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Conjectura: Filosofia e Educação

versão impressa ISSN 0103-1457versão On-line ISSN 2178-4612

Conjectura: filos. e Educ. vol.26  Caxias do Sul  2021  Epub 02-Jan-2024

https://doi.org/10.18226/21784612.v26.e021051 

DOSSIÊ: RELIGIÃO E POLÍTICA: PERSPECTIVAS, TRADIÇÕES E DESAFIOS

Due concezioni della sopravvivenza: l’eternità e l’immortalità

Two concepts of survival: eternity and immortality

Ferruccio Andolfi* 

*Ha insegnato Filosofia della Storia nel Dipartimento di Filosofia dell’Università di Parma. Membro del Beirat della Internationale Gesellschaft der Feuerbach-Forscher, e dei Comitati Scientifici di Der Einzige e dei Simmel Studies. Dal 1998 dirige la rivista La società de individui. Presiede l’associazione culturale La ginestra. Dirige una collana di classici dell’individualismo solidale e la collana Pensare la vita per le edizioni Diabasis. Ha svolto ricerche sulla sinistra hegeliana: la critica della religione e l’etica di Feuerbach, l’umanesimo del giovane Marx, l’individualismo di Stirner, pubblicando i volumi L’egoismo e l’abnegazione (Angeli 1983), Marxismo e libertà. Marx Marcuse Arendt (diabasis, 2004), Il non uomo non è un mostro. Saggi su Stirner (Guida 2009), Il cuore e l’animo. Saggi su Feuerbach (2011). Ha curato edizioni di Schleiermacher, Feuerbach, Guyau, Landauer e Simmel, e di recente riproposto una edizione commentata dei Manoscritti del 1844 di Marx (Orthotes, 2018).


Riassunto

Il saggio considera le concezioni della sopravvivenza di tre autori ottocenteschi, Schleiermacher, Feuerbach e Guyau, e si interroga sulla possibilità di pensare forme di immortalità degli individui nel quadro di una religione senza dio.

Parole-chiave Eternità; Immortalità; Dio

Abstract

The essay considers the conceptions of survival of three nineteenth-century authors, Schleiermacher, Feuerbach and Guyau, and questions the possibility of thinking about forms of immortality of individuals within the framework of a religion without god.

Keywords Eternity; Imortality; God

Resumo

O ensaio considera as concepções da sobrevivência de três autores do século XIX, Schleiermacher, Feuerbach e Guyau, e se interroga sobre a possibilidade de pensar formas de imortalidade dos indivíduos no quadro de uma religião sem Deus.

Palavras-chave Eternidade; Imortalidade; Deus

Il deperimento della religione annunciata da più di due secoli dai suoi critici illuministi e più tardi positivisti, e ancor oggi auspicato da ampi settori di cultura laica, sembra contraddetto da importanti manifestazioni di attaccamento a valori e simboli religiosi da parte di un’ampia fascia della popolazione mondiale, e di vasti settori dello stesso mondo Occidentale secolarizzato. Il fatto che le religioni si presentino in molti casi accompagnate da atteggiamenti intolleranti o fanatici non è stato sufficiente a screditarle. Resta l’interrogativo se esse trovino o meno una radice salda nella “natura umana”. La risposta non può essere data però senza tener conto dell’evoluzione subita dalla religione, e in particolare di quel fenomeno che è stato contrassegnato come “eclissi di Dio”.

Un filosofo e teologo madrileno, Manuel Fraijó, ha pubblicato due anni fa sulla rivista Isegoria (47, 2012/2, p. 381-419) un lungo saggio Religion sin Dios? – tradotto in italiano nel fascicolo 50 de La società degli individui (2014/2), dedicato appunto al tema di una possibile “religione senza Dio”. Esso può fornire un’eccellente base di discussione sul significato da attribuire al passaggio, che secondo molti osservatori sarebbe avvenuto, dal primato della figura di Dio a quello della religione come qualità dell’esperienza.1

Una parola, prima di procedere all’analisi di quel saggio e dei commenti che ha suscitato, a proposito dell’espressione “qualità religiosa dell’esperienza”. Essa risale a John Dewey e alla prima conferenza contenuta nel suo A Common Faith (1934). La conferenza delinea un contrasto tra coloro che credono nel soprannaturale e i paladini della scienza, che reputano definitivamente estinta qualsiasi forma di religiosità. I due campi antagonisti condividono a suo parere il medesimo pregiudizio: l’identificazione del religioso col soprannaturale, con poteri superiori che governano il destino dell’uomo. Egli intende piuttosto proseguire il cammino intrapreso dalla teologia liberale, non ancora giunto al suo termine. La dissoluzione di Dio come soggetto estraneo ha aperto la strada appunto all’unica concezione religiosa compatibile con le istanze della scienza: la valorizzazione della qualità religiosa dell’esperienza. Da questo punto di vista si può affermare che non si danno esperienze intrinsecamente religiose, ma nello stesso tempo qualsiasi esperienza può assumere questa qualità.

I sette studiosi che hanno accettato di intervenire a commentare la traduzione italiana del saggio di Manuel Fraijo presentano una varietà di posizioni, che attesta quanto avanti si sia spinto il processo di differenziazione delle prospettive religiose e/o irreligiose.1

Le posizioni espresse sono riconducibili a tre tipi fondamentali: ci sono credenti che ribadiscono una fede più o meno tradizionale in Dio, critici radicali per i quali è auspicabile il superamento definitivo di ogni atteggiamento religioso, e infine “atei devoti” che ritengono importante conservare l’eredità della religione. Ma anche questa partizione è troppo semplice: gli atteggiamenti verso la religione, la sua conservazione o dissoluzione, si potrebbe dire che siano tanto vari quanto le persone che s’interrogano su di essa.

In questa lezione vorrei partire da alcuni testi “classici”. Il primo testo illustra un modo esemplare di critica della religione, quello di Feuerbach, basato sulla identificazione della credenza in Dio e del desiderio di immortalità. Il secondo appartiene a un teologo luterano, fondatore della cosiddetta teologia liberale, Friedrich Schleiermacher, che mostra l’indipendenza dell’intuizione e del sentimento religioso da quei due presupposti, l’esistenza di Dio e l’immortalità, Il terzo, di un giovane filosofo francese di fine Ottocento, Jean-Marie Guyau, riflette sulle due distinte strategie religiose dell’immortalità personale e del rapporto all’eternità nell’istante, ma allude anche alla possibilità di trovare un ponte tra le due istanze.

1. Feuerbach è stato un riferimento centrale per i critici della religione. Qui non ci interessano tanto gli argomenti ch’egli porta contro la religione quanto la ricostruzione che ne dà, anche se ovviamente i suoi argomenti riescono efficaci proprio rispetto alla sua ricostruzione. Si tratta in fondo dell’immagine più tradizionale e diffusa della religione, almeno nel mondo occidentale – un’immagine che però ha trovato anche elaborazioni colte tra i filosofi. In questa immagine la figura di Dio appare collegata a quella della sopravvivenza dell’anima dopo la morte, si potrebbe dire che la fede in Dio si giustifichi come garanzia necessaria del bisogno di sopravvivenza.2

Questo modo di argomentare (solo una delle infinite versioni del nesso Dio/immortalità) fornisce secondo Feuerbach l’evidenza che la religione non è altro che l’espressione ‘egoistica’ di un attaccamento a se stessi che va oltre ogni ragionevolezza. La ragionevolezza comporta invece la moderazione dei desideri entro i confini della “necessità naturale”. Feuerbach è convinto addirittura che nell’individuo subentri, a un certo punto del suo percorso vitale, un’accettazione della morte come fine desiderabile. Non c’è traccia in lui di quella ribellione verso le condizioni finite dell’esistenza che troviamo ad esempio nel Camus de L’homme révolté (1951). Nelle pagine introduttive alla sezione “La rivolta metafisica” Camus scrive: “Protestando contro la condizione in ciò che essa ha d’incompiuto a causa della morte, e di disperso, a causa del male, la rivolta metafisica è la rivendicazione motivata di un’unità felice, contro la sofferenza di vivere e di morire”.3

Un certo tipo di cultura laica prende le mosse di qui. Essa denuncia l’alienazione legata a ogni credenza soprannaturalistica e connette l’agire per il progresso del mondo, per il suo incivilimento, proprio all’abbandono di quelle credenze. Quali conseguenze insostenibili e paradossali deriverebbero, per la comunità ma anche per gli individui impossibilitati a morire, da un’ipotetica “sospensione della morte” lo ha mostrato con grande umorismo José Saramago nel suo As intermitências da morte (2005).

2. C’è un punto debole però nell’argomentazione di Feuerbach e dei suoi seguaci, ed è il presupposto stesso che ogni religione debba essere ricondotta alla credenza in Dio e nell’immortalità. Il secondo brano che vi propongo appartiene a un teologo luterano del primo Ottocento, Friedrich Schleiermacher, ed è tratto dai Discorsi sulla religione (1799), e più precisamente dal secondo discorso, il più famoso, dedicato all’essenza della religione. Qual è il cuore della posizione di questo fondatore della cosiddetta teologia liberale?

La religione è per lui anteriore a ogni costruzione dogmatica, non è altro che il rapporto intuitivo e sentimentale che ciascun uomo istituisce con la totalità dell’universo (i termini Universo e Infinito sono preferiti, nell’uso di questo scrittore romantico, al termine Dio). Ciascuna di queste prospettive e relazioni è intrinsecamente religiosa ed ha legittimità. Una pluralità, se non addirittura un’infinità, di forme di religiosità vengono contemplate, e senza che debbano trovarsi in conflitto, come accade alle religioni identitarie. Se si assume questo punto di vista le credenze tradizionali in un Dio personale che funga da garante della sopravvivenza rischiano di essere meno autenticamente religiose, perché troppo utilitaristiche.

Nel saggio ricordato Manuel Fraijò ha ricostruito la vicenda storica di lungo periodo che ha reso problematica l’ammissione, una volta scontata, dell’esistenza di Dio e spinto a cercare una nuova frontiera apologetica, cioè una frontiera che permette la difesa della religione, nell’espansione del concetto di religiosità. Anche lui indica nella teologia liberale di Schleiermacher un momento cruciale di svolta. È qui che appare, o almeno si precisa, quella diversa strategia di immortalizzazione, che non fa capo all’idea di vita dopo la morte ma piuttosto a quella di risiedere sempre, ad ogni istante, nell’eternità. Così la descrive Fraijò, attento anche alla presa che questa visione delle cose ha avuto sul mondo contemporaneo: “Una religiosità diffusa, quasi invisibile, generosa, profonda, tollerante, senza dogmi vincolanti”. E la trova ben espressa nelle parole di Goethe: se cerchi l’Infinito, insegui il finito in tutte le direzioni.

Questo monito mostra anche l’ambivalenza della raccomandazione che troviamo al termine del secondo discorso sulla religione: “Diventare una cosa sola con l’Infinito in mezzo alla finitezza ed essere eterni in un istante, questa è l’immortalità della religione”.4 L’apertura verso l’eternità nell’istante sottrae infatti gli individui sia a un’attesa priva di speranza in un improbabile futuro di piena realizzazione sia alla piattezza di un’esistenza totalmente iscritta nel tempo e nelle sue leggi. Tuttavia è anche vero che in questa prospettiva non viene propriamente istituita una dimensione che sia separabile da quella dell’esperienza. Qualsivoglia linguaggio sia usato per descrivere l’eternità, fosse anche quello più ardentemente mistico, essa rinvia a un particolare modo di vivere il tempo. In questo senso non si può retrocedere rispetto a Feuerbach opponendo alla sua critica il ripristino di una dimensione religiosa trascendente di qualsiasi tipo.

Il discorso a questo punto può vertere soltanto sul senso da dare all’espressione “qualità dell’ esperienza”. In che senso l’introduzione di una prospettiva religiosa modifica la qualità dell’esperienza? Riusciamo a comprenderlo se cerchiamo di cogliere un nodo problematico, quello dei rapporti tra etica e religione, che sia i sostenitori che i critici della religione hanno sempre affrontato. A cominciare dai due autori esaminati finora. Per definire l’essenza del religioso Schleiermacher introduce proprio questo criterio comparativo: la religione non è riducibile ad etica.

Quest’ultima ha a che fare con l’agire nel mondo per realizzare valori di libertà, perseguendo valori universali (è questa la prospettiva kantiana) oppure mantenendosi fedeli a una propria personale legge di sviluppo etico, come Schleiermacher preferisce pensare. I Monologhi sono lo scritto, appena posteriore ai Discorsi sulla religione, il sottotitolo è “un dono di capodanno” (del 1800), in cui il teologo introduce questa concezione innovativa dell’etica – un’etica fortemente individualizzata e quindi in questo senso concepita sul modello della religione. Ma individualizzata o universalistica (le due cose d’altronde per Schleiermacher non sono in contrasto) l’etica non esaurisce il dominio del religioso. Questo ha a che fare con l’intuizione e il sentimento, suppone cioè un atteggiamento contemplativo e relativamente passivo, di ascolto, che solo permette di essere aperti alle influenze che provengono dall’Infinito, ovvero dalla totalità dell’esperienza. Simmetricamente in Feuerbach troviamo invece la pretesa di riportare l’eredità della religione integralmente dentro i confini dell’etica e della regolazione dei rapporti intersoggettivi.

Nella polemica con Stirner, che nell’Unico gli aveva rimproverato di ridurre la religione ad etica ma insieme l’etica a religione, Feuerbach ammette di non voler mantenere una dimensione religiosa irriducibile all’etica, benché aggiunga di voler fare dell’uomo la misura della morale, e non il contrario. Un uomo che è erede del Dio cristiano, che perdona i peccati e si pone quindi al di là della moralità.5 Se Feuerbach non ama definirsi ateo, lo fa soltanto perché gli pare che l’essenza umana contenga la stessa ricchezza di contenuti che gli uomini religiosi hanno originariamente attribuito a Dio.

Per Fraijò la religiosità di Schleiermacher corre il rischio di scadere in una estetizzazione dell’istante eterno, e persino in una vita mondana consacrata alla cura di sé. Per evitare un esito di questo genere egli conclude il suo lungo saggio con una mossa apologetica di tipo non nuovo, che riconferma la necessità di ricorrere a Dio, se non altro per assicurare la salvezza dei dannati della storia, la cui vita non avrebbe, alcun senso senza quel riscatto,. Ripropone in forma modificata, potremmo dire, l’idea kantiana della religione come coronamento della morale. L’osservazione che mi sentirei di fare al riguardo è che la definitività di certi destini tragici, Fraijò allude ad esempio alle vittime dell’Olocausto, ma si potrebbe parlare anche della conclusione fatale di esistenze private infelici, non può essere cancellata attraverso alcuna immagine consolatoria. Questi esiti irreversibili rappresentano solo un monito per gli ancora viventi ad evitare per il futuro, attraverso la bontà e la vicinanza, che simili tragedie si ripetano.

3. Ora, una meditazione postreligiosa sulla morte, intonata ai nostri tempi, come dovrà svolgersi? Gli individui devono rassegnarsi virilmente, coraggiosamente, al loro destino di morte, e rinunciare in assoluto a perpetuare il proprio sé?

La teoria psicoanalitica, sviluppando una propria originale riflessione sulla morte,6 considera poco risolutivi i tentativi religiosi e filosofici di offrire consolazioni di qualsiasi genere all’angoscia di morte. Né la prosecuzione indefinita dell’esistenza né l’uscita da tempo nell’istante eterno mettono al riparo da quell’angoscia. Essa rappresenta un dato ineliminabile della condizione degli uomini, che diversamente dagli animali, sono esseri pienamente autocoscienti. L’autocoscienza mette gli uomini a confronto con un nulla che contrasta il loro bisogno di essere. Una moderata infelicità è da metter in conto. L’accettazione dello spegnimento del proprio sé, anche quando ne siamo capaci, si accompagnerà dunque sempre a un movimento contrario di ribellione.

L’ultimo autore a cui vorrei richiamarmi, Jean-Marie Guyau, vissuto alla fine dell’800, e morto di tubercolosi assai giovane, a 34 anni, si muove appunto su questo terreno, pur non avendo nulla a che fare con la nascita della psicoanalisi. La sua ultima opera Irreligion de l’avenir apparve nel 1887. Antonio Banfi ne tradusse, negli anni ’20, qualche sezione sotto il titolo “Religione dell’avvenire”, rovesciando il titolo e mostrando così quanto potesse apparire sostanzialmente religiosa una irreligione, che continuava a nutrire, malgrado tutto, speranze.7

La relazione dell’io al tutto in Guyau, più decisamente che in Schleiermacher, è di tipo monistico. Da un certo punto di vista l’io non ha altra scelta che quella di accettare di esser riassorbito in un processo evolutivo globale. Una ribellione che volesse mettere in dubbio la inevitabilità del destino di morte che attende ogni individuo sarebbe insensata e segno di pusillanimità. Tuttavia qualcosa si frappone a che questo processo si compia senza residui e resistenze. L’accettazione del destino di morte deve potersi combinare con la ribellione esistenziale di cui avrebbe parlato Camus. Forse l’ego può accettare per sé, ragiona Guyau, questo annullamento, ma come potrebbe accettarlo per la persona amata? Non so bene se questa distinzione regga, in fondo se voglio perpetuare la vita dell’amato lo faccio per me, ma comunque assistiamo qui a una sorta di ritorno dell’esigenza di immortalità. Dobbiamo, o piuttosto non possiamo che continuare a desiderare che nell’unità del tutto, cioè in un processo di fusione sorretto da una universale simpatia, sussistano le nostre diversità. Il processo moderno di individualizzazione, aggiungo io a commento, ci ha profondamente segnati.

Questo corrisponde d’altronde a quella umanissima e comunissima esperienza che è il culto e il ricordo dei nostri cari. Il ricordo, ragiona Guyau, non è solo una faccenda di rimembranza, è di più, un permanere dell’altro in noi, a volte tanto potente che può rendere persino inutile il ricordare.8

L’idea che viene cautamente avanzata, con rimandi a simboli religiosi (la caritas paolina o l’ideale della fraternità) e a recenti ipotesi scientifiche sulla natura della coscienza e della vita mentale, è quella di una “compenetrazione” di coscienze in cui avverrebbe una “fusione” di quanto in ciascuno c’è di migliore e più disinteressato, senza che nessuna coscienza sparisca a causa di questa penetrazione. È evidente come qui Guyau faccia tesoro della tesi generale dell’evoluzionismo spenceriano di un progresso della individualizzazione e insieme della reciproca simpatia, che produrrebbe una resistenza sempre più grande da parte delle coscienze alla morte dell’individuo.

In un linguaggio più ordinario e comprensibile la stessa idea viene formulata dicendo che “il ricordo, ora rappresentazione assolutamente distinta dall’essere che rappresenta, potrà non distinguersi dall’oggetto rappresentato”. Il ricordo di chi è stato amato si converte, ed è questa un’esperienza abbastanza comune, in “ciò che vi è di lui in me”. Il problema è dunque di essere insieme abbastanza amanti e abbastanza amati da vivere e sopravvivere in altri. “Già ora ci sono individui così amati che ci si può chiedere se andandosene non restino in ciò che hanno di migliore e se la loro coscienza non passi tutta intera in quelli che li circondano”.

1I commentatori di Fraijo sono, oltre allo scrivente, Victoria Camps, Adriano Fabris, Eugenio Lecaldano, Alberto Siclari e i due studiosi di buddhismo Mauricio Yushin Marassi e Aldo Tollini. Per una fortunata coincidenza nello stesso periodo, mentre il fascicolo era in preparazione, è uscito un saggio postumo di Ronald Dworkin, Religion without God, prontamente tradotto in italiano. Così alla sezione scaturita dai commenti al saggio di Fraijó seguono tre interventi, rispettivamente di Paolo Costa, Rino Genovese e Davide Zordan, che discutono la tesi del filosofo statunitense sulla possibilità di un “ateismo devoto”.

2L. Feuerbach, Lezioni XXIX e XXX sull’essenza della religione, trad. it. Sull’immortalità, in appendice al volume di F. Andolfi, Il cuore e l’animo. Saggi su Feuerbach, Guida, Napoli, 2011.

3A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano, 1981, p. 3.

4F. D. E. Schleiermacher, Sulla religione. Discorsi alle persone colte che la disprezzano, in Scritti filosofici, Utet, Torino, 1998, p. 137.

5Su “L’essenza del cristianesimo” a proposito de “l’unico e la sua proprietà”, 1845, trad. it. in Opere, Laterza, Bari, 1965, p. 263.

6Si veda Freud, Considerazioni sulla guerra e sulla morte, 1915 e Marco Nicastro, Riflessioni sulla morte. Una prospettiva esistenziale, “La società degli individui”, n. 69, 2000, p. 157-166.

7La stessa sezione è stata ritradotta da Gaia Piccinini con il titolo Il destino dell’uomo e l’ipotesi dell’immortalità nel n. 34 (2009/1) de La società degli individui (p. 55-98). Nella premessa a questa traduzione lo scrivente sviluppa più ampiamente i temi qui accennati.

8L’irréligion de l’avenir, Alcan, Paris, 1887, p. 436-479; trad. it. di Gaia Piccinini in La società degli individui, n. 34, 2009, p. 74 s.

Received: November 17, 2020; Accepted: January 10, 2021

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