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Conjectura: Filosofia e Educação

versão impressa ISSN 0103-1457versão On-line ISSN 2178-4612

Conjectura: filos. e Educ. vol.26  Caxias do Sul  2021  Epub 01-Jan-2024

https://doi.org/10.18226/21784612.v26.e021006 

DOSSIÊ: FILOSOFIA E NEUROCIÊNCIAS: INTERSECÇÕES ENTRE AS CIÊNCIAS HUMANAS E NATURAIS

Sintonie corporee: Neuroscienze affettive ed empatia

Corporeal affinities: affective Neuroscience and empathy

Sintonias corpóreas: Neurociência afetiva e empatia

*Professora-Associada de Filosofia e Teoria das Linguagens no Departamento de Ciências Cognitivas da Formação e dos Estudos Culturais da Universidade de Messina – Itália. E-mail: rcavalieri@unime.it


Sintesi

Negli ultimi decenni le Neuroscienze hanno raggiunto traguardi considerevoli nella comprensione dei processi mentali e del comportamento umano, superando le classiche separazioni tra mente e corpo, ragione e passione, penetrando nei meandri della nostra vita cognitiva ed emotiva per spiegare il loro radicarsi nel corpo e il loro interagire con l’ambiente. E se fino a non molti anni fa la ricerca psicologica e neuroscientifica trascurava lo studio della vita emotiva per concentrarsi solo sulle funzione cognitive tout court, oggi esiste addirittura un settore dedicato denominato Neuroscienze affettive. Ricostruendo a grandi linee il panorama generale delle Neuroscienze, e di quelle affettive in particolare, questo saggio si sofferma sul contributo che le ricerche sui neuroni specchio hanno apportato alla comprensione dei meccanismi dell’intersoggettività e soprattutto di quella componente della cognizione sociale che è l’empatia. L’obiettivo è di comprendere come facciamo a riconoscere le emozioni degli altri e di spiegare da cosa dipende la capacità umana di interpretare le azioni e le intenzioni altrui come se fossero nostre, per conoscere meglio come funzioniamo e come ci relazioniamo agli altri. Le ricerche sui neuroni mirror, entro una prospettiva embodied, mostrano come il cervello sia un organo legato a un corpo che agisce, si muove e sente nella sua incessante interazione col mondo.

Parole-chiave Neuroscienze; Neuroscienze affettive; Emozioni; Empatia; Neuroni specchio; Cognizione incarnata

Abstract

In recent decades, neurosciences have reached considerable goals in understanding mental processes and human behavior, overcoming the classic separations between mind and body, reason and passion, penetrating the maze of our cognitive and emotional life to explain their rootedness in the body and the their interactions with the environment. And if until not many years ago psychological and neuroscientific research neglected the study of emotional life to focus only on cognitive functions tout court, today there is even a dedicated sector called affective Neuroscience. By broadly reconstructing the general panorama of neuroscience, and of the affective ones in particular, this essay focuses on the contribution that research on mirror neurons has made to understanding the mechanisms of intersubjectivity and above all that component of social cognition that is empathy. The goal is to understand how we recognize the emotions of others and to explain what the human ability to interpret the actions and intentions of others as if they were ours, to know better how we work and how we relate to others. Research on mirror neurons, within an embodied perspective, shows how the brain is an organ linked to a body that acts, moves and feels in its unceasing interaction with the world.

Keywords Neuroscience; Affective Neurosciences; Emotions; Empathy; Mirror neurons; Embodied cognition

Resumo

Nas últimas décadas, as Neurociências alcançaram objetivos consideráveis na compreensão dos processos mentais e do comportamento humano, superando as separações clássicas entre mente e corpo, razão e paixão, penetrando nos meandros da nossa vida cognitiva e emocional para explicar suas raízes corporais e suas interações com o meio ambiente. E, se, até poucos anos atrás, as pesquisas psicológicas e neurocientíficas negligenciavam o estudo da vida emocional para se concentrarem apenas nas funções cognitivas tout court, atualmente, existe até um setor específico denominado Neurociência afetiva. Ao reconstruir amplamente o panorama geral da Neurociência e, em particular, daquela afetiva, este ensaio se concentra na contribuição que as pesquisas sobre neurônios-espelho trouxeram para a compreensão dos mecanismos da intersubjetividade e, sobretudo, daquele componente da cognição social que é a empatia. O objetivo é compreender como reconhecemos as emoções dos outros e explicar do que depende a capacidade humana para interpretar as ações e as intenções dos outros como se fossem nossas, para conhecer melhor como funcionamos e como nos relacionamos com os outros. As pesquisas sobre os neurônios-espelho, em uma perspectiva corporalizada, mostram como o cérebro é um órgão ligado a um corpo que age, se move e sente, na sua interminável interação com o mundo.

Palavras-chave Neurociência; Neurociência afetiva; Emoções; Empatia; Neurônios-espelho; Cognição corporalizada

Introduzione

Il progresso delle ricerche neuroscientifiche ha permesso di svelare molti misteri della nostra scatola nera accogliendo la sfida di decifrare i meccanismi del nostro organo più enigmatico e, per certi versi, più impenetrabile. Gli studi sul cervello hanno così raggiunto traguardi considerevoli nella comprensione dei processi mentali e del comportamento umano, spingendosi al punto da superare le usate separazioni tra mente e corpo, ragione e passione, penetrando nei meandri della nostra vita cognitiva ed emotiva per spiegare il loro radicarsi nel corpo e il loro interagire con l’ambiente. La nostra vita cognitiva non è separata dal corpo, anzi il corpo e il cervello che ne è parte integrante contribuiscono a determinare i nostri processi mentali e la nostra vita affettiva, che a loro volta s’intersecano. Insomma, come osserva il neuroscienziato Antonio Damasio, “la mente esiste dentro e per un organismo integrato: le nostre menti non sarebbero quello che sono se non fosse per l’azione reciproca di corpo e cervello” (1995, p. 24).

E se fino a non molti anni fa la ricerca psicologica e neuroscientifica trascurava lo studio della vita emotiva per concentrarsi solo sulle funzione cognitive tout court, oggi esiste addirittura un settore apposito delle Neuroscienze: quello delle “Neuroscienze affettive”. Ragione e sentimento non sono più considerate facoltà inconciliabili e a ciascuna corrispondono zone e funzioni cerebrali specifiche. Numerosi studi sull’embodied cognition (una prospettiva teorica nata negli ultimi decenni in seno alle Neuroscienze cognitive con l’intento di analizzare e comprendere la mente studiandone il radicamento e l’integrazione nel corpo, e nel cervello in particolare, e l’interazione col mondo) hanno mostrato il nesso tra cognizione ed emozioni, l’influenza cioè della vita emotiva sulla vita razionale, e l’attivazione simultanea di aree cognitive e di circuiti affettivi del cervello noti ormai da tempo. Numerosi studi hanno inoltre attestato il ruolo dell’intero corpo nella creazione di esperienze emotive (per esempio, DAMASIO, 2003; BARRETT, 2017). Solo di recente tuttavia le emozioni sono state considerate un possibile tramite tra la cognizione e il corpo e se ne sono colti più chiaramente i collegamenti (NIEDENTHAL, 2007). E c’è addirittura chi sostiene che l’emozione sia una forma di cognizione (DUNCAN; BARRETT, 2007).

Le più recenti ricerche hanno altresì rilevato l’interazione tra funzioni cognitive superiori e sistema sensori-motorio. Il caso più emblematico è costituito – com’è noto – dalla scoperta dei neuroni specchio, una popolazione particolare di neuroni che indicano nel sistema motorio l’impalcatura su cui si fonda la nostra comprensione delle azioni e delle emozioni degli altri, e la cui peculiarità è di essere in relazione con il movimento nostro e altrui.

Ricostruendo a grandi linee il panorama generale delle Neuroscienze, e di quelle affettive in particolare, questo saggio si sofferma sul contributo che le ricerche sui neuroni specchio hanno apportato alla comprensione dei meccanismi dell’intersoggettività – in genere studiati dalle scienze psicologiche e sociologiche – e soprattutto di quella componente della cognizione sociale che è l’empatia. L’obiettivo è di comprendere come facciamo a riconoscere le emozioni degli altri e di spiegare da cosa dipende la capacità umana di interpretare le azioni e le intenzioni altrui come se fossero nostre. La conoscenza del funzionamento del sistema nervoso e dei processi cognitivi non può, infatti, prescindere dalla dimensione interpersonale, cioè da quelle relazioni intersoggettive senza le quali probabilmente “non solo non vi sarebbe sviluppo cognitivo, ma non esisterebbero neppure quei legami sociali che sono alla base di ogni idea di comunità” (RIZZOLATTI; GNOLI, 2016, p. 6).

L’attività dei neuroni specchio e i circuiti che li vedono coinvolti, oltre a favorire lo sviluppo delle capacità di comprendere la mente dell’altro – grazie alla condivisione di dispositivi nervosi di risonanza motoria che sono alla base delle modalità di azione, dei sentimenti e delle emozioni che condividiamo con gli altri – permette la regolazione efficace di alcuni comportamenti sociali e fornisce una spiegazione biologica dei processi empatici, aiutandoci a conoscere meglio come funzioniamo e come ci relazioniamo agli altri.

In quanto animali sociali, la nostra capacità di sopravvivenza è subordinata anche alla nostra attitudine a leggere, per così dire, le emozioni dei nostri consimili, a stabilire una sintonia rivivendo all’interno di noi stessi sensazioni ed emozioni che osserviamo negli altri. Attivando la nostra apertura al mondo e configurando in molti casi anche la nostra emotività, i neuroni specchio sono “la principale risorsa biologica del nostro rapporto con il mondo esterno” (RIZZOLATTI; GNOLI, 2016, p. 7-8). Le ricerche che li riguardano “possono offrire spunti interessanti sulla nostra comprensione dei meccanismi che sottendono le relazioni interpersonali” (GALLESE, 2007, p. 197), mostrando come il cervello sia un organo legato a un corpo che agisce, si muove e sente nella sua incessante interazione col mondo.

1 Neuroscienze: qualche definizione

Negli ultimi decenni la ricerca neuroscientifica ha svelato alcuni misteri relativi alla materia della mente, aiutandoci a comprendere come pensiamo, come ricordiamo o dimentichiamo, perché ci emozioniamo, come sentiamo, come funzionano i nostri dispositivi sensoriali e altri aspetti del nostro comportamento. Benché lo studio scientifico del cervello abbia avuto origine nel diciannovesimo secolo, la parola neuroscienze è recente e denota un approccio interdisciplinare allo studio di quello che è considerato l’organo più complesso dell’universo. Si tratta, insomma, di un gruppo di discipline scientifiche molto diverse tra loro che studiano il sistema nervoso (il cervello, il midollo spinale e le reti di neuroni sparse in tutto il corpo) nei suoi vari aspetti, mediante l’apporto di numerose branche della ricerca biomedica (neurofisiologia, farmacologia, biochimica, biologia molecolare, biologia cellulare, tecniche di neuroradiologia, ecc.), con lo scopo di comprendere i meccanismi biologici sottostanti all’attività mentale umana sia in condizioni fisiologiche sia in condizioni patologiche.

Nonostante possa sembrare eccessivamente specialistico, questo ambito d’indagine è così vasto da comprendere quasi tutta la scienza naturale, ponendo il sistema nervoso come focus condiviso. Le Neuroscienze rappresentano, infatti, una scienza sempre più interdisciplinare, integrata e complementare, che attinge da matematica, fisica, chimica, nanotecnologie, ingegneria, informatica, psicologia, medicina, biologia, filosofia, e si muove in direzione opposta rispetto al confinamento specialistico dello studio del cervello e alla delimitazione del sapere tecnico caratteristici del passato. Oggi questi studi cominciano a fornire anche informazioni di importanza fondamentale per comprendere la natura di processi mentali come la coscienza, la volontà, la memoria, la vita emotiva e altri domini come l’intersoggettività, l’empatia, l’etica e l’estetica.

Storicamente le Neuroscienze nascono verso la fine dell’Ottocento con l’identificazione del neurone (per merito di Camillo Golgi e di Santiago Ramón y Cajal – KANDEL; SCHWARTZ; JESSELL, 2003, p. 6), quale unità cellulare autonoma e funzionalmente indipendente del sistema nervoso altamente specializzata per ricevere, elaborare e trasmettere informazioni ad altri neuroni o a cellule effettrici (per es.: muscolari o ghiandolari). Il termine Neuroscienze è recente e deriva dall’inglese Neurosciences, un neologismo coniato negli anni Sessanta dal neurofisiologo americano Francis O. Schmitt, il quale capì che per raggiungere una piena comprensione della complessità del funzionamento cerebrale era necessario unificare gli sforzi e le risorse di discipline scientifiche diverse, abbattendone i confini. Intorno al 1970 viene fondata negli Stati Uniti la Società di Neuroscienze, un’associazione di neuroscienziati professionisti che si sono resi conto che il modo migliore per tentare di capire come lavora il cervello deriva da un approccio interdisciplinare (BEAR; CONNORS; PARADISO, 2007, p. 3).

L’ampio campo d’indagine delle Neuroscienze include perciò un vasto spettro di problematiche volte a spiegare ogni comportamento – dalle percezioni, ai pensieri, ai sentimenti, alle azioni, alle emozioni – come il risultato di una o più funzioni cerebrali: lo sviluppo, la maturazione e il mantenimento del sistema nervoso, la sua struttura anatomica e funzionale, con un’attenzione particolare al ruolo che il cervello riveste nel comportamento e nella cognizione. L’obiettivo, come s’è detto, è cercare di comprendere non solo i normali meccanismi del sistema nervoso (fisiologia), ma anche quello che non funziona adeguatamente nei disturbi dello sviluppo, in quelli psichiatrici e nei disturbi neurologici (patologia), con l’intento di trovare nuove strade per prevenirli o curarli. Nel libro Principi di Neuroscienze, il premio Nobel Eric Kandel dichiara:

È compito delle neuroscienze quello di spiegare il comportamento in termini di attività cerebrali; di spiegare cioè in che modo milioni di singole cellule nervose operino nel cervello per determinare la comparsa di comportamenti e in che modo queste cellule possono venire a loro volta influenzate dalle condizioni dell’ambiente che le circonda, ivi incluso il comportamento di altre persone

(KANDEL; SCHWARTZ; JESSELL, 2003, p. 5).

Le frontiere delle Neuroscienze sono tante: dallo studio e utilizzo delle cellule staminali per riparare parti del tessuto nervoso danneggiate o morte, alla comprensione dei meccanismi che regolano l’invecchiamento e determinano la morte, alla visualizzazione del cervello in piena attività per comprendere dove e come esso svolga le funzioni vitali cui è preposto ed eserciti le capacità cognitive e intellettive che lo caratterizzano, distinguendolo da quello degli altri animali; alla conoscenza precisa delle regioni della corteccia cerebrale responsabili di singole funzioni motorie, sensitive, affettive e cognitive, all’individuazione delle regioni che possono vicariare quelle che hanno subito un danno, fino allo sviluppo di efficaci strategie mirate per il recupero e la riabilitazione delle funzioni perse, sfruttando la plasticità del cervello e la sua straordinaria capacità di rigenerarsi.

Il cervello è stato definito l’evento più complesso dell’universo conosciuto, con i suoi 100 miliardi di neuroni e 100 trilioni di connessioni sinaptiche (sinapsi: strutture altamente specializzate, che consentono la comunicazione delle cellule del tessuto nervoso tra loro e con altre cellule, punti di contatto tra due cellule nervose che servono per propagarne gli impulsi attraverso la liberazione di sostanze chimiche chiamate neurotrasmettitori) che formano un’intricata giungla di circuiti neurali a loro volta intrecciati in reti complesse. Oggi si sa molto su questo organo sofisticato ma tuttavia non ancora abbastanza.

Negli ultimi anni le Neuroscienze hanno cercato di chiarire il funzionamento di quell’entità misteriosa che è la mente umana, elaborandone una concezione neurobiologica, aiutandoci a comprendere chi siamo, come funzioniamo e ciò che ci rende umani. Se, infatti, in tutta la storia del pensiero, a cominciare dalla Grecia antica con Platone, la mente è stata considerata un’entità separata dal corpo e quindi dal cervello, oggi, invece, si è venuta affermando una teoria che considera la mente un’entità che “emerge dal cervello”. Così, quella che chiamiamo mente, secondo molti neuroscienziati (tra i quali, Francis Crick, Antonio Damasio, Eric Kandel) sarebbe semplicemente un insieme di operazioni eseguite dal sistema nervoso centrale. E anche la spiegazione della coscienza (una proprietà fondamentale della mente dal significato polisemico: autoconsapevolezza, vigilanza, soggettività, capacità dell’uomo di riflettere su se stesso e di attribuire significato alle proprie azioni ecc.), uno degli obiettivi più ambiziosi delle Neuroscienze contemporanee, viene da molti ricercata nell’attività del cervello (per es.: GAZZANIGA; LE DOUX, 1978; LE DOUX, 1998, 2002). Insomma, secondo le attuali Neuroscienze per comprendere la mente nel suo complesso bisogna comprendere il cervello, come sosteneva già Ippocrate, il padre della Medicina greca, oltre duemila anni fa.

Una serie di strumenti consentono oggi di esplorare il cervello quale sede delle funzioni mentali, per scoprire i correlati neurali di tali funzioni, cioè le aree coinvolte in particolari comportamenti e operazioni cognitive e le anomalie cerebrali nelle varie patologie mentali. I progressi straordinari registrati in questo dominio negli ultimi decenni sono stati resi possibili grazie soprattutto alle nuove tecniche di neuroimaging come la Tomografia ad Emissione di Positroni (PET), la Risonanza Magnetica Funzionale (RMF) o la magnetoencefalografia (unitamente alle metodiche della genetica e della biologia molecolare), che permettono di osservare le regioni del cervello che si attivano selettivamente mentre il soggetto svolge compiti particolari come parlare, leggere, ascoltare, muoversi oppure stare in stato di riposo, di penetrare nei nostri più intimi e profondi stati d’animo per comprendere come pensiamo, agiano, sogniamo, cosa proviamo.

Bisogna anzitutto capire in che modo i neuroni si organizzano in circuiti capaci di generare segnali e in che modo comunicano tra di loro attraverso la trasmissione sinaptica. Successivamente è necessario comprendere i fattori che determinano il nostro comportamento, siano essi genetici, innati o ambientali e socio-culturali. Infine, occorre spiegare le basi neurobiologiche dei processi della coscienza (per una panoramica sulle diverse teorie alla coscienza tra Neuroscienze e filosofia, CERONI; VANZAGO, 2014). Per fare ciò, le nuove Neuroscienze hanno cercato di unificare le ricerche sull’attività della mente con i meccanismi del funzionamento del cervello.

Senza entrare nel vivo di un dibattito estremamente complesso e che esula dagli obiettivi di questo saggio, va precisato che secondo alcuni studiosi, come si è già detto, saremo in grado di studiare scientificamente ogni aspetto della nostra vita mentale (riduzionismo materialistico). Per altri, invece, non si può considerare la mente soltanto come un prodotto del cervello: essa è qualcosa di più. La sua comprensione e quella di alcune questioni riguardanti il senso profondo della vita non potrà essere mai pienamente raggiunta ed è irriducibile a eventi neurofisiologici. Secondo questo punto di vista, le Neuroscienze non possono svelare il senso profondo della nostra esistenza, per comprendere la quale è necessario far interagire, e quindi integrare, il piano scientifico con la riflessione filosofica e la speculazione teoretica, e far dialogare le conoscenze neuroscientifiche con quelle relative agli aspetti sociali, ambientali, culturali, ed esperienziali.

Le Neuroscienze attualmente hanno un ruolo fondamentale anche nell’ambito delle scienze cognitive. Queste ultime costituiscono un’area interdisciplinare, una superdisciplina per così dire, che ha come oggetto di studio la natura della mente e il suo funzionamento in un qualunque sistema pensante, sia esso naturale o artificiale. In quanto interdisciplinari, le scienze cognitive includono appunto diversi ambiti d’indagine tra cui la psicologia, la filosofia della mente, la linguistica, le Neuroscienze, l’intelligenza artificiale, l’informatica, l’etologia e l’antropologia. Nascono formalmente negli anni ‘70 basandosi sull’assunto che la mente umana funzioni come un calcolatore, come un sistema astratto di elaborazione delle informazioni, caratterizzandosi proprio come settore di ricerca integrata, come metodo tipicamente interdisciplinare, con l’intento di giungere a una spiegazione della mente il più possibile unitaria e valida, e di risolvere problemi insolubili nel chiuso delle singole discipline (per un’introduzione: LEGRENZI, 2010; MARRAFFA, 2019).

L’obiettivo comune è spiegare come pensiamo, quali sono i meccanismi che determinano i nostri comportamenti e in che modo gli organismi intelligenti interagiscono con l’ambiente. La concezione della mente come sistema di manipolazione di simboli, separato dal corpo e dal mondo, caratteristico delle scienze cognitive di prima generazione, nel tempo ha lasciato spazio alla scienza cognitiva incarnata (embodied cognition), o di seconda generazione, restituendo dignità cognitiva al corpo, all’esperienza sensoriale e a quella emotiva, assumendo che i vari aspetti della conoscenza (idee, pensieri, concetti, categorie, emozioni) siano modellati dal corpo e dalla struttura del cervello, e dalle sue interazioni con l’ambiente.

L’enorme progresso che stiamo vivendo riguardo la conoscenza della struttura e del funzionamento del sistema nervoso e i promettenti sviluppi nel trattamento delle malattie neurologiche e psichiatriche hanno fatto sì che le Neuroscienze attualmente siano tra le discipline di punta in campo biologico e medico, e anche in quello delle scienze cognitive.

2 Le Neuroscienze affettive

Nell’ultimo ventennio il rapido sviluppo delle tecniche di brain imaging sugli umani ha fornito un contributo decisivo anche allo studio delle basi biologiche delle singole emozioni, individuandone l’origine e i meccanismi di regolazione. Per lungo tempo svalutate nel paradigma della tradizione epistemologica occidentale che, ispirandosi alla filosofia platonica e fino all’epoca contemporanea, ha contrapposto emozioni e passioni alla ragione, considerandole un elemento interferente con la razionalità o separato da essa, le emozioni sono diventate un oggetto di studio centrale nella ricerca neuroscientifica. Quest’ultima ne ha rivalutato il ruolo nei processi razionali, mostrando come esse favoriscano le attività cognitive. Per il neuroscienziato Antonio Damasio, il cui impegno in questo versante della ricerca scientifica è noto da tempo, emozioni e sentimenti “sono altrettanto cognitivi quanto gli altri percetti. Sono il risultato di una straordinaria sistemazione fisiologica che ha fatto del cervello l’avvinto uditorio del corpo” (DAMASIO, 1995, p. 22). Lo studio delle strutture cerebrali considerate cruciali per la loro elaborazione, sia in condizioni fisiologiche, sia in presenza di patologie di varia natura, ha indubbiamente contribuito alla riabilitazione cognitiva delle emozioni.

Negli ultimi decenni la drastica separazione tra emozioni e intelletto è stata infatti confutata non soltanto da argomentazioni speculative ma anche da evidenze neurologiche (dati clinici ed evidenze neurologiche sperimentali) che dimostrano il fondamento neurobiologico della funzionalità emotiva e i suoi strettissimi intrecci con l’agire razionale (per es.: DAMASIO, 1995, 2003; LE DOUX, 1998; PANKESEPP; BIVEN, 2014; DAVIDSON; BEGLEY, 2013). Perciò, se in passato le emozioni erano viste come meri processi psicologici, stati transitori e reattivi che giungevano a interrompere il flusso dell’attività mentale tra uno stimolo e una risposta, oggi, al contrario, grazie al contributo della ricerca neuroscientifica si pensa che esse si riferiscano a costrutti che coinvolgono processi percettivi e di monitoraggio attivi e in continuo sviluppo adattivo, donde la considerazione del funzionamento emotivo come costituito da un insieme di componenti organizzate dipendenti dai meccanismi cerebrali sottostanti.

Così con l’espressione affective neuroscience, usata per la prima volta dallo psicologo statunitense Jaak Panksepp (PANKSEPP; BIVEN, 2014) e applicata all’indagine sulle basi neurali dell’emozione, si intende una nuova disciplina che analizza i processi mentali di base, le funzioni cerebrali e i comportamenti emotivi comuni a tutti i mammiferi, uomo incluso (sia in soggetti sani sia in soggetti affetti da specifiche patologie neuro-psichiatriche), per localizzare meccanismi neurali dell’esperienza emotiva e i loro sistemi di regolazione, e comprendere perché hanno tanta influenza sulla nostra vita.

Anche se probabilmente non esiste un singolo sistema dell’emozione, ciononostante è stato da tempo individuato un gruppo di strutture interconnesse, inclusi l’ipotalamo, l’amigdala e parti della corteccia cerebrale (per es.: i lobi frontali), che risultano intimamente coinvolte nell’elaborazione delle emozioni ma che svolgono anche altre funzioni (per es.: percezione olfattiva, memoria, apprendimento). Le ricerche hanno portato a importanti progressi nella comprensione dei meccanismi cerebrali che sono alla base dei sentimenti. Questi ultimi sono associati a un complesso sistema di strutture cerebrali nel quale l’amigdala svolge un ruolo essenziale. Si tratta del cosiddetto sistema limbico (o cervello viscerale, comprendente: i bulbi olfattivi, il setto, il fornice, l’ippocampo, parte dell’amigdala, il giro del cingolo e i corpi mammillari), termine introdotto dal fisiologo americano Paul MacLean negli anni Settanta, che per la prima volta include l’esperienza affettiva nei circuiti cerebrali più arcaici, per indicare una delle parti più antiche del nostro cervello (che riveste il cervello rettile, preposto alle funzioni motorie e ad altre attività che sono alla base del comportamento sociale, come la scelta e la difesa del territorio o l’accoppiamento, funzioni per lo più ritualizzate e stereotipate) deputata all’elaborazione dei comportamenti affettivi-emotivi connessi a funzioni vitali per la sopravvivenza dell’individuo e della specie (MACLEAN, 1990).

In estrema sintesi, i circuiti del sistema limbico costituiscono il substrato anatomico della sfera emotiva che integra gli aspetti comportamentali dell’individuo, modulandoli con la componente affettivo-emozionale. Lo strato cerebrale evolutivamente più recente (del cervello trino di MacLean, una teoria oggi in larga parte superata) è costituito dalla neocorteccia, che nell’uomo esercita il controllo sulle altre due porzioni del cervello attraverso il pensiero simbolico e il linguaggio. Oggi sappiamo che non esiste un singolo sistema che regola le emozioni, tuttavia un gruppo di strutture interconnesse, di cui il sistema limbico è parte integrante, è intimamente coinvolto nell’elaborazione delle esperienze emotive. Queste sono pertanto il risultato dell’interazione complessa di diverse strutture, corticali, sottocorticali e neocorticali, che possiedono anche altre funzioni. Ciascuna di queste strutture svolge un ruolo specifico a seconda dei tipi di emozioni (BEAR; CONNORS; PARADISO, 2007, p. 585-605).

Finora non esiste una definizione unanime del concetto di emozione, sono state elaborate numerose teoria al riguardo. Possiamo, tuttavia, provare a definirla come uno stato affettivo intenso che coinvolge l’intero cervello ed è accompagnato da modificazioni fisiologiche e da cambiamenti comportamentali. La paura, per esempio, si manifesta con segnali verbali e non verbali (mimica, gestualità, postura, ecc.) in parte innati, in parte acquisiti culturalmente con l’educazione e con l’esperienza. Scoprire come sono prodotte dal cervello ci permette di entrare nei meandri più intimi della mente e di comprendere in che modo influenzano la nostra vita personale e i nostri rapporti sociali.

3 I neuroni specchio e l’empatia

Se è vero che le emozioni sono un accompagnamento costante della nostra vita, ci consentono di valutare le variazione più o meno improvvise dell’ambiente circostante e di reagire a esse nel modo più opportuno ai fini della nostra sopravvivenza e del nostro benessere, è altrettanto vero che oggi lo studio delle loro basi neurofisiologiche non riguarda solo i meccanismi che permettono al cervello di individuare segnali di pericolo o di disgusto e di mettere in atto risposte adattative. Gran parte delle nostre interazioni sociali e dei nostri comportamenti emotivi dipende, infatti, anche dalla nostra capacità di percepire e/o di comprendere le emozioni altrui, da quelle elementari come la paura o il disgusto a quelle più complesse come la gelosia, la vergogna o il rimorso. E d’altro canto vedere qualcuno che impallidisce all’improvviso e comincia a tremare non ci lascia indifferenti. Stesso discorso vale quando osserviamo sul volto di un’altra persona un’espressione di disgusto: ne siamo in qualche misura impressionati al punto che difficilmente mangeremo quel cibo o quella bevanda che l’ha provocata in chi ci sta dinnanzi. Insomma, sappiamo tutti che le emozioni altrui sono contagiose e influenzano il nostro umore.

Rivelatosi vantaggioso, nel corso dell’evoluzione, per affrontare in maniera efficace eventuali minacce e soprattutto per consolidare i legami interpersonali, questo meccanismo di risonanza emotiva prende il nome di empatia. Lo psicopatologo Simon Baron-Cohen (2012, p. 11) definisce l’empatia come: l’ “arte di mettersi nei panni degli altri a livello immaginativo, di capire i loro sentimenti e le loro prospettive, e di ricorrere a questa capacità di comprensione per guidare le proprie azioni”. Il neuroscienziato Giacomo Rizzolatti osserva che la parola empatia non è sinonimo di buonismo, “essa indica una nostra predisposizione ad agire in maniera partecipe verso l’altro” (RIZZOLATTI; GNOLI, 2016, p. 104), che poi deve essere la società a modulare, e che sta alla base delle relazioni tra gli esseri umani (RIZZOLATTI; GNOLI, 2016, p. 107-108). C’è poi chi sostiene che non si possa comprendere

la complessa sfera della vita sociale senza riconoscere la realtà e l’importanza dell’empatia nella vita di tutti i giorni. Le madri ignorerebbero il pianto dei loro bambini affamati. Poche persone farebbero lo sforzo di aiutare una persona su una sedia a rotelle che cerca di aprire la porta di un negozio. Le organizzazioni benefiche che combattono la povertà infantile chiuderebbero per mancanza di donazioni. I vostri amici sbadiglierebbero annoiati quando raccontate loro la rottura del vostro matrimonio

(ZRZNARIC, 2018, p. 18).

Insomma, se vi si presta attenzione non è difficile accorgersi che l’empatia ci circonda, anzi ne siamo pienamente immersi. Si tratta quindi di un’importante abilità mimetica – di un meccanismo dispositivo di immedesimazione e di solidarietà già oggetto di attenzione nel mondo antico (LOMBARDO, 2015) – grazie alla quale è possibile entrare più facilmente in sintonia con la persona con la quale si interagisce e di comprenderne gli stati d’animo, i desideri, i sentimenti e le idee, di un’abilità sociale di fondamentale importanza per instaurare una comunicazione interpersonale efficace e gratificante, ma anche più intima. Nelle relazioni interpersonali l’empatia è una delle principali porte d’accesso agli stati d’animo e più in generale al mondo dell’altro. Grazie a essa si può non solo afferrare il senso di ciò che asserisce l’interlocutore, ma se ne coglie anche il significato psico-emotivo più nascosto.

La partecipazione empatica ci consente di espandere la valenza del messaggio, cogliendone elementi che spesso vanno al di là del contenuto semantico della frase per includere il significato espresso dal linguaggio del corpo, che è possibile decodificare proprio grazie all’ascolto empatico. Se, per esempio, un collega di lavoro è triste, non solo siamo in grado di intuire che qualcosa in lui non va, ma il suo stato influenza anche il nostro stato d’animo. L’empatia, perciò, ci permette di essere sensibili alle emozioni o alla situazione dell’altro, di coglierne gli stati d’animo, i pensieri, le prospettive e le motivazioni, come se fossero presenti dentro di noi, ma senza che ci sia necessariamente una condivisione, né un desiderio di porvi rimedio (tratto caratteristico della compassione – Bourret, 2013, p. 14-17).

Il termine deriva dal greco en-pathos, sentire dentro, e consiste proprio nel comprendere e/o nel dedurre attraverso pensieri logico-razionali (empatia cognitiva connessa anche ai concetti di teoria della mente e di mentalizzazione) e/o nel percepire e riconoscere (empatia affettiva) i sentimenti e le emozioni degli altri come se fossero proprie, calandosi nella realtà altrui per capire e interpretare punti di vista, pensieri, sentimenti, gesti non verbali, espressioni facciali e stati d’animo (tra gli altri, ROGANTI; RICCI BITTI; 2012, p. 567-568). Anche se questo processo inferenziale e di conoscenza si innesca involontariamente, può essere controllato e ad esso può seguire un comportamento di risposta generato da fattori diversi che non dipendono solo da quello empatico (MICHELETTI, 2017, p. 89). In quanto sentimento che sta alla base di ogni vera comunicazione (BOURRET, 2013, p. 30), necessario per tessere e mantenere le nostre relazioni sociali, dalle più superficiali alle più profonde, l’empatia è perciò una delle fondamenta della vita sociale.

Collocandosi alla base della socialità e, ancora prima, del riconoscimento dell’esistenza di altre persone che, proprio come noi, hanno un loro vissuto, l’empatia ha un ruolo cruciale nei rapporti interpersonali (DE VECCHI, 2018). Potremmo dire che questa risorsa fondamentale per rafforzare i legami sociali getta un ponte tra noi e gli altri, attivando un processo di imitazione interna in virtù del quale sentiamo direttamente ciò che sente l’altro, come se quell’emozione ci appartenesse, oppure immaginiamo cosa può provare dal modo in cui si comporta o dal contesto.

Se fino a pochi anni fa l’empatia era un mistero, oggi la scienza ha iniziato a capire come funziona, integrando le conoscenze provenienti dalla filosofia e dalle scienze sociali: sappiamo, infatti, che l’attitudine a comprendere lo stato emotivo e mentale di qualcuno, a mettersi nei panni dell’altro, a sentire ciò che sente l’altra persona e a mentalizzare, ha un fondamento biologico e addirittura genetico. Come ci insegnano le scienze che se occupano, l’empatia fa parte di quel patrimonio di funzioni neurobiologiche selezionate nel corso dell’evoluzione ed è frutto di quel processo di selezione naturale che ha permesso agli individui di sviluppare legami sociali e un maggior successo riproduttivo.

A livello neurobiologico la chiave di questo ingranaggio dell’intelligenza sociale, cruciale per la comprensione dell’intersoggettività, è stata individuata in un circuito cerebrale che include una classe di neuroni, i cosiddetti neuroni specchio, successivamente definiti anche neuroni dell’empatia.2 Si tratta di una delle scoperte neuroscientifiche contemporanee più entusiasmanti e straordinarie, ricca di conseguenze psicologiche, filosofiche e sociali, una scoperta che può aiutarci a capire come funziona la nostra mente, a partire dallo stretto intreccio tra attività motoria e pensiero, e come stabiliamo sintonie con gli altri.

Individuati sul finire degli anni ’90 da un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma, i neuroni specchio sono al centro di un acceso dibattito che coinvolge scienziati e ricercatori di varia provenienza disciplinare nel tentativo di comprendere il loro effettivo ruolo: questi neuroni fornirebbero una spiegazione biologica del perché comprendiamo a livello profondo il comportamento altrui, offrendoci una testimonianza fisica del riconoscimento degli altri, delle loro azioni e anche, in una certa misura, delle loro intenzioni.

Questa particolare popolazione di cellule nervose, individuate per la prima volta nella corteccia premotoria delle scimmie (area F5, porzione della neocorteccia che ha il compito di preparare all’azione, cioè di organizzare i movimenti), può fare da tramite tra sé e gli altri. Rispetto ai neuroni canonici della corteccia premotoria, i neuroni specchio si attivano non solo immediatamente prima e durante l’esecuzione del movimento, ma anche quando un individuo osserva o sente un altro individuo che compie un’azione (per es.: afferrare un oggetto o schiacciare una noce).

Numerosi studi, utilizzando metodiche sperimentali come la RMF o la stimolazione magnetica transcranica,3 hanno dimostrato che questo sistema esiste anche nel cervello umano. Quando questi neuroni si attivano, per il nostro cervello è come se stessimo compiendo noi stessi l’azione, per questo funzionano come uno specchio. Partecipare come testimoni visivi (o uditivi) ad azioni, sensazioni ed emozioni di altri individui attiva le stesse aree cerebrali di norma coinvolte nello svolgimento in prima persona delle stesse azioni e nella percezione delle stesse sensazioni ed emozioni: così, “non ci limitiamo a vedere con la parte visiva del nostro cervello, ma utilizzando anche il nostro sistema motorio” (GALLESE, 2007). Il meccanismo mirror sembrerebbe così fornire le capacità basilari “su cui poggiano gran parte delle possibilità – per noi, come per le altre specie – di interagire con successo con l’ambiente che ci circonda” (RIZZOLATTI; SINIGAGLIA, 2019, p. 31).

In anni più recenti sono stati scoperti e decritti neuroni specchio con proprietà simili anche in regioni cerebrali diverse dei primati (lobo parietale posteriore, insula, amigdala, giro del cingolo, ecc.) e di altre specie evolutivamente più lontane (marmotte, uccelli canterini, ratti, ecc.), tuttavia almeno nel caso del nostro cervello di primati le trasformazioni indotte da questa particolare popolazione di neuroni non riguardano solo possibili scopi d’azione ma anche reazioni emotive e affettive.

Una delle scoperte più importanti è che il meccanismo mirror non è un prerogativa delle aree cerebrali coinvolte nella rappresentazione motoria dell’azione, ma contraddistingue anche alcuni centri, come l’insula, l’amigdala e il cingolo, tipicamente coinvolte nella produzione delle risposte motorie e viscerali caratteristiche di specifiche reazioni emotive, come quelle di disgusto, paura o ilarità

(RIZZOLATTI; SINIGAGLIA, 2019, p. XIII).

La presenza di questo tipo di neuroni in una parte consistente del nostro cervello di primati fa sì pertanto che si parli più propriamente di un sistema dei neuroni specchio, espressione di “un meccanismo neuronale fondamentale, dotato di caratteristiche funzionali uniche” (RIZZOLATTI; SINIGAGLIA, 2019, p. XII), che sembra svolgere una funzione essenziale nell’organizzazione e nel funzionamento dell’intero sistema nervoso. La scoperta di un siffatto meccanismo di risonanza motoria o di simulazione motoria interna di un’azione o di un’emozione – automatico e prelinguistico –, che consente all’osservatore una comprensione implicita dello stato mentale ed emotivo dell’altro, lascia ipotizzare che il sistema nervoso, lungi dall’essere un mero controllore di muscoli e un semplice esecutore di comandi codificati altrove, sia in grado di assolvere funzioni cognitive che per lungo tempo sono state considerate appannaggio di processi psicologici e di meccanismi neurali di tipo puramente associativo. Questo meccanismo di “simulazione incarnata” (GALLESE, 2007, p. 5) permette di riconoscere nelle cose che vediamo qualcosa con cui entriamo in risonanza, facendola nostra, comprendendola in modo diretto, dall’interno, ecco perché per certi versi si può considerare “come il correlato funzionale dell’empatia” (GALLESE, 2007, p. 6).

Oggi una serie di evidenze neuroscientifiche fornisce conferme all’ipotesi che la comprensione degli stati emotivi altrui dipenda da un meccanismo specchio – in larga parte indipendente dal meccanismo mirror coinvolto nell’attivazione di risposte motorie indotte dall’osservazione di un’azione – in grado di codificare l’esperienza sensoriale direttamente in termini di risposte emozionali: per es.: osservare un’emozione di disgusto sul volto di una persona attiva le medesime aree della persona che prova il disgusto (in particolare l’insula anteriore) e questo discorso vale anche per altre emozioni primarie come la paura (in cui si attiva in particolare l’amigdala). Detto altrimenti, osservare un’emozione sui volti altrui produce in modo preriflessivo un’attivazione del meccanismo mirror, sicché la condivisione delle risposte viscero-motorie che concorrono a definire le emozioni determinerebbe la coloritura affettiva della percezione delle emozioni altrui (RIZZOLATTI; SINIGAGLIA, 2019, p. 93 e ss.). È per l’appunto la condivisione dello stesso stato corporeo tra osservatore e osservato a consentire questa forma diretta di immedesimazione che gli autori della scoperta definiscono empatica.

Vedere una persona in preda ai conati di vomito induce spesso in chi la osserva reazioni analoghe, tale condivisione viscero-motoria potrebbe essere anche la premessa per la comprensione in prima persona delle reazioni emotive altrui (come sembra emergere anche da studi clinici condotti su pazienti con lesioni cerebrali dell’insula anteriore o dell’amigdala che mostrano difficoltà a comprendere le reazioni immediate di disgusto e di paura osservate sugli altri), costituendo il prerequisito per quel comportamento empatico che sottende gran parte delle nostre relazioni interindividuali (RIZZOLATTI; SINIGAGLIA, 2019, p. 141 e ss.).

La capacità del cervello di risuonare alla percezione dei volti e dei gesti altrui e di codificarli immediatamente in termini viscero-motori fornisce il substrato neurale per una compartecipazione empatica che, sia pure in modi diversi, sostanzia e orienta le nostre condotte e le nostre relazioni interindividuali”

(RIZZOLATTI; SINIGAGLIA, 2006, p. 182).

4 Conclusioni

Certo, condividere a livello viscero-emotivo lo stato emotivo di un altro individuo non vuol dire necessariamente provare un coinvolgimento empatico, provare cioè compassione. Questo può accadere se si tratta di una persona che conosciamo e per la quale non nutriamo sentimenti negativi, viceversa può non accadere se la persona in questione è un nemico o sta facendo qualcosa che noi percepiamo come un potenziale pericolo.

I neuroni specchio rappresenterebbero dunque il substrato fisico di quella modalità di comprendere che dà forma alla nostra esperienza degli altri e quindi all’intersoggettività: la nostra capacità di sentire le emozioni altrui quando le osserviamo sul volto e nel corpo di un altro individuo dipenderebbe, dunque, dalla nostra attitudine a simularle interiormente, a riviverle a fior di pelle. Un spiegazione neurofisiologica della nostra socialità intrinseca, delle affinità elettive caratteristiche dei rapporti interpersonali, della nostra capacità di entrare nel mondo delle esperienze altrui, attribuendo un senso condiviso a queste stesse esperienze, che dimostra come una delle principali modalità con cui entriamo in contatto con gli altri e ne comprendiamo l’agire sia quella empatica e mimetica.

Vittorio Gallese afferma che i neuroni mirror consentono di comprendere aspetti di base dell’intersoggettività e questo può avere importanti ricadute anche sulla comprensione dei meccanismi alla base delle forme più sofisticate di cognizione sociale (GALLESE, 2007). E d’altro canto studi su bambini affetti da sindrome di Asperger (autismo ad alto funzionamento), un disturbo pervasivo dello sviluppo, lo confermerebbero: il loro comportamento di chiusura, di tendenza all’isolamento e di scarsa empatia nei confronti del loro ambiente circostante, la loro difficoltà a comprendere dall’interno le azioni e le intenzioni dell’altro, e i gravi deficit nell’imitare le azioni altrui dipenderebbero da un malfunzionamento del meccanismo dei neuroni specchio, a sua volta riconducibile a un deficit motorio (RIZZOLATTI; GNOLI, 2016, p. 155-168).

2C’è tuttavia chi, come Simon Baron-Cohen (2012), sostiene che le basi biologiche dell’empatia, presente con gradi variabili nei diversi individui, pur includendo il meccanismo dei neuroni specchio, risiedano in un circuito cerebrale più complesso, determinato geneticamente (ci sono cioè geni la cui espressione sarebbe in grado di influenzare la formazione del circuito empatico), e da lui definito circuito dell’empatia. Le aree responsabili della nostra capacità di riconoscere e di comprendere le emozioni altrui (e di elaborare una risposta adeguata), ma anche pensieri e sentimenti molto sofisticati, includono il lobulo parietale inferiore e il solco parietale inferiore (entrambe facenti parte del sistema dei neuroni specchio), il solco posteriore superiore temporale, la giunzione tempo-parietale destra, il solco superiore temporale e l’amigdala, aree che agiscono come un sistema complesso con connessioni multiple. Per Baron-Cohen il circuito empatico sarebbe tuttavia frutto dell’interazione tra natura e ambiente, e perciò rimodellabile anche sulla base della volontà, della ragione e, quindi, dell’educazione.

3Tecnica non invasiva di stimolazione elettromagnetica del tessuto cerebrale mediante la quale è possibile studiare il funzionamento dei circuiti e delle connessioni neuronali all’interno del cervello, provocando uno squilibrio piuttosto ridotto e transitorio.

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Received: July 27, 2020; Accepted: August 03, 2020

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