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Revista Teias

versión impresa ISSN 1518-5370versión On-line ISSN 1982-0305

Revista Teias vol.20 no.58 Rio de Janeiro jul./sep 2019  Epub 26-Dic-2019

https://doi.org/10.12957/teias.2018.44379 

Hannah Arendt: pensar sem corrimãos

CIÒ CHE GUIDA LA SCRITTURA NELLA NOTTE: UNA LETTURA DI MEMORIE DI CIECO, DI JACQUES DERRIDA

(*)PhD in Filosofia Moderna e Contemporanea, è ricercatrice confermata in Filosofia e Teoria dei Linguaggi presso il dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Bari, dove insegna Filosofia del Linguaggio e Semiotica del Testo. Fra i suoi ultimi lavori: L’altro corpo del testo. Modello sintattico ed interpretazione in Jacques Derrida, Milano, Mimesis, 2015; The chimerical tale of the feminine. Intersections between the question of sexual difference and the question of readability of the text in Jacques Derrida, “Southern Semiotic review”, 6, 2015; La violenza linguistica e il "corpo a venire, in: AA. VV.. Violenza contro le donne. Uno studio interdisciplinare, Ariccia, Aracne, 2016; Il Riconoscimento e la possibilità del dire in E. Levinas, “Metodo”, vol. 5, 2017; L’aspetto come processo d’informazione Il rapporto fra cosa e oggetto nel pensiero di Peirce (1865-70), “Lexia”, vol. 27-28, 2017; La questione semiologica dell’a-venire nel rapporto di Derrida con la filosofia hegeliana in Studi Filosofici, XLI, 2018. Orcid <https://orcid.org/0000-0002-8735-0577>. E-mail: juliaponzio@hotmail.com.


RESUMO

Nesse ensaio, a professora Julia Ponzio elabora uma reflexão a partir da obra Memórias de Cego, de Jacques Derrida, discutindo temas como o papel do filósofo, a escritura filosófica, o paradigma da visão e questões de identidade e alteridade.

Palavras-chave: Jacques Derrida; cegueira; alteridade

RESUMEN

En este ensayo, la profesora Julia Ponzio elabora una reflexión a partir de las Memorias de la Ciegos de Jacques Derrida, que analiza temas como el papel del filósofo, la escritura filosófica, el paradigma de la visión y los problemas de identidad y otredad

Palabras clave: Jacques Derrida; ceguera; otredad

ABSTRACT

In this essay, Julia Ponzio elaborates a reflection from Jacques Derrida's Memories of the Blind, discussing topics such as the role of the philosopher, the philosophical writing, the paradigm of vision and issues of identity and otherness.

Keywords: Jacques Derrida; blindness; otherness

[…]

Memorie di Cieco presenta, rispetto ai canoni del testo filosofico classico una serie distranezze, di anomalie. L’inserimento di queste stranezze, di queste anomalie nel testo filosofico classico è parte integrante del lavoro filosofico di Derrida ed è parte integrante di quel passaggio dall’epoca del “libro” all’epoca del “testo” che Derrida prefigura sin da La Grammatologia1. sin dei suoi primi testi del 1967. La prima di queste anomalie ce la si trova subito davanti appena si apre il testo. Il testo inizia con tre tre puntini di sospensione racchiusi tra parentesi quadre. Ciò significa che in realtà non inizia o, meglio, è già iniziato prima dell’arrivo del lettore. Il lettore arriva in ritardo: quando arriva si è perso una parte di testo che è già passata. Per altro manca, rispetto al testo filosofico classico, in questo testo, una parte che tipicamente fa parte del saggio filosofico, ossia l’introduzione. L’introduzione funge normalmente da “ingresso”: attraverso di essa l’autore accoglie il lettore nel testo, spiegandogli i suoi presupposti e le sue intzioni. L’introduzione ha la funzione di formire al lettore tutte le informazioni necessarie a svolgere quel percorso lungo il quale il lettore sarà accompagnato dall’autore dalle premesse iniziali nelle prime pagine, all e conclusioni finali nelle ultime. In Memorie di cieco, come in molti altri testi derridiani, questo non succede. Al contrario, aprendo il testo ci troviamo davanti un discorso già iniziato. Una parte del discorso è ormai perduta. Siamo arrivati in ritardo e qualcosa già è successo. Arrivando nel mezzo di un discorso già iniziato, ci rendiamo subito conto che non si tratta di un monologo poiché vi è una pluralità di voci che interagiscono. Il dialogo è una delle modalità classiche attraverso cui, sin da Platone, la filosofia occidentale ha costruito i propri testi. La cosa singolare, rispetto al dialogo filosofico classico, è che, in questo caso, nessuno si preoccupa di spiegarci di chi sono le due voci che dialogano e qual è l’argomento di cui stanno parlando.

Il lettore, aprendo il testo, si trova dunque nella posizione di un intruso, non viene accolto da nessuno, nessuno si ferma a spiegargli cosa succede nel momento in cui arriva e nemmeno a indicargli i nomi di coloro che stanno dialogando, segnando, come normalmente avviene nel testo dialogico scritto, il nome di chi parla subito prima del discorso diretto.

Quello che succede, poco dopo che il lettore arriva all’interno di questo discorso già iniziato è che una delle due voci si propone di ricapitolare il discorso:

Per non dimenticarle strada facendo e affinché le cose siano chiare, ricapitolo: ci sarebbero dunqe due ipotesi (Derrida, 2015, p. 11).

Ricapitolare vuol dire riprendere un discorso già fatto schematizzandolo, rimettendolo in ordine e riprendendone i punti salienti. Ma il discorso originale, quello che viene ricapitolato, noi, i lettori, non lo abbiamo ascoltato, perché siamo arrivati troppo tardi. Il lettore di questo testo, cioè noi che ci apprestiamo a leggerlo, siamo costretti a ricostruire un testo a partire da un riepilogo, cioè a ricostruire un testo a partire da un discorso ricostruito.

Derrida, all’interno di questo testo chiama cecità questa condizione che consiste nel non aver visto l’inizio, la questa condizione dell’essere in ritardo, dell’essere costretti a ricostruire il senso di un testo non a partire dal testo originale ma a partire da una ricostruzione. Quello che Derrida chiama cecità è dunque la condizione che si verifica tutte le volte che al posto dell’origine, ossia del testo originale, ci sono i puntini, proprio come succede qui. In questa condizione di cecità segnalata dei tre puntini, devo “credere” qualcosa senza avere visto, devo credere a chi mi dice che c’è stato un discorso prima del mio arrivo, e che in questo discorso sono state dette le stesse cose che vengono dette ora nel discorso ricapitolato. Devo fidarmi della testimonianza di una delle due voci, che mi racconta e mi riassume qualcosa che non ho visto con i miei occhi.

In questa condizione, dunque, il lettore deve muoversi alla cieca facendo delle ipotesi sulle quali non potrà mai essere sicuro, come lo sarebbe, invece, se ci fosse stato sin dall’inizio, se avesse visto con i suoi occhi quello che qui viene raccontato nel riepilogo.

Il lettore, nel momento in cui comincia a leggere questo testo, si trova dunque nella condizione di dovere fare delle ipotesi non solo su cosa si sta dicendo, ma anche su chi sta parlando. Non vediamo chi parla, né vediamo, come normalmente accade nel testo dialogico scritto, i nomi prima del discorso diretto.

Allora chi parla in questo testo? Di chi sono le voci che si alternano all’interno del testo? “Credo”, ma non posso essere sicura, che una di queste due voci sia dell’autore, di Derrida. Non sono nemmeno sicura di che siano due persone a parlare. Credo che siano due, ma non sono sicura, è una ipotesi.

E di che parlano? Anche qui devo dire “credo”, non sono sicura. Non sono sicura perché mi manca un pezzo, sono arrivata in ritardo, mi sono persa un pezzo del discorso e devo perciò cercare di ricostruire il senso del discorso a partire da una ricostruzione. “Credo”, dunque, che stiano parlando proprio delle differenza fra credere e vedere, ossia proprio di quella condizione di disagio e difficoltà in cui noi lettori siamo trovati, sin da subito, appena abbiamo aperto il libro:

Ma è precisamente sullo scetticismo che l’intrattengo, sulla differenza tra credere e vedere, tra credere di vedere e intravedere -o meno. Prima che il dubbio diventi sistema, la skepsis è cosa degli occhi, la parola designa una percezione visiva, l’osservazione, la vigilanza, l’attenzione dello sguardo nell’esaminare. Si spia, si riflette su ciò che si vede, si riflette ciò che si vede ritardando il momento della conclusione. Mantenendo la cosa in vista, la si guarda. Il giudizio è sospeso all’ipotesi (Ibidem).

Le voci che dialogano stanno parlando (forse) della condizione in cui, non avendo visto l’inizio, non avendo l’origine, il principio, si deve credere qualcosa credendo a qualcuno. Di quella condizione in cui non si “vede” ma, piuttosto, si “intravede” spiando. Il lettore è dunque costretto a fare delle ipotesi, ad andare a tentoni, senza certezze o sicurezze, esattamente come quando si procede nell’oscurità, come quando si brancola nel buio.

I tre puntini fra parentesi quadre posti all’inizio, che costituiscono la prima grande anomalia di Memorie di cieco, creano dunque un effetto importante, che consiste nel fatto che Derrida, in questo testo, non solo racconta al lettore in cosa consiste la condizione di accecamento, ma lo mette in questa condizione di accecamento, gli fa provare questa condizione, gli fa vivere, attraversare questa condizione lungo tutto il testo, costringendolo a procedere alla cieca sulle tracce di voci di persone che non vede e che, dunque, non può riconoscere con assoluta certezza, lungo un percorso teorico sconnesso e oscuro, in cui nessuno prende per mano il lettore per accompagnarlo dall’inizio alla fine del testo, e per spiegargli momento por momento cosa succede.

La lettura di Memorie di Cieco è affascinante perché è una esperienza della cecità, intesa come impossibilità di vedere l’inizio, come la condizione di arrivare in ritardo, a discorso iniziato. Per questo motivo, quando iniziano ad apparire le prime delle tante rappresentazioni grafiche della cecità che Derrida mostra in questo testo, il lettore vi si riconosce. Si riconosce nell’atto di andare avanti anticipando il passo con le mani, facendo ipotesi, procedendo lentamente per non cadere o per andare a sbattere.

Poco dopo l’arrivo in ritardo del lettore, dunque una delle due voci, che “credo” sia quella di Derrida, ricapitola e ricapitola facendo due ipotesi. A questo punto siamo alla seconda pagina del testo, e voltando pagina dopo la prima, quasi ci dimentichiamo di quei tre puntini e del disagio che ci avevano creato. Per un po’, in questa seconda pagina, solo per un po’, solo per qualche riga, abbiamo l’impressione di una situazione familiare, l’impressione di trovarci in un “normale” saggio filosofico. In un “normale" saggio filosofico, il filosofo espone delle ipotesi e si accinge a spiegarle, proprio come fa qui una delle due voci. Queste ipotesi, per altro, mi permettono anche di fare a mia volta delle ipotesi su quale sia l’argomento centrale del testo. “Credo” a questo punto di capire che le questione di cui si sta parlando è quella del rapporto tra cecità e rappresentazione grafica.

Le due ipotesi che ci vengono presentate sono oscure, difficili da interpretare. Ma questo, in qualche modo, in un saggio filosofico me lo aspetto, fa parte delle regole di questo tipo di testo: il filosofo mi dice delle cose complesse e poi cerca di spiegarmele: La prima ipotesi che la voce enuncia è: “il disegno, se non il disegnatore o la disegnatrice, è cieco” e poi, seconda ipotesi: “un disegno di cieco è un disegno di cieco” (Ivi, p. 12). Il disegnatore, quindi, è in una condizione di cecità disegna un cieco, disegna in realtà se stesso in quanto cieco, sta sempre facendosi un autoritratto, rappresentando la propria condizione di cecità. In questa seconda pagina, dunque, ci sembra che non vi siano più anomalie e trasgressioni. In questa parte sta succedendo, infatti, quello che normalmente succede all’interno del saggio filosofico: il filosofo, con la sua voce autorevole, sta ricapitolando il suo stesso discorso e attraverso questo discorso ci illumina la strada. Ci fa vedere come stanno le cose, ci mostra quell’“essere” delle cose, che noi stessi non riuscivamo a vedere prima di leggere le sue parole.

Questa posizione autorevole dell’autore, del filosofo, in questo caso, è giustificata dal fatto che, rispetto a noi lettori, ha una posizione di vantaggio, è sempre in una posizione migliore. La voce che ricapitola era presente sin dall’inizio, a differenza del lettore, che ha solo, del discorso una visione parziale. Apparentemente nella prospettiva dell’autore, non ci sono i tre puntini. Apparentemente, dunque, l’autore non è cieco, quindi. Era lì sin dall’inizio. Era lì mentre si svolgeva quel discorso, che il lettore non ha potuto sentire. E su che cosa si basa il suo discorso? Egli ci racconta come stanno le cose perché le ha viste coi i suoi occhi, che sono, in qualche modo più potenti e più acuti rispetto agli occhi di qualsiasi altro. Nel discorso racconta dunque ciò che ha visto.

In questa situazione in cui tutto sembra essersi normalizzato, succede però all’improvviso qualcosa, e succede già alla terza pagina del testo. Ciò che succede è la seconda grande anomalia che Derrida introduce in questo testo, la seconda grande trasgressione delle regole del testo filosofico.

Il filosofo, ad un certo punto, esce del proprio ruolo, smette all’improvviso di dirci come stanno le cose, come “sono” le cose, smette di parlarci dell’essere delle cose, e si mette a raccontare, o meglio, a raccontarsi. E di questa trasgressione una delle due voci è tanto consapevole che, subito prima di chiede perdono:

Per questa stessa ragione, lei mi perdonerà se inizierò da ciò che mi è più vicino. Per accidente, e a volte sull’orlo dell’accidente, mi accade di scrivere senza vedere. Non con gli occhi chiusi certo. Ma aperti e disorientati nella notte; o di giorno, al contrario, con gli occhi fissi su qualcos’altro guardando altrove, davanti a me, ad esempio, quando sono al volante: scarabocchio qualche tratto nervoso con la mano destra su di un foglio appeso al cruscotto o che tengo vicino a me sul sedile. A volte, sempre senza vedere, addirittura sul volante stesso. Sono notazioni promemoria, graffiti illeggibili, successivamente si direbbe una scrittura cifrata (Ivi, p. 13).

Questo è il primo di moltissimi momenti in cui il filosofo esce del proprio ruolo e si racconta. Cosa racconta? Di una curiosa e pericolosa abitudine mentre guida l’auto. Poi ci racconterà tanti altre cose. Per esempio, di un sogno strano fatto la notte di 16 luglio, un sogno che racconta, dice malgrado “testa mia e non riguarda nessuno”:

Ora, la notte del 16 luglio dell’anno scorso, senza accendere la luce, appena sveglio, ancora passivo ma attento a non far svanire un sogno interrotto, avevo cercato la matita e il quaderno con mano brancolante, accanto al letto. Al risveglio decifrai, tra altre cose, questo: “… duello dei ciechi alle prese l’uno con l’altro, uno dei vegliardi si volta per prendersela con me, per prendersela con il povero passante che sono, no mi dà tregua, mi ricatta, poi cado a terra con lui, mi riafferma con agilità tale da indurmi a sospettare che veda almeno da un occhio socchiuso e fisso, come un ciclope (un essere guercio o losco, non lo so più), mi trattiene sempre esibendo una presa dopo l’altra e finisce con l’usare quell’arma davante alla quale sono senza difesa, una minaccia contro i miei figli…” (Ivi, p. 30).

Poi ci racconta di una malattia, un problema fisico, consistente nella paralisi di un nervo facciale che gli impedisce di chiudere un occhio e della successiva guarigione:

Da tredici giorni soffro di una paralisi facciale d’origine virale detta a prigore (sfigurato, il nervo facciale infiammato, la parte destra del viso colpita da rigidità, l’occhio sinistro fisso e terribile a vedersi allo specchio, la palpebra che non si chiude più e dunque privazione della possibilità di “strizzare l’occhio”, di quell’istante di accecamento che assicura alla vista la sua respirazione). Il 5 luglio la guarigione di questa banale affezione è iniziata (Ivi, p. 47).

Più avanti racconta, ancora, dell’occasione che determina la nascita di Memorie di cieco:

L’11 luglio, dunque, sono guarito (sentimento di conversione o di resurrezione, la palpebra torna a battere, il viso resta ossessionato da un fantasma di sfigurazione) è il giorno del primo appuntamento al Louvre, La sera stessa, mentre rientro in automobile il tema della mostra mi si impone. Come un colpo fulmineo. Scarabocchio al voltante i miei appunti: L’ouvre où ne pas voir, che al mio ritorno diventa un’icona, vale a dire una finestra da “aprire” sullo schermo del mio computer (Ivi, p. 48).

E Poi racconta del rapporto con il suo fratello:

Io soffrivo nel vedere i disegni di mio fratello esposti in permanenza, religiosamente incorniciati sulle pareti di tutte le camere. Tentavo di imitare le sue copie: una penosa goffaggine mi confermava nella doppia certezza di esser stato certo punito, privato, leso, ma anche, per ciò stesso, segretamente eletto (Ivi, p. 54).

Poi, ancora, il suo rapporto con la madre poco prima della sua morte:

In tutta la mia vira non ho mai più disegnato, e nemmeno tentato di disegnare. Salvo, lo scorso inverno, e ancora conservo l’archivio di questo disastro, quando mi venne il desiderio, e la tentazione, di abbozzare il profilo di mia madre che vegliavo accanto al suo letto all’ospedale. Costretta a letto da un anno, sopravvissuta, fra la vita e la morte, pressoché morata nel silenzio di questa letargia, non è più in grado di riconoscermi e i suoi occhi sono velati a causa della cataratta. Quanto veda e quali ombre passino davanti a lei, e dunque se si veda morire, tutto questo è soltanto oggetto di ipotesi (Ivi, p. 56).

Tutta la prima parte del testo è un susseguirsi di questi racconti personali, insieme alle immagini, le quali si trovano dentro il testo (e anche questo costituisce una anomalia rispetto al saggio filosofico classico in cui, spesso si trovano in appendice per non interrompere la continuità del discorso) a scene di romanzo, a personaggi della mitologia, Edipo, per esempio, Tiresia, il Sansone di Milton, parti della Bibbia e dei Vangeli, come il cieco di Gerico. Tutto questo è tenuto insieme da connessioni difficili e costituisce un percorso in cui il lettori procede alla cieca.

Nel testo filosofico classico il filosofo non fa mai quello che Derrida sta facendo qui, introducendo la seconda anomalia che caratterizza Memorie di cieco. Nel testo filosofico classico il filosofo non ci racconta mai di sé, non ci dice mai niente di se stesso, rapporti con gli altri e col suo corpo. Non ci racconta mai nulla dei testi che ha letto e su cui costruisce il suo proprio discorso. Nel testo filosofico classico il filosofo formula le ipotesi e procede in avanti per chiarirle e spiegarle. In Memorie di cieco, invece, Derrida, si muove al contrario: subito dopo avere formulato le sue dueipotesi si chiede cosa ci sia dietro di esse, quale sia il sostrato di queste ipotesi e cosa ci sia dietro il fatto che tra i mille argomenti di cui si potrebbe parlare quello che lo ha attratto, scegliendo il tema della mostra, sia proprio quello della cecità.

Tutte le esperienze, le relazioni, i rapporti e i testi che Derrida ci racconta in questa prima parte costituiscono questo sostrato, mettono in evidenza, cioè, quello sta sotto il testo filosofico.

Scrive Derrida:

Per quanto rare o teatrali che siano - io le chiamavo “accidentali” -, queste esperienze tuttavia s’impongono come una messa in scena esemplare. Lo straordinario ci richiama all’ordinario di quel che accade tutti i giorni, all’esperienza del giorno stesso, a ciò che sempre guida la scrittura attraverso la notte, più lontano del visibile o del prevedibile (Ivi, p. 14).

Dunque cos’è che guida la scrittura attraverso la notte? Cosa c’è dietro, prima del discorso filosofico, dietro le sue risposte, dietro le sue domande? La sua risposta è che dietro c’è il corpo del filosofo, ciò che normalmente il filosofo nasconde.

Anche quando il filosofo classico parla in prima persona, come fa per esempio Cartesio quando dice “penso dunque sono”, non ci dice mai dove sta questo io, non ci dice mai come sta, quanti anni ha, cosa ama e odia, ossia, per dirla in breve, ci dice che questo io “è”, ma non ci dice come è. Nei tanti racconti che in questo testo Derrida fa di sé stesso, non ci dice mai chi è. I suoiracconti non sono mai una posizione di identità. Delle sue tante identità, come ad esempio “sono un uomo”, “sono algerino”, “sono francese”, “sono filosofo”, non ne enuncia neanche una. E tanto non ci dice chi è che ci rimane fino alla fine il dubbio che sia proprio la sua una delle due voci che parlano nel testo. Dunque non ci dice mai chi è, ma ci racconta piuttosto come è, ci dice come è fatto, come è nelle relazioni con il suo corpo, con gli altri, nelle relazioni con la scrittura propria e con tutte le scritture e tutti i testi che lascia emergere nel suo racconto. Tutti questi testi che Derrida lascia emergere, i suoi racconti di sé, i racconti dei testi che ha letto o delle immagini che ci mostra sono ciò che nel discorso filosofico non appare mai. Nel testo filosofico classico non appaiano mai i testi e le relazioni a partire dalle quali il discorso del filosofo è costruito.

Avevamo detto che all’inizio l’autore ci pareva in vantaggio rispetto al lettore, poiché i tre puntini segnalavano la cecità del lettore, l’essere arrivato in ritardo, mentre l’autore sembrava lì sin dall’inizio essendo “l’origine”, la fonte, del suo stesso discorso. Ma quando Derrida introduce la seconda anomalia nel testo e si mette a raccontare cii mostra che discorso filosofico inizia prima che il filosofo cominci a parlare: esso costruito a partire da testi e questi testi sono costruiti a partire daaltri testi e così via all’infinito. Per segnalare questo processo infinito siamo costretti, anche qui, a mettere i tre puntini. Quindi l’autore non è più in vantaggio rispetto al lettore, anche lui non è lì fin dall’inizio. Anche lui parte da discorsi già ricostruiti, anche lui è dunque in quella condizione che Derrida chiama cecità. Prima del discorso del filosofo ci sono altri testi, e questo rende il filosofo, l’autore, esattamente cieco come il lettore.

Per moltissima parte del pensiero occidentale, la figura del filosofo è la figura di colui che è capace di mettere da parte le opinioni, i pregiudizi, in modo da avere con le cose un rapporto diretto, in modo da vederle per come sono e non come appaiono. Il filosofo deve fare tabula rasa, come dice Cartesio, operare una epoché, come dice Husserl, ossia partire dal proprio rapporto diretto con le cose, facendo in modo da non farsi condizionare da opinioni e pregiudizi. Derrida, invece, ci sta mostrando che questa figura del filosofo che tutto il pensiero occidentale ha portato avanti è una finzione poiché il lavoro filosofico non parte mai dal rapporto diretto con le cose ma guarda sempre le cose attraverso i testi e le relazioni. Lo sguardo del filosofo non è mai diretto, è sempre indiretto, mediato da testi e relazioni. Mediato, ad esempio, dal linguaggio che è sempre “dell’altro”, poiché mi viene dal rapporto con l’altro. E poi ci sono i testi che non ha scritto lui, ma che fanno parte del suo modo di vedere le cose. E poi c’è il suo corpo, il rapporto con l’altro quell’altro “me” che non controllo, che è come è. In questo senso, il discorso del filosofo non è un discorso per voce sola, non è mai un monologo, ma si appoggia su ciò che il filosofo non è, sul rapporto con gli altri, con l’alterità.

A questa visione indiretta del reale e alla sua relazione con la scrittura si riferiscono due delle immagini centrali di memoria di cieco, che sono quello che raffigurano il mito della nascita della pittura. Il mito racconta di Butade, figlia di un vasaio, la quale era innamorata di un giovane che doveva però partire. Sentendo già la sua nostalgia prima ancora che partisse, Butede fa quello che si vede nelle immagini, e lo fa per la prima volta, inventando la pittura: traccia su una parete i contorni dell’ombra dell’amato riflessa su una parete:

Che Butade con la mano a volte guidata da Cupido (un Amore che vede e che qui non ha gli occhi bendati) segua allora i tratti di un’ombra o di un profilo, che di segni sulla parete di un moro o su di un velo, - una skiagrafia, in ogni caso - questa scrittura dell’onbra inaugura un’arte dell’accecamento (ivi, p. 69).

La pittura, dice Derrida, inizia come scrittura dell’ombra. Cosa fa Butade quando traccia i confini dell’ombra? Non guarda più l’amato, gli volge le spalle o distoglie gli occhi da lui per concentrarsi sulla sua ombra, ossia di un immagine da cui, tracciandone i contorni, crea un’altra immagine. Che la pittura sia scrittura dell’ombra, dunque vuol dire che essa costruisce testi a partire da testi, guardando ciò che raffigura solo indirettamente. Dietro il gesto di tracciare i contorni ci sono molte cose, perché non è un’ombra qualsiasi. È l’ombra della persona che lei ama ed è questo che guida la sua mano nell’oscurità. Dietro il gesto di Butade c’è la sua relazione con l’amato, c’è la paura dell’abbandono, la nostalgia, l’assenza.

Nell’immagine di Butade vediamo necessariamente riflessa sia la condizione del lettore di questo testo, sia la condizione dell’autore, del filosofo che scrive non a partire da sé ma da quel sostrato di relazioni e testi che guida la scrittura nella notte. Il lettore, cioè noi da quando abbiamo aperto questo testo, il filosofo che ci sta parlando, che (forse) è Derrida, e Butade nel mito dell’origine della pittura si trovano tutti nella stessa medesima condizione, cioè scrivono e riscrivono a partire da una assenza, da quell’assenza segnalata dai puntini che è il punto da cui scaturisce la scrittura. Non c’è scrittura senza assenza, non c’è scrittura senza i puntini che ne sospendono l’origine.

Qualsiasi forma di scrittura, che si tratti della scrittura verbale che usa il filosofo o di quella non-verbale, che usa Butade, serve per trasciare i confini dell’ombra. Identificando il filosofo con Butade, e la filosofia con una scrittura dell’ombra, Derrida vi sta contrapponendo ad uno dei miti più importanti attraverso cui la filosofia occidentale ha rappresentato sé stessa, che è il mito platonico della caverna. In esso, il filosofo è colui che si libera delle catene e si sforza di accedere direttamente alle cose per poterle raccontare agli altri, che rimangono intrappolati nella caverna. In questo mito c’è lo schema che struttura gran parte della filosofia occidentale: il filosofo si sforza, una volta uscito dalla caverna, di riabituare i suoi occhi alla luce per guardare il sole, per poterlo poi rappresentare e il seguito comunicare a coloro che sono rimasti nella caverna. In questo schema il linguaggio arriva solo alla fine del processo della conoscenza (prima in forma orale o poi in forma scritta) e la sua funzione è puramente comunicativa.

Derrida in questo testo e in tutto il suo lavoro filosofico non fa altro che capovolgere questo schema mostrando che accediamo al reale sempre indirettamente, attraverso i testi che ce lo raccontano. Qualcuno comincia a raccontarci il mondo ancora prima che lo veda con i miei occhi, e lo fa insegnandomi un linguaggio, insegnandomi a vedere il mondo attraverso questo linguaggio, leggendomi o facendomi leggere testi che qualcun altro già ha scritto. È così che tutti noi in realtà entriamo in contatto con il mondo. C’è prima la voce di qualcuno che ce lo racconta insegnandoci il linguaggio. E non è vero che nel primo atto del processo conoscitivo, nel primo momento che me avvicino al mondo ci sono io e la cosa e basta. In questo primo atto c’è sempre qualcuno che mi insegna un linguaggio che neanche lui ha inventato, che mi racconta il mondo, che mi legge delle favole, delle storie che non ha scritto lui, facendomi vedere il mondo attraverso testi che ricostruiscono altri testi che ricostruiscono altri testi, e così via all’infinito, in modo tale che, ancora una volta, il nostro rapporto con il mondo resta sospeso su tre puntini.

La scrittura, sta dicendo Derrida in questo testo, non nasce del rapporto diretto con la cosa, dell’averla davanti, presente, in carne ed ossa, così da poterla vedere come il filosofo di Platone vuole vedere la luce del sole. La scrittura, che si tratti di scrittura filosofica o artistica, nasce dalla assenza, da ciò che non c’è più e da ciò che non c’è ancora.

Ed è questo che permette che chi ha che fare con la scrittura, sia esso il filosofo, il lettore o l’artista, non è solo neanche quando sembra solo.

Ecco perché i testi pittorici che Derrida ci mostra nel testo sono tutte o rappresentazione della cecità o rappresentazioni in cui il pittore si ritrae mentre si sta ritraendo, nell’atto di farsi un autoritratto. In queste immagini il pittore sta si ritraendo, e lo fa guardandosi indirettamente in un specchio. Non ha altro modo di vedere il suo proprio volto. Si ritrae quindi non a partire di un rapporto diretto con suo proprio volto, ma già a partire di un’immagine nello specchio. Nel momento in cui si mette a dipingere quest’immagine, non c’è più il pittore, non lo sta più guardando, lo ha guardato un attimo fa. Di quella immagine nello specchio ha già selezionato qualcosa e aggiunto qualcosa altro, la ha riprodotta nella sua memoria. Quando impara a fare il ritratto, il pittore impara a memorizzare le tracce, a riprodurre, di allenare a propria memoria. La immagine non deve svanire subito quando non la sta guardando più. Quando un pittore impara a fare un ritratto, impara a ricordare alcune cose e a dimenticarne altri. Egli quindi non è già più solo con se stesso, perché nel momento in cui sta disegnando utilizza un linguaggio pittorico che ha imparato da qualcun altro, sta nei canoni di un certo tipo di testo pittorico che è l’autoritratto, che non ha inventato lui. Mentre si ritrae, ha sicuramente nella sua mente tutti gli autoritratti della storia dell’arte che lo ha preceduto. Ecco che allora fra lui e lo specchio che lo rappresenta non vi è più una visione diretta, ma una visione indiretta, mediata da testi, mediata dai racconti degli altri, del modo in cui gli altri hanno già visto le cose. Lui si vede nell’specchio come gli altri lo vedono.

Il pittore, in questo caso, e in generale tutti coloro che hanno a che fare con la scrittura, non sono mai in rapporto diretto con la cosa, ma sono intrappolati fra due assenze: l’assenza di ciò che non c’è più perché il pittore si ha già voltato gli occhi verso la tela, e l’assenza di ciò che non c’è ancora, perché sulla tela che è ancora bianca il pittore già vede il che disegnerà. Quindi, nella esperienza del pittore, e in tutte le esperienze di scrittura, la dimensione temporale implicata non è mai il presente. E’ implicata, piuttosto, l’assenza di ciò che non c’è più, poiché siamo in ritardo, e l’assenza di ciò che non c’è ancora, poiché siamo in anticipo. Senza queste due assenze, secondo Derrida, senza questo sguardo indiretto, non c’è né pittura, né filosofia né letteratura. Ma c’è solo quella fatale coincidenza con se stessi che condanna Narciso a morte.

L’immagine di Narciso è una immagine centrale nel testo, essa, posta in mezzo al testo è l’unica immagine che occupa una doppia pagina (ivi pp. 88-89). Il mito di Narciso, in Memorie dicieco, rappresenta questa mortifera coincidenza con se stessi. Narciso muore gettandosi verso lapropria immagine riflessa nell’acqua, nel tentativo di coincidere con la sua stessa immagine. Ma prima di buttarsi nell’acqua, dice a sé stesso: “ti amo”. Narciso rappresenta per esempio il filosofo che vuol coincidere con sua stessa verità, che dice io ho visto direttamente la verità e per questo uso il linguaggio per comunicarla, e dopo questo atto comunicativo non c’è più altro da dire, poiché la verità può essere solo ripetuta all’infinito. Ma, come ci mostra Memorie di cieco, soprattutto grazie a quella che abbiamo chiamato la seconda anomalia di questo testo, la solitudine del filosofo è sempre una finzione. Come è una finzione la solitudine di Narciso, che nell’atto della sua morte non è solo come pensa di essere. L’altro c’è sempre prima e dopo il discorso, nel suo non essere più e nel suo non essere ancora. Nell’immagine che Derrida mostra in Memorie di cieco, l’altro si vede in controluce: Eco, l’altra che non vista intravede quello che sta per succedere. E quando, subito dopo la morte di Narciso, ne ripete le ultime parole, “ti amo”, esse cambiano di senso, dicono tutt’altro e si mettono a raccontare tutta un’altra storia. Il mito di Narciso rappresenta dunque l’infinita interpretabilità del testo, il suo venire dall’incontro con l’altro e il suo andare verso l’altro. Per

quanto il filosofo che afferma di dire la verità perché la ha vista coi suoi occhi cerchi di ricondurre a se stesso l’inizio e la fine del testo, di chiudere il testo sull’autore, l’inizio e la fine del testo rimangono sospese su tre puntini, così come succede a Memorie di cieco, che non finisce, come non era iniziata, che manca delle conclusioni così come mancava delle introduzione, lasciando al testo la infinita possibilità di divenire altro e aprendolo sul suo a-venire.

[…]2

1Cfr. Derrida, Della Grammatologia, Jaca Book, Milano, 1969, pp. 23 e segg.

2Anche questo testo è iniziato prima che il lettore arrivasse, nelle tracce di desideri tra brasiliani e italiani, in torno alla opera di Derrida, in incontri che il lettore non aveva participato e specialmente nella lezione che la professoressa Julia Ponzio ha fatto nella Universidade Federal Fluminense, em abril de 2019. Nella lettura di questo testo forse il lettore ha proceduto alla cieca, una volta che non ha letto (forse) il libro di riferenza, non conosce le immagine che qui sono riferite, in breve anche questo è un percorso nella condizione di cecità. Ma anche il testo non finisce qui, poi che più di una ora dopo la fine della lezione di Julia Ponzio ancora ci parliamo, noi del Gruppo Atti, con domande e risposte, e altri discorsi. All’infinito, la lettura di Julia Ponzio ci porta desideri di studi e altri letture, che si susseguono sicuramente. Anche qui i tre puntini ci aprono all’infinito.

REFERENCES

DERRIDA, Jacques. Memórias de cego: o autorretrato e outras ruínas. Trad. Fernanda Bernardo. Lisboa, Portugal : Fundação Calouste Gulbenkian, 2010. [ Links ]

Received: April 30, 2019; Accepted: August 05, 2019

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