e delle fantasie pullula di immagini archetipiche primordiali che, al di là delle configurazioni specifiche quali si possono incontrare in ogni tradizione, esprimono tutte quante lo stesso “archetipo”.

La parola significa “impronta primordiale”. Come essa ci venga impressa Jung non lo sa dire. Non potremo dedicare all’illustrazione delle sue vedute se non una rapida sintesi. Possiamo scegliere tre particolari espressioni archetipiche: l’ “Ombra”, l’ “Animus” e l’ “Anima”. L’ “ombra” è la condensazioni delle nostre frustrazioni, aspirazioni e desideri nascosti, inconfessati e non riconosciuti. Appare come un “doppio” di ciascuno di noi. L’ “Animus” e l’ “Anima” sono le controparti maschile l’una, femminile l’altra che si agitano nel fondo di ogni coscienza singola, ma che hanno un riferimento universale. Il “maschile” è una parte della personalità inconscia della donna, ed appare come “Animus”. Può essere un giovane , oppure si presenta nell’immagine del “vecchio saggio” che consiglia, guida e conduce e ispira ciascuna donna.

Ma non è assente neanche nei sogni dell’uomo. Nell’ “Anima” invece si condensano le qualità dell’empatia, dell’intuizione, della tenerezza e dell’illimitata benevolenza verso tutti i viventi. Non si può dimenticare tuttavia che l’archetipo dell’anima può manifestarsi nelle figurazioni negative e spaventose della strega che opera incantesimi pericolosi. Quale sia la presentazione più frequente dipende dalla condizione psichica del paziente che sogna o immagina. Il “fanciullo” è un altro archetipo del rinnovamento della personalità e del senso dell’incantesimo per tutto ciò che nasce, sboccia e fiorisce; è l’archetipo dell’innocenza e della spontaneità.

L’integrazione armonica della personalità consiste nella capacità dell’ io di accogliere e di accettare le istanze della psiche collettiva dell’umanità che si manifestano fin dalle epoche primordiali se non addirittura primitive della storia, e di assegnare a ciascuna la sua parte. L’uomo del nostro tempo vive di una vita scissa e inaridita. La sua parte razionale, progettante e calcolatrice ha represso e sommerso le pulsioni della fantasia e dell’emotività; se le rifiutiamo o le disconosciamo saremo sempre infelici e nevrotici. Quello che appare come sogno e come fantasia nell’uomo moderno fu in altri tempi leggenda viva, fonte riconosciuta di poesia, di narrazioni e di riti.

Ignorare e respingere le forze ispiratrici degli archetipi benefici e favorevoli provoca la malattia e la nevrosi che altro non sono se non isterilimenti e chiusure nel cerchio di una razionalità egoistica e calcolatrice, capace solo di proiettare sull’alterità la povertà spirituale e le deficienze di un’individualità egoistica ed immiserita. La salute interiore è raggiunta soltanto nel compiuto e riuscito processo di “individuazione” di un “io” che ha accolto ed accettato gli archetipi benevoli e benefici per il divenire del suo proprio “Sé”. Anche in Jung, come in Freud, la via maestra che apre le porte della conoscenza dell’inconscio, è il sogno. Le formazioni oniriche sono più di tutte le altre la rivelazione di ciò che la coscienze e la ragione hanno rimosso e scacciato al di sotto della scena aperta della coscienza. Jung dice spesso di non volersi addentrare nella speculazione metafisica, ma di volersi mantenere saldamente ancorato nel terreno dell’analisi empirica e descrittiva. Giustamente osservano alcuni (ad es. Titus Burckhardt), che il suo inconscio collettivo appare come il portato di un’evoluzione della psiche umana. Ma è inevitabile che Jung dia spesso la sensazione di oscillare e di ondeggiare fra la tendenza allo sconfinamento metafisico in una sfera archetipale eterna, vicina all’iperuranio “mondo delle idee” paltonico ed un’analisi empirico-descrittiva che mantiene saldamente ancorati la coscienza e l’inconscio ad una dimensione pur sempre naturalistica. Se le cose stanno così Jung si muoverebbe ancora in un orizzonte di dipendenza da Freud. Questo è dunque il suo fascino come anche il suo limite.

L’inconscio di Freud è una potenza ingannevole, fraudolenta e maligna; sostanzialmente “demonica”. L’inconscio di Jung ha invece un aspetto provvidenziale, benefico, di carattere e di sapore teleologico. La decisione a favore o contro l’uno rispetto all’altro non è indifferente per le sue implicazioni psicoterapeutiche. Non possono mancare in ambedue possibili fraintendimenti e distorsioni che non sempre si riesce a scoprire e ad analizzare per chi non è addentrato ed esperto nella medicina della psiche. In ogni modo sullo sfondo del pensiero sia di Freud sia di Jung c’è molta filosofia; molto di più di quanto se ne possa scorgere a prima vista.

5 La “filosofia dell’ inconscio”: Eduardo von Hartmann

I precursori filosofici sia di Freud sia di Jung sono stati Arthur Schopenhauer ed Eduard von Hartmann che a sua volta fu profondamente influenzato dallo stesso Schopenhauer. E sappiamo che sia Freud sia Jung furono lettori attenti sia dell’uno sia dell’altro. La monumentale, e per la verità un po’ prolissa Filosofia dell’Inconscio (Philosophie des Unbewussten, 1869) di von Hartmann è di interesse centrale per le problematiche in questione.

Freud dimostra di averla letta ricordando nella sua Traumdeutung un luogo del capitolo sul sonno e sul sogno dell’opera hartmanniana, in cui il filosofo considera le formazioni oniriche come le impronte delle preoccupazioni, dei fastidi e dei crucci patiti nelle ore della veglia. Von Hartmann innesta nelle sue speculazioni le tematiche schopenhaueriane del capolavoro “Il mondo come volontà e rappresentazione” del filosofo di Danzica intrecciandole con gli sviluppi del pensiero del tardo Schelling, in particolare con l’idea della “filosofia positiva”.

Per Schopenhauer l’intelligenza, non soltanto nell’uomo, ma anche nei viventi più evoluti e più complicati è segnata dalle “categorie” dell’intelletto di kantiana ascendenza, che in Schopenhauer si riconducono a tre, e cioè “spazio”, “tempo” e “causalità”. Osserviamo di passaggio che su questo punto Schopenhauer ha operato una riforma ed una revisione dell’impianto trascendentale di Kant; ma non è questo il punto più importante per i finio che ci proponiamo. Per Schopenhauer grazie alle “categorie” la coscienza desta e riflessiva ordina e struttura la realtà secondo connessioni di senso che risultano funzionali al mantenimento dell’organismo individuale ed alla propagazione della specie. Ma al di là e al di fuori dell’intelletto urge in tutti i viventi raggiungendo nell’uomo il culmine della sua forza e della sua intensità la “volontà” di vivere, il Wille, che è sorgente degli egoismi, delle lotte e di tutti i conflitti intra ed extraspecifici di ogni genere e tipo.

L’ingiustizia, la violenza, la prepotenza, l’assenza assoluta e totale dim ogni “perché”, di ogni ragione, di ogni fine diverso dalla pura e semplice bramosia di affermazione di sé e di sottomissione della volontà altrui alla propria sono le doti e le prerogative del Wille. Si deve prorompere con Leopardi, molto amato da Schopenhauer nell’esclamazione “è funesto a chi nasce il dì natale” (“Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”). Il dolore e la sofferenza del mondo nascono dalla pressione della “volontà” che non vuole e non tollera ostacoli e che detesta e reprime ogni forza ostile che le si rivolta contro. Freud conosceva anche Schopenhauer. Ora, l’inconscio di von Hartmann è una riedizione ed una riproposizione della “volontà” schopenhaueriana, ma con ampie modifiche e con originali rimaneggiamenti. Sembra che il Wille non abbia una consapevolezza chiara di sé e della propria essenza; esso è però tutt’altro che privo di sentimento. La stessa cosa si può dire dell’ “inconscio” di Hartmann. Con immensa diligenza e tutt’altro che superficialmente Hartmann si sofferma sui tropismi delle piante, sugli istinti degli animali e poi sulle forme non razionali della coscienza emozionale affettiva e simpatetica animale o umana che sia, e ritiene di poter concludere che tutte queste potenze abbiano la loro radice in un “inconscio” che produce e fa sorgere alla luce tutto quanto l’esperienza fenomenica ci presenta e ci espone sulla scena aperta del mondo. L’inconscio opera finalisticamente senza però proporsi espressamente dei fini che costituiscano oggetto di una cognizione formantesi sul fondamento di un progetto in base al quale può configurare e foggiare la realtà. E’ teleologia inconsapevole.

E’ dotato della forza eruttiva ed esplosiva di un’ispirazione alla quale dà soddisfazione nella creazione di qualcosa di vivo che gli offre appagamento e ristoro. Anche l’ Inconscio è preso nel dolore di tutte le creature viventi che soffrono e muoiono. E proprio come il Wille di Schopenhauer esso opera ed agisce al di là di ogni lontananza di tempo e di spazio perché non è limitato e imprigionato dai loro vincoli né dunque scandisce gli eventi conformemente alla categoria della causalità che connette secondo regolarità successioni spaziotemporali. E’ una specie di sapienza artistica e non un progettista calcolatore che prima pianifica e poi realizza.

Secondo Hartmann tutto ciò che è reale si compone di due modalità dell’essere che nell’ “Inconscio” si incontrano e si compenetrano, e cioè da un lato il quid, il “che cosa” proprio dell’essere come forma e come idea che il pensiero può idealmente separare dall’esistenza effettuale, e che Hartmann chiama il Was, e dall’altro il quod, vale a dire il “che” come effettualmente esistente, e che Hartmann chiama il dass, il “che” dell’esserci. Il Was si configura come esitenza reale soltanto unito con il “che” dell’ “esser-ci” reale. Soltanto una volontà cieca che opera finalisticamente ma senza alcuna chiara coscienza del perché e del come può voler conferire un “esistere” nella contingenza singolarizzante a un “qualcosa” che non potrebbe ottenere alcuna esistenza se rimanesse confinato alla semplice condizione di pura idea. Si sente fortemente, e Hartmann non soltanto lo riconosce, ma ne sviluppa consapevolmente le implicazioni, l’eco di Schelling, innestato nel sottofondo schopenhaueriano. Hartmann si rivolge in particolare allo Schelling più tardo, caratterizzato da un forte interesse metafisico-teologico, al di là dell’immanentismo della prima fase della sua filosofia; è in sostanza lo Schelling come si presenta dalle “Ricerche sulla libertà umana” del 1809 alla più tarda “Filosofia positiva”.

Quest’ultima consiste in particolare nel riconoscimento dell’irrazionale ingiustificabilità dell’esistenza di tutto ciò che consideriamo “reale”. Dalla “filosofia negativa” che si concentra sulla comprensibilità puramente ideale e intellegibile, alla “positività” fattuale dell’esistenza si può passare soltanto in un salto. C’è un abisso incolmabile fra la dimensione di ciò che si può comprendere per spiegazioni dell’intelletto e della ragione e la fattuale realtà dell’esperienza. Tuttavia Hartmann respinge risolutamente gli esiti “teistici” ai quali Schelling vuole concludere.

L’inconscio hartmanniano è sovraindividuale; non lo è invece quello freudiano che è, come in Hartmann, demonico e ostile alla coscienza, però è squisitamente individuale. Anche Jung conosceva bene sia Schopenhauer sia Hartmann e da lui ha ripreso il tema della sovraindividualità e impersonalità dell’ inconscio ma ne ha offuscato i caratteri demonici e persecutori che minacciano e insidiano la gioia e la felicità per quel poco che ne è possibile conseguire nell’esistenza finita. Tutto ciò che esiste deve il suo “esserci” soltanto all’ingiustificabile irrazionalità del volere assoluto, arbitrario e immotivato di un inconscio assoluto che non sa riconoscersi.

Ma ciò che riconosce l’ingiustificabile e lo scandaloso esserci della contingenza può essere soltanto una coscienza consapevole che è data a se stessa e sa riflettere il suo essere; e questa coscienza, la sola che noi conosciamo, è quella umana. Nell’essere umano ha dunque luogo il principiare della liberazione dall’inconscio e dalla presa stritolante del dolore cosmico che tutto avvolge e compenetra. La mente umana dispiega un potere e una forza che è in grado di sottrarci all’onnipotenza cieca che tutto fa netutto disfa, senza ragione, dell’Inconscio. La nostra mente e la nostra psiche possono disattivare il veleno dell’inconscio riconducendo l’esser-ci del “che c’è”, del quod alla visione dell’idea, dell’immagine intellegibile di tutto l’esistente. Visione contemplante senza attaccamento e senza volontà di conquista e di possesso.

Dunque de-esistentificazione e trasfigurazione che brucia le scorie di ogni realtà, purificandola nell’intellegibilità de-realizzata. Amore contemplativo al di là e al di fuori di ogni desiderio di appropriazione e di possesso sono le sole vie d’accesso alla liberazione dal male che affligge e inchioda tutto l’universo con la catena dell’insensatezza. Le gioie interiori dell’arte e della conoscenza sono il segno certo, l’impronta della potenza non creativa e generativa ma de-creante e quietiva che disattiva e neutralizza l’impulso cieco e sciagurato dell’inconscio nel suo circolo dissennato ed insensato di generazione e distruzione di ogni realtà finita e creata. La chiusa della monumentale Philosophie des sittlichen Bewusstseins (1878) esprime molto felicemente questo pensiero che nasce da un’etica della moderazione, della simpatia, della rinuncia intelligente e meditata a tutti i beni falsi e menzogneri il cui conseguimento ci attira e ci precipita nelle spire abissali dell’Inconscio. Scrive Hartmann: “L’essere reale è l’incarnazione della divinità; il processo del mondo è la storia della passione del Dio fattosi carne ed è insieme la via del crocifisso nella carne. La moralità è la collaborazione all’abbreviamento di questa via della sofferenza e della liberazione”.

6 Ambiguità e bivalenza dell’ Inconscio

L’esigenza totalmente speculativa di scoprire un senso ultimo nell’ Inconscio non può essere soddisfatta dalla psicologia in nessuna delle sue possibili versioni e declinazioni; c’è sempre qualcosa che si distende sempre come un’ombra fitta, diffusa e imperscrutabile nell’inconscio, e c’è qualcosa di impenetrabile da parte di ogni analisi psicologica della psiche. Muoviamo da un’osservazione per noi fondamentale e imprescindibile.

E’ irresistibile nella specie umana e nella coscienza di tutte le comunità umane fin dalle età preistoriche la tentazione e la fascinazione della ricerca e della conquista di stati alterati della coscienza. Tutte le forme di fusione affettiva ed emozionale con tutto ciò che può liberarci dai legami della coscienza della finitudine e dei limiti dolorosi dell’esistenza, dall’ “angoscia dell’esistere” che “scaccia la creatura dal suo centro” (Schelling, Ricerche sulla libertà umana, 1809), hanno da sempre, dai tempi più remoti e immemorabili, affascinato l’essere umano.

L’ angoscia forma la coscienza nella consapevolezza dell’esposizione a tutto il dolore possibile dell’essere; il dolore possibile è già realtà e perciò la coscienza nasce nel dolore e dal dolore. Si può, senza timore di ingannarci, definire le fusioni emotive ed affettive come “regressioni nell’inconscio”; sono ritorni all’indifferenziato, al Caos originario della preesistenza di tutto ciò, che poi, da esso uscito è stato, è e sarà qualcosa. Le orge tribali, le danze sacre, le ebbrezze collettive dei riti tribali dei popoli arcaici che, con una sfumatura di disprezzo chiamiamo “primitivi”, appaiono come momenti sacri di rigenerazione della comunità ed accompagnano la rinascita dell’universo stesso, come ci fa vedere perspicuamente Mircea Eliade, il grande studioso delle religioni. Il richiamo allo spirito dell’invasamento demonico e divino a Platone e al suo riferimento ai sacerdoti di Dioniso o di Cibele non può non ricorrere.

Le “pitonesse” e le sibille dell’antichità parlavano e vaticinavano soltanto dopo avere attivato ed instaurato stati di trance che si esprimevano in movimenti scomposti e scoordinati, mentre la loro figura veniva avvolta da nuvole di fumo innalzantisi dalle fiamme di bracieri accesi. Non sempre si riusciva a percepire il senso di parole chiaramente distinguibili da balbettii confusi e prolungati, da gemiti inarticolati, da urli soffocati. Spesso nelle culture arcaiche era coltivata con particolare perizia l’arte dell’estrazione e dell’ingestione di sostanza psicotrope ed allucinogene, come il soma dell’India vedica o il peyòtl, ricavato dalle foglie dell’agave delle comunità precolombiane del Centroamerica. E là dove, come nelle età cosiddette “civili”, riti e credenze religiose sono venuti a mancare, questi oscuri rituali provocatori di collettive fusioni di massa si sono manifestati in altre forme e in altre manifestazioni ben riconoscibili nelle esaltazioni di folle sterminatamente numerose in adorazione di guide e di capi carismatici che le soggiogavano con la loro propaganda, eccitandole a riarmi e a guerre, a massacri indiscriminati di nemici additati come portatori di infelicità, di sciagure e di miseria.

Le riunioni di folle immensamente numerose, gli orpelli cerimoniali di partiti insignoritisi di un potere assoluto servirono ad inculcare e a rafforzare la volontà esaltata di sottomissione e di schiavitù ad un capo. Di queste sciagure sono cadute vittime nazioni u tempo grandi e civili e ne sono state condotte alla rovina. Le propagande devono essere ossessive, insistenti, martellanti, devono raggiungere ogni individuo fin nei più segreti recessi della sua vita quotidiana in cui nulla deve sottrarsi alla presa di un’ideologia dominante e disgraziata. E potremmo continuare ancora a lungo su tutto ciò, ma non ci sembra più necessario.

L’archetipo ancestrale dell’orgia comunitaria, del rito di fusione assoluta delle coscienze individuali che fa perdere il senso del limite della finitudine non si può né spiegare né comprendere muovendo dalle dinamiche affettive ed emozionali infantili, né come esito di repressioni originarie. Rituali e cerimoniali profani ricalcano e ripropongono in forme diverse atteggiamenti originariamente religiosi in società affatto irreligiose, però sortiscono effetti per certi versi molto simili.

L’inconscio attrae ed affascina perché abolisce i limiti e le chiusure che separano la vita dalla morte. La “pulsione di morte” trattata da Freud in Al di là del principio del piacere (1919), potrebbe forse spiegarsi meglio come bramosia ardente di sommersione nell’inconscio, in un’abissalità di inconsapevolezza dove l’angoscia, la morte, la corruzione del corpo già in questa vita non possono più avere la signoria sull’esistenza. Perciò la fascinazione dell’inconscio rimane sempre fortissima. Ma la regressione nell’inconscio è tutt’altro che priva di pericoli. Lo sapevano bene gli arcaici sciamani di antiche tribù preistoriche, delle quali ci sono ancora discendenti in alcune tribù africane o presso gli amerindi nordamericani. Essi avevano il compito di guidare gli iniziandi e di condurre le cerimonie orgiastiche ed exstatiche per prevenire ogni visione terrificante ed ogni pericolo di paralisi o di morte.

Ma con questo non si è ancora detto tutto. Si possono smentire in alcuni punti sia la psicoanalisi freudiana, sia la psicologia analitica di Jung, ed anche la filosofia dell’inconscio di von Hartmann. Ci domandiamo innanzitutto questo: siamo sicuri che non ci siano formazioni mentali che, pur nei loro aspetti estranianti e perturbanti non rientrano affatto interamente nel regno dell’ “inconscio” e non gli sfuggano? Tutti i miti e tutti i simboli nascono come figurazioni interamente e unicamente, senza residui in esso? La nostra risposta è negativa. I miti certamente sono molteplici e molto vari ed ogni tradizione ha i suoi, che sembrano ben distinti e ben diversi da quelli di altre. Così per esempio i miti e i riti connessi di un sacrificio primordiale che disarticola e frammenta il mondo, aprendo le porte all’irruzione del male e della distruzione e la conseguente nascita di un salvatore, di un predestinato, sia egli un eroe o un semidio oppure un dio stesso che fa rinascere il mondo uccidendo e distruggendo la forza malvagia che voleva negarlo rivelano di possedere un centro comune di riferimento che ne costituisce l’essenza simbolica soggiacente a tutte le formazioni consimili.

Ma il mito è un racconto, non una dottrina che si esprime e si snoda in concetti, e perciò non può sostenersi senza una storia sovrastorica delle origini di un tempo che precede tutti i tempi delle storie mondane e profane. Non dobbiamo inoltre lasciarci fuorviare dal fatto che, pur nascendo da uno stesso nucleo di senso, i miti poi si differenzino da un popolo ad un altro e che i loro personaggi, divini o semidivini, possano andare incontro a destini diversi. Nei miti ci sono idee uniche ed unitarie che però sono anche diversificate dalla fantasia umana. C’è un “mitologema” unico, uno stesso nucleo di senso che unisce idealmente popoli e tribù lontani nello spazio e nel tempo, ed esso è il punto sorgivo degli archetipi e delle formazioni archetipiche della coscienza.

Dinanzi ad esse la coscienza è come irretita ed incantata, perché in esse è proiettata exstaticamente; non è attivamente formatrice, ma piuttosto elaboratrice passiva. I miti di morte e di rinascita dei salcvatori e redentori del mondo come ad esempio Osiride e Dioniso oppure l’ Adone fenicio alludono a qualcosa che è lo “Stesso” e l’ “Identico” e non semplicemente qualcosa di uguale come una copia rispetto all’originale, nonostante le differenze dei contesti. Anche la sostanza dello stesso Cristianesimo con la necessità del destino della morte dolorosa del Christus patiens, del giusto innocente e senza macchia che sconta la colpa e l’errore di Adamo contiene un nucleo mitologico che rimanda al Purusha dell’India vedica, al macroantropo dal cui smembramento nasce tutto l’essere del mondo. Nel Cristianesimo il mito si è fatto storia e si è diffuso come un messaggio universale; ma non sarebbe divenuto tale senza un contenuto di senso trascendente, e dunque mitologico che non si riduce ad un semplice dato di fatto storico.

Nelle religioni non cristiane i sacrifici e le offerte rituali del sacerdozio ricostituiranno il “macroantropo” riconducendo il tutto all’ integrità delle origini; nel Cristianesimo il sacrificio è unico e definitivo e segna il punto di svolta nella storia.

Potremmo continuare ancora a lungo in rassegne e in confronti, ma per ora in questa sede non ci è possibile. Osserviamo innanzitutto che nelle grandi immagini simbolizzatrici la potenza immaginifica sorprende la coscienza a sua stessa insaputa. La coscienza individuale è come transpropriata; ha superato e dimesso la sua individuazione, e però rimane pur sempre presente al cospetto del suo immaginato con cui si compenetra senza tuttavia scomparire. E questa è la grande differenza con l’ “inconscio” nel quale invece la coscienza si sommerge. Non è certamente un caso e non è affatto una pura e semplice contingenza l’ignoranza dei nomi e delle personalità dei primi mitopoieti né dei tempi storici i n cui nacque la mitopoiesi. E un altro segno di trascendenza dei contenuti mitici rispetto alla fantasia degli individui nella loro singolarità è data dalla precedenza dell’oralità e dell’anonimato dei fondatori professanti; questo è ciò che è proprio delle manifestazioni dell’essenzialità di ogni simbologia archetipica, e non si può perciò pensare che simbologie e miti siano nati da una fattuale scritturalità e da depositi scritturali tramandati nei secoli. Ci sembra a questo punto, a conclusione di tutta la presente esposizione, di essere pervenuti almeno in prossimità di qualcosa che è un’alterità e un’ulteriorità rispetto all’inconscio perché qui appare qualcosa che non è “demonico”, che non ha nulla dell’incantesimo di un sortiegio.

Ogni grande creazione poetica, ogni profonda visione speculativa, ogni produzione portentosa delle arti sono sempre nate da un’ispirazione in cui cè ed è all’opera qualcosa che non è limitato e confinato a produzioni e ad opere generate unicamente dal semplice umano sapere; è qualcosa che non è proprio di tutte le superiori creazioni, ma soltanto di poche. Nell’ispirazione e nella creazione superconscia non è più necessaria la gestualità scomposta e deformante della trance. Le visioni ispirate appaiono come risposte ad appelli delle voci del mondo, che discendono da una Mente Unica diffusa in tutto e i cui messaggi sono molto raramente colti ed ascoltati perché le loro tracce e i loro segni sono di frequente labili, passeggeri e confusi.

Qui ci avviciniamo al cospetto di qualcosa che è ben più di un “inconscio”, perché è un “Superconscio”, un “Transconscio”, e qui ci dobbiamo fermare e concludere. C’è sempre un “oltre” per il quale mancano e mancheranno sempre le parole.

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