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Educação e Filosofia

versão impressa ISSN 0102-6801versão On-line ISSN 1982-596X

Educação e Filosofia vol.31 no.62 Uberlândia maio/ago 2017  Epub 09-Mar-2021

https://doi.org/10.14393/revedfil.issn.0102-6801.v31n62a2017-p865a908 

Artigos

L’Eutidemo di Platone: un invito alla filosofia e alla virtù. Un dialogo protrettico sulla protrettica

O Eutidemo de Platão: um convite à filosofia e à virtude. Um diálogo protréptico sobre a protréptica

Plato’s Euthydemus: an invitation to philosophy and virtue. A protreptic dialogue on protrepsis

Lucia Palpacelli* 

*Dottoressa in ricerca in Storia della Filosofia, ciclo XX, presso l’Università degli studi di Macerata. Professoressa della Università degli studi di Macerata. E-mail: luciapalpacelli@ virgilio.it


Riassunto

Questo articolo propone una lettura in senso protrettico dell’Eutidemo, offrendo così una possibile chiave ermeneutica per comprendere uno dei dialoghi più disorientanti di Platone. La scena è dominata, infatti, da due eristi, Eutidemo e Dionisodoro, che non fanno che costruire sofismi, per essere dichiarati, alla fine, vincitori nella discussione con Socrate e Clinia. Apparentemente si è di fronte a un grande gioco di parole che ritornano su se stesse, ma in realtà, in questo dialogo, costruito come una commedia, Platone affronta un tema molto serio: l’educazione dei giovani. Il filosofo, nell’alternarsi delle scene che vedono protagonisti prima gli eristi e poi Socrate, svolge un particolarissimo invito alla filosofia e alla virtù, cioè un protrettico, in un dialogo che è pensato, per i lettori, come strutturalmente protrettico. L’Eutidemo, in ultima analisi, può essere letto a due livelli: a un primo livello, sulla scena, Platone svolge un invito a coltivare la filosofia e la virtù e a un secondo livello, il lettore stesso, se segue Platone nel suo disegno e nei suoi giochi, si trova di fronte a un delizioso protrettico che lo spinge a fare filosofia e lo inizia alla filosofia platonica.

Parole chiave: Protrettica; Educazione; Virtù; Eristica; Filosofia

Resumo

Esse artigo propõe uma leitura em um sentido protréptico do Eutidemo, oferendo assim uma possível chave hermenêutica para compreender um dos diálogos mais desorientadores de Platão. A cena é dominada, de fato, por dois eristas, Eutidemo e Dionisodoro, que não fazem mais que construir sofismas, para serem declarados, ao final, vencedores na discussão com Sócrates e Clinia. Aparentemente se está em face de um grande jogo de palavras que retornam sobre si próprias, mas em realidade, nesse diálogo, construído como uma comédia, Platão enfrenta um tema muito sério: a educação dos jovens. O filósofo, na alternância das cenas que veem como protagonistas primeiro os eristas e depois Sócrates, desenvolve um particularíssimo convite para a filosofia e para a virtude, isto é, um protréptico, em um diálogo que é pensado, para os leitores, como estruturalmente protréptico. O Eutidemo, em última análise, pode ser lido em dois níveis: em um primeiro nível sobre a cena, Platão desenvolve um convite para cultivar a filosofia e a virtude, e em um segundo nível, o próprio leitor ao acompanhar Platão no seu desenho e nos seus jogos, se encontra em face de um delicioso protréptico que o impulsiona a fazer filosofia e o inicia na filosofia platônica.

Palavras-chave: Protréptica; Educação; Virtude; Erística; Filosofia

Abstract

This article suggests a protreptical reading of the Euthydemus, offering a possible hermeneutic key to understand one of Plato’s most bewildering dialogues. The scene is indeed dominated by two erists, Euthydemus and Dionosodorus, who do nothing but build sophisms, in order to be declared, at the end, winners in the discussion with Socrates and Clinia. We are apparently dealing with a big play on words that go back to themselves, but in this dialogue, built like a comedy, Plato actually debates a very serious theme: the education of young people. Through the scenes, seeing as protagonists the erists first and Socrates after, the philosopher develops a particular invitation to philosophy and virtue, that is to say a protrectic, in a dialogue that is conceived for the readers as a structurally protrectical one. Euthydemus can ultimately be read at two levels: at a first level, on the scene, Plato invites to cultivate philosophy and virtue; at a second level, the reader, following Plato throughout his scheme and his “games”, is faced with a very nice protrectic that pushes him to philosophize and initiates him to Plato’s philosophy.

Keywords: Protrectic; Education; Virtue; Eristic; Philosophy

L’Eutidemo è uno dei dialoghi più disorientanti di Platone: la scena è dominata, infatti, da due eristi, Eutidemo e Dionisodoro, giocolieri di parole, che non fanno che costruire sofismi, per essere dichiarati, alla fine, vincitori.

La prima impressione che si ha, leggendo questo dialogo, è dunque quella di trovarsi di fronte a un grande gioco di parole che ritornano su se stesse, lasciandoci apparentemente, con un nulla di fatto1.

In realtà, in questo dialogo Platone affronta un tema molto serio e a lui molto caro, quello dell’educazione dei giovani e svolge, scena dopo scena, un particolarissimo invito alla filosofia e alla virtù, cioè un protrettico, in un dialogo che è pensato, per i lettori, come strutturalmente protrettico.

Potremmo quindi dire che, ad un primo livello, sulla scena, si svolge un invito a coltivare la filosofia e la virtù e ad un secondo livello, il lettore stesso, se segue Platone nel suo disegno e nei suoi “giochi”2, si trova di fronte a un delizioso protrettico che lo spinge a fare filosofia e lo inizia alla filosofia platonica.

I - La particolare struttura dell’opera

Per orientarci nell’analisi di alcuni passi del dialogo legati al tema di nostro interesse, credo sia necessario soffermarci brevemente sulla sua particolarissima struttura. Come avremo modo di vedere, infatti, questa scelta “architettonica” veicola significati importanti, connessi al problema educativo.

Questo dialogo è pensato come una commedia arcaica ed è quindi diviso in cinque scene, intervallate da interludi, comprese tra un prologo e un epilogo, nei quali Socrate, il giorno dopo aver incontrato i due eristi, parla con Critone di questo incontro e glielo racconta, dando così il via all’effetivo dialogo.

prologo del dialogo cornice: Socrate - Critone (271 A - 272 D);

Commedia

prologo della commedia (racconto socratico): incontro con gli eristi (272 D - 275 C);

I scena: dialogo tra gli eristi e Clinia (275 D - 278 E);

II scena: dialogo tra Socrate e Clinia (278 E - 282 E);

III scena: dialogo di Eutidemo e Dionisodoro con Socrate e Ctesippo (283 A - 288 D);

IV scena: ripresa del dialogo tra Socrate e Clinia (288 D - 290 D);intermezzo: Socrate - Critone (290 E - 293 A);

V scena: dialogo tra Socrate, Ctesippo, Eutidemo e Dionisodoro (293 A - 303 B); epilogo della commedia (303 B - 304 B); Fine della commedia epilogo del dialogo cornice: Socrate - Critone (304 B - 307 C).

Dalla struttura che abbiamo schematicamente proposto, questo dialogo risulta costruito su tre assi che hanno significato e funzioni diverse:

  • 1) un primo livello è costituito dal dialogo tra Socrate e Critone, che fa da cornice al confronto del filosofo con i due eristi;

  • 2) un secondo asse è costituito dai giochi slegati che Eutidemo e Dionisodoro conducono nelle tre scene eristiche;

  • 3) un terzo livello è costituito dai due interventi di Socrate che sono quell’invito alla filosofia che il filosofo chiede, vanamente, ai due eristi.

Vedremo nel corso dell’analisi che tale struttura si rivela molto significativa perché veicola e, per così dire, rende tangibile, il confronto tra Socrate e gli eristi e, dunque, tra i diversi modelli educativi di cui questi personaggi sono portavoce.

II - Il problema dell’educazione dei giovani

Data la complessità anche strutturale di questo, come di ogni dialogo di Platone, si può affermare che esso si configuri come l’intreccio di più linee argomentative:

  • 1) Motivo dominante: asse unitario del testo che Platone continuamente richiama al lettore.

  • 2) Centro tematico dell’opera: la questione filosoficamente più rilevante che dà allo stesso motivo dominante il suo senso proprio.

  • 3) Problema più importante con cui lo svolgimento deve fare i conti3.

Che il tema educativo sia l’asse intorno al quale ruota tutto il dialogo, costituendone dunque il motivo dominante, risulta chiaro già a partire dai protagonisti stessi: i vecchi Eutidemo, Dionisodoro, Socrate e i giovani Clinia, Ctesippo ai quali si aggiungono i discepoli dei due eristi e gli amanti di Clinia. Si impone subito un confronto, dunque, tra vecchiaia (età in cui a Critone sembra ridicolo anche il voler imparare; 272 B) e giovinezza (età ideale per apprendere; 275 B 2-4) e si sottolinea come i naturali discepoli degli eristi siano i giovani. È un dialogo pieno di giovani, quindi, ai quali i vecchi si offrono come maestri.

1. L’importanza del tema

Anche se ci muoviamo in un clima da commedia4, fin dall’inizio del suo racconto, Socrate pone l’incontro con i due eristi, Eutidemo e Dionisodoro, in una luce particolare che fa sospettare l’importanza del tema che verrà affrontato. Afferma, infatti:

Per il volere di un dio mi trovavo seduto là dove tu mi hai visto, da solo nello spogliatoio e avevo già in mente di alzarmi. Quando mi stavo alzando, si verificò l’abituale segno divino. Pertanto mi sedetti di nuovo (272 E 1-4).

L’incontro sembra così inquadrato dentro una volontà divina, Socrate stava per andarsene, ma il segno divino lo trattenne. Il segno divino a cui il filosofo accenna chiaramente qui è lo stesso di cui parla in modo più esteso nell’Apologia. In questo dialogo lo definisce come una voce che sempre gli indica ciò che non deve fare, mai ciò che deve fare (31 D 2-4).

Proprio questo accade, infatti, nell’Eutidemo: Socrate è in procinto di alzarsi e andarsene, ma «l’abituale segno divino» lo spinge a restare.

Sembra chiara, in questo passaggio, la volontà di Platone: si vuole porre l’incontro di Socrate, Clinia, gli eristi e Ctesippo in un orizzonte che non abbia nulla di casuale; non per caso è avvenuto questo dialogo, ma per una volontà divina. Questo crea attesa e dà una consapevolezza al lettore: si parlerà di qualcosa di fondamentale5.

2. Eutidemo e Dionisodoro: maestri di eristica o di virtù?

Il primo nodo che Platone ci pone di fronte, però, è proprio quello di capire in che cosa siano effettivamente maestri Eutidemo e Dionisodoro: infatti, nel prologo che fa da cornice al dialogo, Socrate, il giorno dopo aver discusso con gli eristi, dice a Critone che i due sono insegnanti di eristica e che si deve assolutamente imparare quest’arte, ma quando racconta il dialogo vero e proprio che ha avuto con gli eristi, afferma che Eutidemo e Dionisodoro si sono dichiarati maestri di virtù.

Colpisce, dunque, questo scarto tra quanto dice Socrate a Critone in apertura e quanto sostengono gli eristi, ma bisogna anche notare che tutto il dialogo, nelle battute dei due, è effettivamente una dimostrazione di eristica e questa è l’unica cosa che dimostrano di sapere.

Per capire il gioco messo in atto da Platone, è utile analizzare la presentazione che Socrate fa dei due eristi al giovane Clinia, ieri, cioè nel prologo vero e proprio della commedia.

Eutidemo e Dionisodoro, dice Socrate, sono uomini sapienti6 in questioni di non poco conto, anzi importantissime: conoscono tutto dell’arte della guerra e sanno rendere un altro capace di difendersi in tribunale «se è vittima di ingiustizia» (273 C 8-9). I due sono, quindi, esperti di guerra, capaci nello scrivere discorsi e nel parlare in tribunale; inoltre, sanno insegnare queste attività a chi lo voglia.

Socrate presenta i due sofisti come esperti di retorica; il filosofo, dunque, non li conosce come eristi e ovviamente non li presenta come tali, ma, alle sue parole, i due ridono e dicono che ormai quelle conoscenze sono secondarie. È chiaro, quindi, che sono cambiati e, per questo, disprezzano la presentazione che Socrate ha dato di loro. Questi, meravigliato, commenta così:

Deve essere bella la vostra attività, se cose tanto grandi si trovano ad essere per voi secondarie. In nome degli dei ditemi qual è questa bella occupazione (273 D 5-7).

A questo punto, bisogna tenere presente il gioco delle parti messo in atto da Platone: Socrate ha conosciuto Eutidemo e Dionisodoro due o tre anni prima e li presenta per come li ha conosciuti; essi ridono delle sue parole e allora Socrate constata che quello di cui i due si occupano deve essere bello, se sono giunti a considerare di secondario interesse attività così importanti come quelle che egli attribuisce loro. Si ha proprio l’impressione che Platone, attraverso Socrate, voglia preparare il lettore alla risposta dei due: Eutidemo e Dionisodoro diranno qualcosa di incredibile e questa è una nuova sottolineatura dell’importanza del problema in questione.

Il filosofo, quindi, meravigliato, chiede quale sia quest’arte nuova che Eutidemo e Dionisodoro hanno acquisito e che Platone implicitamente ha già giudicato come bella, ma, appunto, così tanto da lasciare increduli al pensiero che qualcuno la possegga e dica di saperla insegnare.

La virtù - disse - Socrate, pensiamo di essere capaci di insegnarla meglio e più in fretta di ogni altro (273 D 8-9).

La loro pretesa è dunque quella di insegnare la virtù e questa dichiarazione iniziale li accomuna ai sofisti in genere che promettono questo7.

Come si è già accennato, però, la virtù è cosa diversa dall’arte eristica, che Socrate attribuisce loro nell’incipit del dialogo, cioè all’indomani del suo incontro con i fratelli8.

Tenendo presente che Platone crea uno scarto tra un “ieri” (reale incontro con i sofisti) e un “oggi” (incontro con Critone e racconto del dialogo con i sofisti), si può avanzare quest’ipotesi: potrebbe esserci un’ambiguità riguardante questa parola fondamentale nell’economia del dialogo: ¢ret»9. Aretè può significare “virtù” in senso morale, così come la intende sicuramente Socrate, ma può anche significare “realizzazione, eccellenza in qualcosa”, eccellenza, appunto, nel sostenere qualsiasi discorso vero o falso che sia, come dice Socrate in apertura al dialogo (272 B; “oggi”, dunque, quando ha già conosciuto e saggiato l’effettivo valore dei due). Una prova di questo fraintendimento tra Socrate e i sofisti, la vediamo proprio nel fatto che non sono i sofisti ad esplicitare il loro essere maestri di aretè con il significato di rendere buoni e saggi gli uomini, ma è Socrate; la considerazione morale dell’aretè si trova sempre in bocca a Socrate, mai in bocca ai sofisti.

Se si applica questa ipotesi al prologo del dialogo, ne consegue questa lettura: Socrate “oggi”, cioè nel suo dialogo con Critone, avendo capito il fraintendimento in cui egli stesso e i suoi interlocutori erano caduti il giorno prima, lo scioglie e, dunque, chiama l’aretè, che Eutidemo e Dionisodoro promettevano, con il suo vero nome, appunto, eristica e i due, effettivamente, daranno una dimostrazione di eristica.

Il gioco platonico consiste nel nascondere questa operazione e nel creare così due dichiarazioni, quella di Socrate e quella degli eristi, diverse, quando, invece, ce le aspetteremmo identiche. Platone crea in tal modo uno sfasamento: Socrate afferma una cosa all’inizio del dialogo, gli eristi ne sostengono, apparentemente, un’altra all’interno del racconto che Socrate propone a Critone, ma per tutto il dialogo fanno proprio quello che il filosofo dice all’inizio.

In realtà Socrate, che all’inizio del dialogo, nella finzione scenica, ha già parlato con loro e li conosce, li prende a maestri per l’unica cosa che hanno dimostrato di saper insegnare, indipendentemente dal nome che ad essa si dà.

Dunque, chiarito questo, la dichiarazione dei due eristi, che si dicono maestri di virtù, può leggersi in questo modo: «Aiutiamo i nostri allievi a realizzarsi presto e bene», ma non si dice come e in che cosa.

Di fronte a questa dichiarazione, Socrate ribatte:

Se ora possedete veramente questa scienza siatemi propizi, infatti vi parlo proprio come a dei, chiedendovi di essere clementi per quello che ho detto prima (273 E 6 - 274 A 1).

L’intera movenza di questo passaggio sembra tesa proprio a sottolineare la grandezza della promessa dei due eristi. Essi, infatti, hanno dichiarato di saper insegnare l’¢ret» che Socrate interpreta come virtù morale. Ai suoi occhi, dunque, i due assumono quella che per Platone è una missione e della massima importanza: l’educazione dei giovani; ma la condizione, che l’Autore sottolinea con forza, attraverso l’incredulità di Socrate, è che dicano la verità. Il filosofo, infatti, afferma:

ma fate attenzione, Eutidemo e Dionisodoro, se dite la verità: infatti, non c’è nulla di strano a non credervi, data la grandezza della vostra promessa (274 A 2-4).

Ecco che allora comincia a farsi strada un dubbio tragico: Socrate, infatti, fraintendendo le parole degli eristi, li presenta come educatori, maestri di virtù e, se davvero avessero questa scienza, sarebbero davvero divini. La condizione da cui tutto dipende, però, è appunto quella ricordata dal filosofo, cioè che stiano dicendo la verità ed è dunque questa una delle cose da verificare.

Comunque, alla richiesta di Socrate, Eutidemo risponde che sono lì proprio per presentare la loro arte a chi voglia apprenderla. Socrate assicura che tutti vogliono conoscere questo sapere sia lui, sia Clinia, Ctesippo e tutti gli altri. Ora la discussione può cominciare e ad aprirla è Socrate, ponendo una serie di problemi, legati al tema educativo. Non tutti troveranno risposta, ma intanto Platone li pone tratteggiando così l’orizzonte problematico entro il quale ci si muoverà:

Pertanto è chiaro che mostrarlo per la maggior parte non è una cosa da poco, ma ditemi questo: [1] soltanto un uomo che sia convinto che si debba apprendere da voi potrebbe essere reso buono o anche chi non è ancora convinto o [2] per il fatto di non credere, in generale, che questa cosa, la virtù, possa essere imparata (maqhtÒn), oppure che voi due ne siate maestri? Ma anche uno che la pensi così [3] viene persuaso ad opera della stessa arte del fatto che la virtù è insegnabile e che voi siete quelli dai quali la si può apprendere meglio, o tramite un’arte diversa? (274 D 6 - E 6).

Bisogna, innanzitutto, notare che la domanda di Socrate è piegata sempre in senso etico. Il filosofo chiede, infatti, «chi potrebbe essere reso buono» e pone tre questioni legate a questo problema.

  • 1) È possibile rendere buoni solo quelli che sono convinti, cioè quelli che vogliono apprendere da voi o anche coloro che non sono persuasi di questo?

  • 2) Socrate chiede se i due possano rendere buono solo chi è convinto di dover andare a lezione da loro o anche chi è scettico o perché non crede che la virtù sia “in generale” (Ólwj) apprendibile (e quindi anche insegnabile) o perché non pensa che essi ne siano i maestri. In questa seconda domanda, compare un dubbio fondamentale: «È insegnabile la virtù?». I sofisti non rispondono, dunque la domanda, insieme al dubbio che implica, resta sospesa. Per ora, quindi, siamo di fronte ad una domanda di cui si intuisce la grande importanza (se si considera il fatto che Eutidemo e Dionisodoro si sono detti maestri di virtù), ma che rimane, a questo livello, un problema aperto.

  • 3) Infine, il filosofo chiede se c’è un’arte che dimostra che la virtù è insegnabile e un’altra che indica chi sia maestro di virtù.

Delle tre questioni poste da Socrate, Dionisodoro risponde solo all’ultima e lo fa in senso tecnico:

Della stessa arte, Socrate (274 E 6).

3. Eutidemo e Dionisodoro maestri di protrettica

Socrate estende il senso della risposta di Dionisodoro: i due eristi hanno detto che la stessa tecnica convince che la virtù è apprendibile e che loro ne sono i maestri; per parlare così devono conoscere questa tecnica e quindi possono esortare alla filosofia (cosa che gli eristi non hanno mai detto) e alla cura della virtù (cosa che hanno detto, intendendola, però, non in senso morale).

Infatti, immediatamente dopo la risposta di Dionisodoro, appena ricordata, egli elegge i due a maestri di protrettica per la discussione che seguirà:

Dunque voi - dissi - Dionisodoro, tra i contemporanei sareste i più capaci di esortare alla filosofia10e alla cura della virtù? (274 E 9 - 275 A 2).

Fino ad ora si è parlato solo di virtù, ma nel porre questa domanda, improvvisamente Socrate parla di philosophia (filosof…a) e ne parla come fosse cosa ovvia. Sembra, quindi, che qui si dia per scontato che con la filosofia si insegna la virtù. Comunque venga intesa questa parola, in senso tecnico o letterale, chiaramente qui si collegano aretè e philosophia e la sophia (sof…a), a questo punto del dialogo, è un qualcosa di nuovo che solo nel primo intervento di Socrate acquisterà un peso rilevante. Prima di questo momento si è parlato semplicemente, e in modo generale, di aretè con la possibilità - che diventerà poi reale e tangibile nel confronto tra Socrate e gli eristi - di un equivoco, proprio su questo termine chiave. Ora Socrate sta cominciando a chiarire che cosa è per lui l’aretè e sta indicando la strada per arrivare alla virtù, appunto legandola alla filosofia.

Il filosofo invita, quindi, gli eristi a lasciar perdere il resto: non si concentrino sull’insegnamento della virtù, ma diano piuttosto una dimostrazione di scienza protrettica, cioè invitino ad avvicinarsi alla virtù, dato che hanno dichiarato di conoscere questa tecnica:

Rimandate ad un’altra volta - dissi - la dimostrazione del resto, ma dimostrateci solo questo: convincete questo giovane qui che bisogna fare filosofia (filosofe‹n) e prendersi cura della virtù e farete cosa gradita a me e a tutti costoro (275 A 4-7).

Qui Socrate, in modo anche abbastanza esplicito, stabilisce che in questo dialogo non si insegnerà la virtù, ma si inviterà alla virtù, si darà, dunque, dimostrazione di scienza protrettica.

4. Perché viene scelto Clinia

Socrate invita i sofisti ad esercitare la loro scienza protrettica su Clinia, perché a tutti loro sta a cuore che Clinia diventi sapiente e il filosofo riconosce che gli eristi sono arrivati proprio nel momento opportuno, perché Clinia è giovane e la giovinezza è un’età propizia per l’attività protrettica e per l’educazione. Il ragazzo, infatti, sta affrontando un passaggio decisivo: è nella fase in cui un giovane si trova di fronte a bivi e scelte e il problema e il rischio di un educatore sono proprio quelli indicati da Socrate:

È giovane e temiamo per lui, com’è probabile per un giovane, che qualcuno arrivi prima di noi, volgendo la sua mente verso un’altra direzione, e lo rovini (275 B 2-4).

Ci si chiede, cioè, quando è il momento giusto per intervenire, perché se qualcuno ci previene e coglie il giovane totalmente scoperto e impreparato, può facilmente portarlo dove vuole e, quindi, corromperlo.

La giovinezza di Clinia come età ideale per l’arte protrettica, però, non basta a spiegare, perché Socrate insista così tanto su di lui, se si considera il fatto che intorno al giovane c’è un numeroso coro di ragazzi. Perché proprio Clinia allora? Per rispondere a questa domanda si noti la presentazione, potremmo dire ufficiale, che Socrate fa di Clinia ai sofisti:

Questi è il figlio di Assioco, figlio di Alcibiade il vecchio e cugino dell’Alcibiade che è attualmente vivente. Il suo nome è Clinia (275 A 10 - B 2).

Puntando l’attenzione proprio su Alcibiade si può ipotizzare che, nella volontà espressa da Socrate di guidare il giovane alla saggezza e alla virtù, potrebbe esserci il ricordo dell’accusa di corruzione che coinvolse Alcibiade. Quella di Clinia, oltre ad essere una famiglia famosa ad Atene, vede nei suoi componenti l’esempio di ottime nature, quella di Alcibiade o di Assioco, che si sono poi rovinate. La discendenza di Alcibiade il vecchio è, dunque, funzionale a mostrare il rischio insito nell’educazione; rischio che, poi, Socrate stesso, esprimendo i suoi timori per Clinia, mette ben in chiaro11.

È da notare, infine, come tanto Socrate quanto i due eristi siano interessati al giovane Clinia e, quindi, in generale, ai giovani, ma con preoccupazioni profondamente diverse: Socrate vuole, e lo dice esplicitamente, che i giovani diventino uomini virtuosi, i sofisti mirano solo a fare di loro dei discepoli che, per essere tali, devono pagare.

Socrate non può effettivamente pensare che i due eristi siano la soluzione ideale per l’educazione di Clinia, ma, al di là di questo, egli qui dichiara quale sia la questione che sta sotto il confronto tra lui e gli eristi a cui si assisterà: in gioco c’è l’educazione dei giovani, perché è ai giovani che gente come Eutidemo e Dionisodoro si rivolgono e il pericolo reale è che li corrompano, cosa che Socrate vuole evitare12.

III - Il modello educativo eristico a confronto con il modello platonicosocratico

La struttura del dialogo, che costringe ad un puntuale alternarsi di scene eristiche (I, III, V nelle quali sono gli eristi a guidare il dialogo, proponendo i loro sofismi) e di scene socratiche (II, IV nelle quali Socrate interviene interrompendo la dimostrazione eristica, per esercitare realmente su Clinia l’arte protrettica e condurre insieme al ragazzo una vera ricerca), ha la finalità di rendere ancora più evidente il confronto tra l’eristica e la dialettica: tra Eutidemo e Dionisodoro da una parte - che non sono per nulla interessati al vero, ma solo alla vittoria in una gara di parole - e Socrate dall’altra che, nei suoi due interventi, porta avanti una ricerca ed è l’unico che svolge realmente la funzione protrettica nei confronti di Clinia13.

1. Eutidemo e Dionisodoro: i “non filosofi”

Questo confronto serrato tra i due modelli educativi, proposti rispettivamente dagli eristi e da Socrate, ci permette di evidenziare nell’Eutidemo una movenza che resta sotterranea, ma si rivela fondamentale.

Platone nel momento stesso in cui, mettendo in scena Eutidemo e Dionisodoro, li tratteggia “in positivo” come eristi, li presenta anche come non filosofi e il fatto di poter ritrovare negli eristi i tratti del filosofo dimostra il rapporto complesso e sfumato che c’è tra queste due figure: l’erista è il non filosofo e, in quanto tale, in alcuni tratti, molto somigliante a questo, ma in altri del tutto opposto a lui.

1.1 Socrate profano dell’eristica

Mentre Platone conduce questo duplice gioco nei confronti di Eutidemo e Dionisodoro, si preoccupa anche di distanziare il più possibile il suo maestro, vero e autentico filosofo, da loro. Questo si vede in diversi passaggi nei quali Socrate denuncia la sua completa estraneità all’arte eristica che, infatti, all’inizio del dialogo, dice di voler apprendere.

Per esempio, a 278 D 5 il filosofo, prima di dare inizio al suo paradeigma protrettico, chiede agli eristi di non ridere se il suo discorso sembrerà loro rozzo e ridicolo. A dettare questa frase è il fatto che Socrate ha appena assistito ai primi due sofismi e ha visto quindi un discorso condotto con una tecnica

- di accerchiamento tramite domande che sembrano scontate, ma sono capaci di intrappolare l’interlocutore;

- che gioca con le parole;

- che confuta qualsiasi affermazione.

Socrate non possiede questa tecnica e per questo teme di apparire ridicolo.

Passaggi confrontabili a questo li troviamo a 282 D 4-7, dove Socrate, concludendo il suo intervento, si scusa per il suo discorso certamente da inesperto (idiîtikon) ed esposto in modo stentato e prolisso, ribadendo così la sua estraneità alla tecnica eristica; e a 295 D 7 - E 3 Socrate afferma che sicuramente Eutidemo sa discutere meglio di lui che ha le «conoscenze tecniche di un profano» e si ribadisce in tal modo che Socrate è profano rispetto alla tecnica eristica che, invece, Eutidemo e Dinisodoro conoscono alla perfezione.

1.2 La lode al filosofo è condanna per l’erista

Nell’elogio conclusivo che Socrate riserva a Eutidemo e Dionisodoro (303 C 4 - 304 B 5) si sente, in realtà una condanna che si articola su tre accuse e si chiude con un consiglio.

  • 1) Agli eristi non importa nulla della maggior parte degli uomini, anche di quelli venerati e famosi, ma solo di quelli simili a loro;

  • 2) il loro discorso è civile e mite, perché, affermando che nulla è bello o bianco, chiudono la bocca agli altri, ma anche a se stessi;

  • 3) la loro è una tecnica ed è tale che in poco tempo chiunque la può apprendere;

  • 4) il consiglio che Socrate dà ai due è quello di non insegnare in pubblico, perché date la facilità e la velocità con le quali si apprende questa tecnica, alcuni potrebbero apprendere senza pagare.

Riprendendo ad uno ad uno questi punti ci accorgeremo che Platone anche qui ci fa scorgere il filosofo all’ombra dei due eristi:

  • 1) Nel primo caso, si attribuisce, infatti, ai due una caratteristica che è del filosofo, se è intesa nel senso di indifferenza per il senso comune, per gli onori degli uomini, la qual cosa implica una preoccupazione per la loro anima. Si tratterebbe, dunque, di un vero elogio se essi fossero filosofi, ma l’intenzione reale, nascosta nelle parole di Socrate, è svelata dall’ultima frase: ad essi interessano solo gli uomini simili a loro, cioè eristi o desiderosi di diventare tali. Ecco allora che quel «non vi curate affatto della maggior parte degli uomini» viene a significare disinteresse completo per loro e soprattutto per la loro anima, fossero anche venerati e degni di rispetto, com’è sicuramente Socrate. L’immagine del filosofo, quindi, è completamente rovesciata. Infatti, profondamente diversa risulta essere la figura di Socrate, immagine del vero filosofo nell’Apologia: egli si interessa di tutti gli uomini e assume come missione quella di richiamarli ai valori quali la saggezza, la verità e l’anima; piuttosto che rinunciare a questo, contravvenendo ad un ordine divino, è pronto a morire (29 E).

  • 2) Socrate attribuisce ai due eristi - che hanno ampiamente dimostrato di concepire la discussione come una gara in cui l’importante è vincere e lottare senza esclusione di colpi - la mitezza nei discorsi, perché riconosce, giustamente e con una forte carica di ironia, che mentre abbattono gli altri abbattono anche se stessi. A prescindere, però, da questo dato concentriamoci su questa mitezza del discorso che è un’altra caratteristica del discorso del filosofo, del discorso socratico-platonico. A conferma di questo basta ricordare il Menone (75 D), in cui Socrate segna proprio la distanza del suo discorso da quello eristico, sostenendo che il suo è un discorso fatto tra amici che punta all’accordo (omologhia).

  • 3) Socrate caratterizza l’eristica in questo modo:

- una techne;

- facile da apprendere in poco tempo; - che chiunque può apprendere.

La stessa caratterizzazione dell’eristica viene ribadita nel passaggio che chiude l’elogio di Socrate costituendone l’appendice (304 B 6 - C 5): Socrate invita Critone a farsi allievo di Eutidemo e Dionisodoro perché:

- i due accolgono chiunque voglia pagare senza alcun limite di natura, di età o divieto di ricchezza;

- chiunque può facilmente apprendere la loro arte.

La filosofia mostra di avere caratteristiche esattamente opposte a queste: - è una scienza che, sulla base di Repubblica VII (532 A 5- B 1; 533 B 1 - D 4) risulta superiore ad ogni altra.

- Dalla Lettera VII si trae che si apprende in maniera particolare e con molto tempo: attraverso una lunga comunanza di vita e sfregando tra loro i concetti, fino a che, improvvisa, si accende una scintilla che poi si nutre da sé (341 C - D). Nel Fedro si dice che la strada che il dialettico deve percorrere è lunga (274 A).

- Non tutti possono apprendere questa scienza, ci sono alcuni per nulla adatti ad essa. Nella Lettera VII Platone afferma che solo molto pochi si contraddistinguono per un’affinità con le cose della filosofia (341 E) e la Repubblica (535 A) propone una selezione di nature intelligenti, ferme e coraggiose. Sicuramente rilevante, infine, è il fattore dell’età che Socrate sottolinea anche nell’Eutidemo affermando che Clinia è nell’età più opportuna per apprendere.

  • 4) La movenza applicata in quello che si può definire un consiglio finanziario (304 A 1 - B 5) è diretta: l’elemento del denaro è quello che caratterizza i sofisti e distanzia con forza Socrate da loro. Il filosofo ha già detto all’inizio del dialogo, parlando con Critone, che i due insegnano dietro pagamento (272 A 1), lo ribadisce qui ed esplicita, parlando ovviamente anche di sé, che il filosofo si contraddistingue in senso opposto con il riferimento all’acqua: gli eristi hanno una merce alla quale dà valore solo una forzata rarità garantita dal pagamento e dall’insegnare a pochi; la vera filosofia, invece, che è la merce di Socrate, è come l’acqua: non costa nulla ed è ottima.

1.3 Il filosofo è divino

Si incontrano più volte nel corso del dialogo, passi in cui Socrate si rivolge a Eutidemo e Dionisodoro come se parlasse con divinità o almeno con esseri divini, in virtù di ciò di cui si dicono maestri (273 E 6 - 274 A 1; 275 C 6 - D 2; 292 E 9 - 293 A 3).

In realtà, i due eristi - che Socrate ha creduto capaci di insegnare la virtù in senso morale - dimostrano di saper insegnare soltanto una techne, ma chi può dirsi a buon diritto divino è il filosofo, al quale non si addice il nome di sapiente che spetta solo a dio, «ma chiamarlo filosofo, ossia amante di sapienza, o con qualche altro nome di questo tipo, gli si adatterebbe meglio e sarebbe più adeguato» (Fedro, 278 E). Infatti, questo nome «non soltanto lo separa da Dio, ma lo lega anche a lui, perché è solo nel nome di filÒsofoj che si avverte il risuono di una delle caratteristiche distintive di Dio, cioè l’essere sapiente (sofÒj)»14.

2. La tecnica eristica come negativo della dialettica socratica

Da quanto fin qui argomentato, è evidente dunque che uno degli intenti di Platone nell’Eutidemo è quello di condurre un confronto tra l’eristica e la dialettica socratica, per tracciare i confini che separano l’una dall’altra.

L’urgenza e l’importanza di una tale operazione, in ambito educativo, si coglie pienamente alla luce di un passo della Repubblica che «accenna ai pericoli che conseguono ad una incomprensione delle finalità della dialettica»15 provocata dall’età troppo acerba di chi si dispone ad apprendere:

E non sarebbe un’ottima precauzione far sì che non ne assaggino finché sono giovani? D’altra parte non puoi ignorare che i giovanetti, non appena hanno preso gusto alle prime discussioni, si servono di queste come di un gioco, sempre intenti a contraddire e, imitando quelli che li confutano, essi stessi, a loro volta, continuano a confutare, divertendosi, come fanno i cuccioli a portare in giro e a fare a brandelli, a furia di argomentazioni, chi man mano capita loro a tiro (Repubblica, VII, 539 B 1-7).

È facile vedere, nelle parole di Socrate, un ritratto dell’atteggiamento eristico che consiste nel confutare solo per il gusto di confutare come se si stesse giocando. Il pericolo che consegue ad un fraintendimento della dialettica è allora quello di scivolare nell’eristica, ecco perché Platone tenta di tracciare una netta linea di demarcazione tra i due metodi.

Per perseguire questo fine, l’Autore si muove su due direzioni opposte: da una parte indica la somiglianza formale che accomuna i due metodi e giustifica una probabile confusione tra loro, dall’altra segna con grande forza le differenze che fanno sì che questi due metodi, nonostante siano formalmente simili, stiano su due versanti opposti.

Seguendo il disegno platonico, ripercorriamo gli elementi che accomunano l’eristica e la dialettica socratica che vengono messi a fuoco nel dialogo.

  • - Tanto gli eristi quanto Socrate procedono nel ragionamento tramite domande e risposte con un fine confutatorio. Se ci si concentra su Clinia, con cui discutono sia gli eristi sia Socrate, formalmente l’approccio sembra lo stesso: il giovane è interrogato, gli si chiede di rispondere e le sue opinioni vengono confutate16. Se ci si attiene alla sola forma, anche gli eristi hanno fatto quello che fa Socrate: hanno interrogato Clinia, Ctesippo e lo stesso Socrate, hanno sottoposto ad esame le loro risposte e le hanno confutate.

  • - Un altro punto di convergenza tra i due metodi riguarda il fatto che, prima di discutere, si stabiliscono i ruoli: già dalla scelta dell’interlocutore compiuta dai due eristi, i quali accettano di interrogare Clinia specificando che per loro è indifferente chi risponda, basta che risponda (275 B-C), Platone pone l’accento sull’importanza che per i due hanno i ruoli nella discussione: non importa di che cosa si parli, l’importante è che soltanto essi interroghino e che il ragazzo fornisca una risposta qualunque. Anche Socrate, quando propone il suo paradeigma protrettico, stabilisce i ruoli: egli interroga, Clinia risponde (278 E 1). Dunque, anche nella dialettica socratica si stabiliscono ruoli da rispettare.

Però, ammessa questa superficiale somiglianza, le differenze sostanziali sono tante e saltano agli occhi proprio grazie a questo stretto confronto17.

  • 1) Per gli eristi è del tutto indifferente la persona che risponde, e come risponde, quindi il suo ruolo è l’unica cosa davvero fondamentale. Per Socrate, invece, è fondamentale la persona che risponde molto più del ruolo che ricopre; egli, infatti, sceglie Clinia (a differenza dei sofisti che si limitano ad accettare la proposta del filosofo), perché, come dice agli eristi, il ragazzo è nella condizione ideale per apprendere ed è abituato a discutere (275 B 2-6; C 2-4).

  • 2) La discussione eristica non è che un gioco, il cui fine è la vittoria nei discorsi. Socrate dà una buona immagine di questo, quando afferma che il gioco degli eristi è simile allo scherzo di chi toglie lo sgabello a chi sta per sedersi (278 B 8 - C 2). La dialettica socratica, invece, non è finalizzata a vincere nei discorsi, ma a purificare l’anima dalla presunzione di sapere (cfr. Sofista 230 B 8 - C 3; 230 C 7 - D 4). Questa purificazione è possibile interrogando chi presume di sapere e sottoponendo alla prova le sue opinioni, cioè, appunto, con il metodo dialettico.

  • 3) Dal dialogo che si svolge tra Socrate ed Eutidemo a 295 B - C, si trae un’ulteriore differenza radicale tra i due metodi. Ad Eutidemo, che invita Socrate a rispondere, il filosofo chiede se debba rispondere anche se non ha capito cosa gli viene chiesto. L’erista dà una risposta affermativa, rivelando la natura di puro gioco che ha per lui la discussione: l’importante è ricevere una risposta da poter manipolare. Socrate, invece, mostrando con forza il suo disaccordo da questa posizione, segna un confine netto tra il suo metodo e quello eristico: per il filosofo è fondamentale che l’interlocutore capisca e risponda in modo sensato. Questo perché il suo non è un gioco per vincere, ma è una ricerca. Per questo Socrate presta grande attenzione al suo interlocutore che partecipa veramente e attivamente al discorso e risponde dicendo ciò che vuole, è libero di intervenire, di chiedere. Egli si preoccupa che Clinia abbia capito ciò che dice e se non è così, chiarisce con esempi. La discussione, dunque, non si articola per veloci domande e risposte, ma scorre più lentamente con l’intento di trovare sempre un accordo (omologhia) con l’interlocutore, condizione essenziale per proseguire.

  • 4) Quando Socrate presenta gli eristi a Critone dice che sono capaci di confutare il vero e il falso (272 B 1-2) ed essi danno dimostrazione di questo già con il primo sofisma, in cui confutano le due risposte opposte di Clinia. Sono quindi indifferenti alla verità e alla falsità. Socrate, invece, confuta solo il falso e dunque ricerca il vero.

  • 5) Non avendo altra finalità se non quella di confutare sempre e comunque il proprio interlocutore, l’elenchos degli eristi è unicamente distruttivo. Infatti Socrate, interrogato da loro, dice due volte di sentire che i fratelli volevano prenderlo in trappola (295 D 2; 302 B 5-7). L’elenchos di Socrate, invece, è costruttivo, perché una volta che ha reso l’interlocutore, che crede di sapere, consapevole della sua ignoranza, questi è ben disposto per apprendere18.

  • 6) La concezione del linguaggio dei due fratelli è puramente formale: i due si attaccano ai nomi, senza dare alcuna importanza al loro significato. È per questo che possono giocare con le parole, sfruttare le loro ambiguità passando da un significato ad un altro, dal valore relativo al valore assoluto dei termini; è per questo che apparentemente vincono. Giustamente Ctesippo li dice invincibili, ma a prezzo di una totale inconsistenza. Socrate, invece, è interessato alle cose più che ai nomi, infatti: i suoi giochi di parole nascondono sempre un messaggio; il suo discorso è l’unico ad avere continuità e coerenza. Platone lo sottolinea raccordando il I e il II intervento socratico, come se in mezzo non ci fosse stata alcuna scena eristica: il filosofo chiede a Clinia di dirgli dove erano rimasti senza fare alcun riferimento a ciò che hanno detto i sofisti (288 D 5-6). È un chiaro segnale del fatto che si tratta di cose non utili al fine del discorso protrettico che Socrate vuole compiere.

  • 7) Eutidemo e Dionisodoro promettono la virtù, ma, come chiarisce Socrate nell’ “elogio” conclusivo, insegnano una tšcnh; Socrate, invece, non si dice mai maestro di virtù, ma è l’unico che sappia indirizzare Clinia alla filosofia e alla virtù.

  • 8) Gli eristi si fanno pagare per il loro insegnamento; questa è l’unica condizione che pongono, non ci sono altre limitazioni né dovute all’età né alla natura di chi vuole diventare loro discepolo. Socrate, invece, non si fa pagare.

  • 9) La differenza tra eristica e dialettica è evidenziata anche dalla diversa reazione di Clinia al discorso degli eristi prima, a quello di Socrate poi. Nel rispondere ad Eutidemo Clinia è in difficoltà, appare timido e impacciato: arrossisce, guarda verso Socrate. Diverso è il Clinia che risponde a Socrate, tranquillo e sicuro, tanto che, alla fine, è capace di dare un’importante risposta (quella sull’insegnabilità della sapienza) in modo autonomo19.

2.1 Il pa…zein e lo spoud£zein

In ultima istanza, il fondamentale livello di confronto tra eristica e dialettica è rappresentato dall’insistenza sul fatto che gli eristi scherzano, mentre Socrate puntualmente li invita alla serietà e, in questa cornice, trovano giustificazione, i tanti richiami alla serietà che illustriamo velocemente: proprio dopo aver definito un gioco la prima scena eristica, Socrate assicura che, se finora i due hanno scherzato, ora, però, verranno gli insegnamenti seri (278 C). A Dionisodoro, che gli chiede se essi scherzino o facciano sul serio, nel dire che vogliono che Clinia diventi sapiente, Socrate risponde che fanno straordinariamente sul serio (283 C) e poi dichiara di aver capito perché fino ad allora i due avessero scherzato: pensavano che anch’egli scherzasse nel chiedere loro di interrogare Clinia, così che divenisse migliore (283 B). Si vede bene da questo passaggio quanto lo scherzo e la serietà siano motivi insistenti e come si incrocino tra loro; nell’Eutidemo, infatti, si incontrano e si scontrano con costanza lo spudazein fare sul serioe il paizein giocare, scherzare), quasi fossero due facce della stessa medaglia.

Tutto questo è funzionale a ribadire che gli eristi giocano e scherzano, ma con argomenti molto importanti, argomenti con i quali il dialettico deve confrontarsi (per esempio, il problema della possibilità della conoscenza; il problema dell’impossibilità del falso). Quindi, se davvero Eutidemo e Dionisodoro facessero sul serio, direbbero cose di straordinaria importanza e bellezza, ma appunto non fanno che scherzare e qui sta il problema.

L’insistenza platonica su questi due poli contrapposti suggerisce, quindi, anche la polarità che sta alla base del confronto tra eristica e dialettica: anch’esse, infatti, potrebbero definirsi come le due facce della stessa medaglia. A differenziarle non sono le tematiche, né i mezzi, ma appunto il fatto che l’erista gioca e scherza con questioni di straordinaria importanza, le stesse che il filosofo tratta, invece, con profonda serietà.

3. Vero e falso si apprendono insieme

Socrate, nel corso del dialogo, afferma che qualsiasi cosa dovesse accadergli con i due eristi, non lo irriterebbe (293 E). In questa frase è registrato un dato reale che Platone sembra voler sottolineare, cioè la strana calma che il filosofo dimostra verso i due eristi: mai si irrita con loro e mai li maltratta, anzi li lascia fare e sta alle loro regole, senza neanche metterli troppo in difficoltà.

Oltre a questo, meraviglia il fatto che Socrate insista per diventare allievo dei due dopo aver capito esattamente che non fanno niente di ciò che promettono, ma sono solo maestri di una techne indifferente al vero e al falso.

I dati del quadro che stiamo tracciando appaiono contrastanti: da una parte Platone condanna con forza e senza lasciare spazio al dubbio l’attività eristica, dall’altra sembra insistere, tramite Socrate, perché l’eristica venga comunque appresa.

Questa contraddizione si ricompone e trova giustificazione considerando un’importante affermazione platonica affidata alla Lettera VII. Si è appena dimostrato che i due eristi incarnano ciò che il filosofo non è, sono, dunque, falsi filosofi e, come giustamente li definisce Socrate, «artigiani della dialettica» che, usando gli stessi mezzi della dialettica e messi di fronte agli stessi problemi, fanno un gioco falso che non persegue e non conduce alla verità, ma è comunque un gioco utile per chi vuole diventare un vero dialettico. Nella Lettera VII il filosofo scrive:

Infatti queste due verità [della virtù e del vizio] si colgono necessariamente insieme e insieme si impara il falso e il vero che concerne tutta quanta la realtà (344 B 1-3).

Nell’Eutidemo Platone presenta i due eristi e la loro techne come il negativo del filosofo e della filosofia e dal quadro che si è descritto, si può concludere che essi siano portatori di un insegnamento importante e che si deve acquisire per essere introdotti alla filosofia, per capire che cosa sia la vera filosofia. Si deve apprendere l’eristica, dunque, perché apprenderla e poi rifiutarla, significa fare un primo passo verso la filosofia20.

IV La presenza di Isocrate e il suo modello educativo

Finito il racconto di Socrate a Critone, questi dice al filosofo che il giorno precedente ha parlato della conversazione a cui aveva appena assistito con un retore di cui non si dice il nome.

Quest’anonimo personaggio conduce una critica rivolta al tipo di filosofia che ha visto nell’esibizione degli eristi21 e si dice meravigliato dal fatto che Socrate volesse farsi discepolo di Eutidemo e Dionisodoro.

1. L’Anonimo è Isocrate?

Evidentemente Platone non vuole fare il nome dell’Anonimo incontrato da Critone, anche se è altrettanto evidente che il riferimento è a un uomo in particolare.

L’ipotesi che dietro a questo anonimo personaggio sia da vedere Isocrate è discussa22, ma appare convincente e non darebbe luogo neanche ad un anacronismo rispetto alla data drammatica del dialogo, perché Platone, forse proprio considerando questo, non fa il nome di questo personaggio. La sua resta, quindi, una semplice allusione23.

L’identità dell’Anonimo, per la tematica educativa e protrettica del dialogo, ha un enorme peso e, del resto, il fatto che Socrate insista a chiedere se l’Anonimo sia un retore o un logografo a me sembra utile perché il lettore - prima ancora che Socrate stesso - possa identificare il personaggio.

Socrate, infatti, dopo aver ascoltato la presentazione dell’Anonimo fatta da Critone, dice di non aver ancora capito di chi si tratti e chiede precisazioni: a quale categoria appartiene quest’uomo? A coloro che contendono nei tribunali, è un retore (∙»twr) o è uno che fa discorsi per gli oratori (poiht–j tîn lÒgwn), quindi, è compositore di discorsi tramite i quali i retori discutono. Critone fuga con decisione ogni dubbio: non è un oratore «e non credo che si sia mai presentato in tribunale» (305 C 1-2), ma è competente in retorica e abile nel comporre discorsi. Questa domanda e la seguente risposta sono funzionali a chiarire che costui non è un retore e a dare anche un’altra fondamentale informazione per identificarlo: non è mai salito in tribunale.

Andando a considerare gli scritti di Isocrate, si trova conferma di questo passaggio decisivo in Platone (così come di tanti altri passaggi di questo ritratto24) e molto probabilmente teso a rendere possibile l’identificazione di questo misterioso personaggio con Isocrate, tant’è vero, che, ottenuto il chiarimento che chiede, Socrate dichiara di aver capito di chi si tratta25.

2. Il giudizio di Platone

Il giudizio platonico che, tramite Socrate, si può trarre rispetto a questo Anonimo a me sembra funzionale a distanziarlo quanto più possibile dal modello educativo offerto dagli eristi e ad affiancare, quindi, anche la sua proposta educativa, comunque valida, a fianco delle due cui Platone ha dato maggior spazio: l’eristica (da apprendere per evitarla) e la dialettica.

Che probabilmente questo sia l’intento platonico, ce lo conferma l’unica critica che il filosofo riserva all’Anonimo: egli si crede primo in sapienza quando in realtà è terzo.

Socrate riconosce, infatti, che uomini come l’Anonimo si occupano con misura di filosofia e politica e chiarisce che date due realtà che siano:

1) una cattiva e una buona;

2) due buone, non relative allo stesso fine;3) due cattive, non relative allo stesso fine,

uomini o esseri intermedi tra queste due realtà e partecipi di entrambe sono:

nel primo caso, migliori della prima, peggiori della seconda;

1) nel secondo caso, peggiori di entrambe rispetto al fine per cui è utile ciascuna di quelle di cui sono composti.

2) nel terzo caso, e solo in questo caso, sono migliori.

Questo modello generale viene applicato al caso specifico del personaggio in questione che si è detto essere intermedio tra filosofia e politica. Sulla base dello schema precedente si hanno tre possibilità:

1) filosofia e politica sono due scienze delle quali una è cattiva e l’altra è buona. L’Anonimo è migliore rispetto a chi si occupa della cattiva, peggiore rispetto a chi si dedica alla buona;

2) filosofia e politica sono due cose buone non relative allo stesso fine. L’Anonimo è peggiore rispetto a chi si occupa esclusivamente o dell’una o dell’altra;

3) filosofia e politica sono due scienze cattive. L’Anonimo, occupandosene in misura parziale, è migliore, rispetto a chi si occupa in modo esclusivo di una qualunque delle due.

La seconda alternativa, la sola valida, perché considera filosofia e politica come due cose buone per fini diversi, è considerata per prima. Se vale questa ipotesi, che giudica buone tutte e due le scienze, allora:

non dicono nulla di valido [quegli uomini tra cui troviamo l’Anonimo], infatti sono inferiori ad entrambe (306 B 4-5).

La prima e la terza alternativa vengono, poi, categoricamente escluse:

Non credo, pertanto, che essi riconoscano, né che entrambe siano cattive, né che una sia cattiva, una buona (306 B 7 - C 2).

Il ragionamento si conclude, quindi, riconoscendo che gli uomini come l’Anonimo sono inferiori ai fini per i quali filosofia e politica sono degne di considerazione. E pur essendo terzi, rispetto ai filosofi e ai politici, cercano di sembrare primi:

Ma in realtà essi, partecipando di entrambe, sono inferiori ad entrambe, rispetto al fine particolare per cui la politica e la filosofia sono degne di considerazione e, essendo terzi in verità, cercano di sembrare primi (306 C 2-5).

Quella che Socrate muove all’anonimo interlocutore di Critone è una critica oggettiva, ma comunque, il logografo è degno di grandissimo rispetto, perché la sua è una techne che si pone al terzo posto dopo filosofia e politica, non è affatto un’attività di poco conto e non è certo confrontabile con il giudizio dato sull’eristica. Infine, Socrate conclude:

Pertanto, bisogna perdonarli per questo loro desiderio e non adirarsi, ma stimarli per quello che sono. Infatti, si deve amare ogni uomo, chiunque sia e qualsiasi cosa dica, che abbia saggezza (fron»sewj) e si impegni con coraggio nel perseguirla (306 C 5-9).

A meno di non ipotizzare, un’ironia che, però, non sembra in nessun modo presente, queste parole acquistano senso se Platone si sta riferendo a Isocrate; così, infatti, nonostante l’oggettiva critica che gli muove, gli riconosce, però, anche l’impegno e la convinzione nel proporre il suo modello educativo e lo distanzia da Eutidemo e Dionisodoro.

Platone con queste parole sottolinea il fatto che Isocrate, a differenza degli eristi, ha un programma educativo serio e crede in quello che fa, porta avanti le sue idee con intelligenza e coraggio. Alle vane promesse dei sofisti, dunque, può contrapporre la sua competenza: le sue non sono chiacchiere. Per tutto questo, non bisogna assolutamente accomunarlo agli eristi. Con queste ultime, benevole parole, Platone sembra volersene assicurare.

Ecco, allora, che diviene anche chiaro il perché della presenza di questo personaggio alla fine dell’Eutidemo: per tutto il dialogo si sono confrontati due metodi educativi: quello socratico-platonico e quello eristico. In chiusura Platone presenta un’ulteriore proposta educativa rappresentata da Isocrate26; egli, agli occhi di Platone, è sicuramente migliore rispetto agli eristi, perché, appunto, ha un programma in cui crede, anche se ha un limite ed è quello di credersi più grande di quanto in realtà non sia27.

V - Un dialogo strutturalmente protrettico

Se l’Eutidemo può quindi definirsi un dialogo protrettico, cioè un invito a coltivare la filosofia e la virtù, ad un secondo livello è anche vero dire che, come accennavo in apertura, questo dialogo è intrensicamente costruito come un protrettico alla filosofia platonica, perché accenna a una serie di tematiche che Platone riprenderà poi in dialoghi successivi con tutt’altro approfondimento.

Infatti, dopo aver stabilito che gli eristi non insegneranno la virtù, ma inviteranno alla virtù, dando una dimostrazione di scienza protrettica, Platone comincia a “giocare” con il lettore: apparentemente, gli eristi proporranno al giovane Clinia solo giochi di parole e, come afferma Socrate a 277 E, lo inizieranno all’eristica; in realtà, però, questo dialogo sulla protrettica è strutturalmente e interamente protrettico e, se si legge andando “dietro le quinte” di quella che potremmo definire una gustosa commedia messa in scena da Platone, non solo Socrate, ma anche gli eristi e i loro giochi vengono utilizzati in funzione protrettica, non verso Clinia, certo, ma verso il lettore28.

VI - I due livelli di lettura dell’Eutidemo: eristico e platonico

Le scene eristiche, infatti, dimostrano di poter essere lette “a due profondità”: Eutidemo e Dionisodoro presentano sofismi connessi gli uni agli altri da fili molto esili che possono essere dati anche solo dall’appiglio a una parola. Tramite questi giochi di parole Platone ci presenta, però, una gamma di seri problemi filosofici che, se affrontati seriamente (come i due eristi non fanno), costituiscono un banco di prova per il dialettico.

Sotto il livello eristico dei due fratelli, quindi, è riconoscibile un orizzonte platonico, entro cui i sofismi dei due trovano una via d’uscita (anzi, Platone predispone questa scappatoia nella sua prospettiva) acquistando ben altro valore di verità. Infatti, come afferma Erler, «ciò che risultava come gioco di prestigio eristico è del tutto esatto agli occhi di Platone» e «ciò che sembrava paradossale, all’improvviso dà un significato serio»29.

VII - Il “non scritto” nell’Eutidemo

L’intento protrettico lo si rileva in tutto il dialogo, basti pensare che anche i sofismi degli eristi sono interpretabili come veri e propri esercizi proposti al lettore: Socrate, infatti, risolve solo i primi due e, nel fare questo, dà un’indicazione di massima alla quale chiaramente il lettore può rifarsi: bisogna fare attenzione all’ambiguità dei nomi, perché è proprio su questo terreno sdrucciolevole che sempre giocano Eutidemo e Dionisodoro. Per tutti gli altri sofismi, ad eccezione di qualche significativa indicazione, Platone tace, anche quando sarebbe davvero semplice smascherare i due e Socrate, con le sue obiezioni, sembra essere ad un passo dal farlo. Risulta dunque chiara l’intenzione di Platone: risolvendo i primi due sofismi dà al lettore un paradeigma a cui rifarsi e poi gli impone tutto il lavoro di distinzione di significati e di valori dei nomi, attraverso cui i giochi degli eristi possono essere sciolti.

Dunque, Platone costruisce giochi seri per il lettore che voglia davvero fare filosofia e, se quella alla quale Clinia ha assistito è stata un’iniziazione eristica, l’intero dialogo viene ad essere un’iniziazione all’apprendimento della filosofia, così come lo intende Platone.

Il carattere eminentemente protrettico del dialogo si esplicita, però, in due movenze costanti nell’Eutidemo - faccio riferimento in questo caso a due sottolineature che non posso qui approfondire e alle quali rimando: alla valorizzazione del tema del gioco, con cui Platone qualifica l’attività scritta del filosofo (cfr. Fedro, 277 E - 278 B; Lettera VII, 341 C 6 - D 2), messo in risalto da Migliori, e a quella che Szlezák definisce struttura di soccorso30:

  • 1) la prima movenza consiste, infatti, in una serie di giochi, proposti da Platone, lavorando sui quali si può arrivare ad alcune conclusioni che aprono finestre su argomenti che saranno trattati, con tutt’altra compiutezza, altrove;

  • 2) la struttura di soccorso è, invece, una movenza secondo la quale Platone pone nel dialogo alcune domande o problemi che, all’interno del dialogo non trovano soluzione - restano semplicemente posti - e che, per essere sciolti, hanno bisogno del soccorso di altri dialoghi.

Nell’Eutidemo si riscontrano numerosissimi passaggi nei quali si accenna qualcosa che, per essere pienamente chiarito o trattato, deve far ricorso ad altri dialoghi, andando a costituire un orizzonte di rimandi straordinariamente ampio.

1. Un esempio: l’Eutidemo e il Menone

Ci sono nell’Eutidemo due sofismi in cui troviamo sulle labbra degli eristi considerazioni importanti - e, in un caso, anche “platoniche” - e dietro ai quali si coglie l’orizzonte del Menone.

Nel secondo sofisma (276 D - 277 C)31 si propone un argomento che nel Menone viene definito proprio degli eristi, cioè quello dell’impossibilità di apprendere sia ciò che si sa sia ciò che non si sa:

Capisco che cosa vuoi dire, Menone. Guarda quale argomento eristico (™ristikÕn lÒgon) adduci: che non è possibile per l’uomo ricercare né ciò che sa né ciò che non sa! Infatti, non potrebbe ricercare ciò che sa, perché lo sa già, e rispetto a questo non c’è alcun bisogno di ricerca, né ciò che non sa, infatti, in questo caso, non sa che cosa ricercare (80 E 1-5).

Su questa stessa linea, nell’Eutidemo, l’erista chiede se si apprende ciò che si sa o ciò che non si sa e, con l’aiuto di Dionisodoro, confuta entrambe le possibilità come, del resto, era stato preannunciato a Socrate (275 E).

Schematicamente il sofisma segue questi passaggi:

Clinia sostiene:

- si apprende ciò che non si sa.

EutidEmo replica:

- Clinia conosce le lettere.

- Dato che il ragazzo conosce tutte le lettere e quando il maestro detta lo fa con le lettere,

- detta qualcosa che il ragazzo sa. - Dunque, si apprende ciò che si sa.

dionisodoro interviene:

- Apprendere è acquisire scienza di ciò che si impara.

- Sapere equivale ad avere scienza; non sapere equivale a non avere scienza.

- Si acquista ciò che non si ha, non ciò che già si possiede. Dunque, si apprende (cioè si acquisisce) ciò che non si sa.

Questo sofisma, che nell’Eutidemo intrappola il giovane Clinia, nel Menone trova, invece, una soluzione: infatti viene chiaramente sciolto ricorrendo alla dottrina dell’anamnesi.

Pertanto, dato che l’anima è immortale ed è nata molte volte ed ha visto ogni cosa, sia quelle di qui sia quelle nell’Ade, non c’è niente che essa non abbia appreso, di conseguenza, non c’è da meravigliarsi che possa ricordare, a proposito di virtù e di altre cose, quanto prima sapeva. Poiché, infatti, la natura è congenere e l’anima ha appreso tutto, nulla impedisce che chi si ricordi di una sola cosa - che è poi quello che gli uomini chiamano apprendimento - trovi da sé tutto il resto, se è coraggioso e instancabile nella ricerca, infatti, il ricercare e l’apprendere, nella loro interezza, sono reminiscenza (¢n£mnhsij) (81 C 5 - D 5).

Se apprendere è ricordare, chi apprende apprende qualcosa che in un certo senso conosce (perché la sua anima lo ha conosciuto), ma in un altro senso non conosce (perché lo ha dimenticato e deve riportarlo alla memoria). Il ricordare viene allora ad essere la condizione intermedia tra il conosciuto e il non conosciuto e questa alternativa trova in Platone un tertium che nell’Eutidemo i sofisti escludono con le loro domande disgiuntive e che rende sensato un gioco altrimenti fine a se stesso.

La trappola degli eristi scatta e vince se si rimane chiusi entro le due sole possibilità che essi propongono; infatti Platone aiuta il lettore proprio ostentando la natura binaria del modello proposto dagli eristi, insistendo sulle due alternative e sul due in genere: gli eristi sono due, ma agiscono in perfetta armonia, come se fossero un’unica persona: si passano la parola come fosse una palla (277 B) e colpendo in successione, sconfiggono l’avversario e le loro domande pongono sempre un’alternativa secca. Dunque, tutto il modello costruito dai due eristi è duale e vi si insiste così tanto, perché la trappola più grande sta proprio qui e, in questo modo, Platone suggerisce, implicitamente, che la sua soluzione sta invece nel modello ternario. Infatti, c’è una terza possibilità che il Menone appunto esplicita: è il processo dell’anamnesi a rendere possibile la prospettiva triadica che Platone indica nell’Eutidemo.

Quest’ipotesi può essere confermata dal chiaro riferimento alla dottrina dell’anamnesi al sofisma 10 (295 E) in cui Socrate conduce un discorso sotto a quello di Eutidemo. L’erista dimostra (con un gioco basato sul passaggio dal valore relativo al valore assoluto dei termini) che il suo interlocutore sa tutto e da sempre. Il filosofo, intervenendo con piccole aggiunte alle risposte che sarebbe tenuto a dare, indica la giusta prospettiva del discorso, riportando in campo la dottrina dell’anamnesi.

Con le fastidiose aggiunte che fa al discorso dell’erista, nell’Eutidemo Socrate suggerisce che è l’anima che ha in sé da sempre, anche prima della nascita dell’uomo in cui viene a trovarsi, tutte le conoscenze. L’uomo, quando conosce, non fa che trarre dall’anima, con un processo maieutico attivato da domande, queste verità che ha dimenticato e questo accade per tutto quello che si appresta a conoscere.

Analogamente, il Menone ci dice che lo schiavo interrogato da Socrate deve aver scoperto in un qualche altro tempo quello che ha dimostrato di sapere, un tempo in cui non era uomo e la sua anima deve, allora, sapere da sempre (86 A 5-9).

Inoltre, Platone dimostra che, essendo l’anima immortale e conoscendo da sempre, in un certo senso ha tutte le conoscenze: il processo di conoscenza, infatti, consiste nell’estrarre dall’anima saperi che sono già presenti in essa (81 C 5 - D 6).

Tramite questo gioco interno all’Eutidemo, quindi, Platone comincia a dare qualche indicazione in direzione dell’anamnesi e queste “tracce” riceveranno luce dal Menone che, dunque, si rivela come l’orizzonte entro cui i giochi insensati dei due eristi acquistano senso nella prospettiva platonica e consentono di individuare quel doppio livello eristico-platonico che percorre l’intero dialogo. Tanto più che, su questo punto, i due piani si fanno quasi tangibili: infatti, il discorso di Eutidemo riecheggia quello platonico e Socrate, con le sue aggiunte, lo riporta alla giusta prospettiva.

Egli, infatti, sostiene che si conosce con l’anima. Bisogna notare che, data l’importanza di quest’affermazione (perché è l’anima che consente l’anamnesi), Platone vi insiste due volte: per due volte, infatti, Socrate precisa che lo strumento della conoscenza è l’anima (295 B 3; 295 E 5) e poi precisa che l’anima è l’unico mezzo di conoscenza, perché quando si conosce lo si fa sempre con l’anima e tutto quello che si conosce, lo si sa con l’anima.

Ci si accorge allora di quanto siano preziose quelle che si presentano come semplici precisazioni di Socrate: tali precisazioni sono interpretabili, infatti, come aiuti che Platone offre al lettore, affinché già nell’Eutidemo, giocando il gioco a cui Platone invita, possa cominciare a capire qualcosa dell’anamnesi. In tal modo, inoltre, Platone fa sì che Socrate non dica il falso e non inganna il lettore, ma anzi traccia un sentiero di verità nel gioco eristico. Per Eutidemo, invece, questa dimostrazione non nasconde nessuna dottrina, ma, come tutti gli altri sofismi, si risolve in un semplice gioco di parole32.

Esempi confrontabili, che in questa sede non possiamo approfondire, riguardano lo sfondo metafisico che l’Eutidemo fa intravedere. Infatti, dai pochi tratti che si colgono nell’Eutidemo, è possibile risalire a gran parte dell’orizzonte metafisico platonico, scoprendo cenni alla supremazia della dialettica rispetto a ogni altra scienza, al problematico rapporto tra Idee e cose e, infine, al concetto - fondamentale in Platone - di misura. Certo, data la natura del dialogo che è oggetto della nostra analisi, troviamo in esso solo cenni che verranno sviluppati in dialoghi quali la Repubblica, il Parmenide e il Filebo33.

VIII - Considerazioni conclusive

Alla luce dell’analisi svolta, quindi, credo sia evidente in quale senso l’Eutidemo possa definirsi un dialogo sulla protrettica: l’arte protrettica è la scienza che viene esplicitamente messa a tema e che consente sulla scena un confronto principalmente tra due modelli educativi: eristico e dialettico-socratico e una serie di considerazioni molto importanti riguardanti il tema straordinariamente serio (cfr. 283 C 1-2) dell’educazione dei giovani che rischiano di essere corrotti, pericolo che Platone vuole assolutamente scongiurare.

È altrettanto evidente, però, che ad un secondo livello, l’Eutidemo è un dialogo strutturalmente protrettico: infatti, i motivi che abbiamo elencato sopra sono tutti motivi platonici che fanno da sfondo all’Eutidemo, ma di cui - eccezion fatta per i cenni fatti da Socrate all’anima come strumento di conoscenza e quindi all’anamnesi e alle Idee e da Clinia al ruolo della dialettica - non c’è traccia nell’Eutidemo 34 . Di fatto, cioè, nessuno tratta dell’anamnesi o del rapporto tra Idee e cose, nessuno approfondisce la gerarchia delle scienze, anche perché si tratta di tutte tematiche che, in qualche misura, esulano dall’asse portante della trattazione dell’Eutidemo che, come protrettica alla filosofia, non fa che presentarne i problemi fondamentali e, in questo, è del tutto autosufficiente.

Evidentemente, dunque, in questo dialogo Platone si limita soltanto a presentare, “a mettere sul piatto” tali problemi (che si riserva di riprendere e approfondire in altri dialoghi) e, per di più, in una chiave del tutto distorta com’è quella eristica.

Dall’uso massiccio che si fa del rimando e della movenza della struttura di soccorso, risulta chiaramente che nell’Eutidemo Platone applica e mette in scena, tramite Socrate, questa capacità propria del filosofo, che consiste nel trattenersi dal dire, in funzione protrettica.

Socrate, quindi, non soccorre il discorso, si trattiene dal dire, perché sa di non avere di fronte il pubblico adatto al quale affidare «le cose di maggior valore» (che, in questo contesto, quindi, sono tutti i “ponti” agli altri dialoghi che restano non scritti): nella finzione scenica il filosofo parla con Eutidemo e Dionisodoro, due eristi, che dimostrano di non essere affatto degni di conoscere le grandi dottrine, sottese al dialogo, alle quali abbiamo accennato: non le capirebbero o peggio, le piegherebbero ai loro fini. Gli altri due interlocutori di Socrate sono due ragazzi promettenti, ma ancora troppo giovani: Clinia e Ctesippo.

Uscendo dalla finzione scenica, potremmo pensare che Platone, mentre scrive, abbia in mente il suo pubblico e che questo sia giovane (l’Eutidemo si pone tra gli ultimi dialoghi del primo gruppo), dunque, quello che fa è semplicemente iniziarlo alla filosofia, scrivendo un dialogo protrettico che, proprio per questa sua natura, è straordinariamente pieno di cenni a questioni di grande rilievo per Platone. Infatti, ritrovare cenni che rimandano alla Repubblica, al Sofista, al Parmenide e al Filebo, dialoghi sicuramente tardi, in un dialogo come l’Eutidemo dimostra che è rintracciabile, fin dai primi dialoghi platonici, un pensiero filosofico consolidato e, in certa misura, completo.

È possibile allora pensare ad un Platone già maestro che “dosi” tale pensiero in ogni dialogo per ovviare ai rischi che lo scritto comporta e per quel fine educativo che trova espressione nel Fedro (278 B-D): l’Eutidemo può dirsi dialogo giovanile solo perché scritto per anime giovani, cosa resa evidente dal marcato intento protrettico che si è rilevato. Se ci si sofferma a riflettere sulla straordinaria abbondanza delle questioni alle quali si allude e sulla loro importanza nel quadro della filosofia platonica, si può a buon diritto concludere che Platone, con questa commedia, abbia voluto scrivere una sorta di iniziazione alla sua filosofia.

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1Gli studi relativi a questo dialogo,infatti, non mancano di sottolineare come quest’opera sia stata sottovalutata e trascurata. La Sprague (The Euthydemus revisited, in The Euthydemus revisited, in Plato: Euthydemus, Lysis, Charmides. Proceedings of the V Symposium platonicum, edited by T. M. Robinson e L. Brisson, Academia Verlag, Sankt Augustin 2000, pp. 3-19), riprendendo un’espressione di Skemp riguardante il Politico, parla di un dialogo “raro”, perché poco tradotto, ma soprattutto, perché sembra occupi un piccolo spazio nella discussione dei temi platonici. Scolnicov (Plato’s Euthydemus. A study on the relations between logic and education, «Scripta classica israelica» 6 (1981-1982), pp. 19-29, p. 19) lo definisce un «dialogo sfortunato». La Canto (L’intrigue philosophique. Essai sur l’Euthydème de Platon, Les Belles Lettres, Paris 1987, pp. 81-82) vede la ragione di questa trascuratezza nel fatto che qui si pongono problemi cruciali per il pensiero platonico, ma poi l’assenza di progressione e una certa inconsistenza dottrinale danno l’impressione che alle domande non si dia risposta. Narcy (Le philosophe et son double. Un commentaire de l’Euthydème de Platon, Librarie philosophique, J. Vrin, Paris 1984, p. 59) lo definisce un «dialogo atipico» che sembra non essere utile per conoscere Platone. Erler (I dialoghi aporetici di Platone alla luce del nuovo paradigma ermeneutica, in Lezioni verso una nuova immagine di Platone, traduzione italiana di C. Mazzarelli, volume 3, Istituto Suor Orsola Benincasa, Napoli 1991, p. 12) riconosce che l’Eutidemo, come, del resto, tutti i dialoghi aporetici, «hanno avuto un’importanza molto minore rispetto ad altri dialoghi, anzi, talora, sono passati sullo sfondo dell’interesse».

2Sul concetto di “gioco” in Platone e sulla proposta ermeneutica della scuola di Tubinga-Milano, cfr. M. Migliori, Come scrive Platone. Esempi di una scrittura a carattere “protrettico”, «Annali della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata», 37 (2004), pp. 249-277; T. A. Szlezák, Platon und Schriftlichkeit der Philosophie. Interpretation zu den frühen und mittleren Dialogen, De Gruyter, Berlin, 1985; introduzione e traduzione italiana di G. Reale: Platone e la scrittura della filosofia. Analisi di struttura dei dialoghi della giovinezza e della maturità alla luce di un nuovo paradigma ermeneutico, Vita e Pensiero, Milano 1988, 19892; T. A. Szlezák, Come leggere Platone, traduzione dal tedesco di Nicoletta Scotti, Rusconi, Milano 1991; M. Migliori, Il Disordine ordinato. La filosofia dialettica di Platone. Volume I. Dialettica, metafisica e cosmologia. Volume II. Dall’anima alla prassi etica e politica, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 73-102.

3Seguo qui una tecnica regolarmente utilizzata da Migliori, che l’ha a sua volta tratta da una riflessione di Szlezák (Leggere…, pp. 126-127). Il centro tematico dell’opera consiste nell’attenzione agli strumenti linguistici e logici messi in luce dall’eristica; il problema più importante è il confronto tra dialettica e eristica e l’indicazione della dialettica come filosofia che usa bene gli strumenti dell’eristica, vista come una techne che invece, non sa far uso dei suoi, pur meravigliosi, discorsi.

4Oltre alla struttura, questo dramma comico è corredato anche di un coro e di un corifeo: il coro è costituito dai discepoli dei due eristi e dal corteggio di Clinia, che, a 274 C, prima che cominci la dimostrazione eristica, si dispone in cerchio intorno ai protagonisti della discussione. Platone stesso definisce un coro i discepoli di Eutidemo e Dionisodoro, quando essi applaudono alla prima vittoria dei due (276 B). Il corifeo è Ctesippo che all’inizio della seconda scena eristica, interviene all’improvviso e, da quel momento, prende parte alla discussione. La commedia non la si vede, però, solo nella forma, ma anche nei contenuti dell’Eutidemo. Forte, infatti, e costante è il senso del ridicolo e tante sono le possibili scene da commedia: Socrate, nel prologo, accenna al suo essere un vecchio allievo di Conno, il quale per questo viene preso in giro e chiamato «maestro dei vecchi» (272 C 1-5); il suo desiderio è di farsi allievo anche dei due eristi. Critone teme che Socrate sia troppo vecchio per “tornare sui banchi di scuola”, questa è una scena che fa sorridere. Eutidemo e Dionisodoro risultano ridicoli in molte occasioni e soprattutto nelle loro testarde dimostrazioni che vanno contro ogni evidenza: quando, per esempio, dichiarano che il loro padre è padre di tutti, anche degli animali (298 C - D) o di saper far tutto perfino ballare, fare salti mortali sulle spade o girare sulle ruote alla loro età, come sottolinea Socrate (294 E).

5Su questa stessa linea si pone Erler (Der Sinn der Aporien in den Dialogen Platons, Übungsstücke zur Anleitung im philosophischen Denken, Berlin - New York 1987; traduzione italiana di C. Mazzarelli: Il senso delle aporie nei dialoghi di Platone. Esercizi di avviamento al pensiero filosofico, Vita e Pensiero, Milano 1991, p. 344) quando si chiede se il segno divino intervenga per indicare che «in ogni gioco di prestigio degli eristi vengono messi in discussione dei problemi che meritano una seria considerazione».

6Hawtrey (Commentary on Plato’s Euthydemus, American Philosophical Society, Philadelphia 1981, p. 49) rileva ironia in questo passaggio, ma non credo sia così. Socrate qui attribuisce specifici saperi ad Eutidemo e Dionisodoro, saperi che i due hanno dimostrato di conoscere e di saper insegnare, ai quali è legata la loro fama. Egli sta semplicemente dicendo ciò che sa di loro e lo fa anche con rispetto.

7La prima diairesi del Sofista, infatti, definisce il sofista come un cacciatore di giovani ricchi che afferma di farlo per virtù, ma mira al denaro (221 C - 223 B).

8«Infatti essi stessi, per così dire, hanno incominciato quando erano vecchi a dedicarsi a questa sapienza che io desidero, l’eristica (tÁj ™ristikÁj)» (272 B 10).

9Hawtrey (Commentary…, p. 51) appoggia questa ipotesi e nota che la parola ¢ret» appare in questo passaggio per la prima volta nel dialogo ed è posta in una posizione enfatica, ad apertura di frase.

10Méridier (Platon, Oeuvres Complètes, tome V, 1° parte, texte établi et traduit par Louis Méridier, Les Belles Lettres, Paris 1931, 19897, p. 149) traduce filosof…an con «filosofia», ma avverte in nota che tanto questa parola, quanto il verbo filosofe‹n, di poco successivo (275 A 5), sono da intendersi nel loro senso etimologico: amare, ricercare la saggezza; di questo stesso parere è la Canto (Intrigue…, p. 23). Traducendo così si toglie il valore tecnico all’espressione, ma resta inalterato l’effetto dell’introduzione, come cosa scontata, della sof…a affiancata alla virtù. Si comincia a tracciare, quindi, un legame tra sapienza e virtù.

11P. Bicknell (Alkibiades and Kleinias; a study in athenian genealogy, «Museum philologum londiniense», 1 (1975), pp. 51-64) ricostruisce l’albero genealogico della famiglia dei Salaminioi, cioè la famiglia di Clinia e Alcibiade.

12Queste parole trovano piena dimostrazione in Ctesippo che, dalla seconda scena eristica, comincia a discutere con i due fratelli e, per confutarli, fa il loro stesso gioco e di fatto li imita acquisendo di sofisma in sofisma i diversi meccanismi dell’eristica, per arrivare addirittura a vincere i due eristi, mettendoli a tacere, nella terza scena eristica. Alla fine del dialogo con i due eristi, Socrate sottolinea che la preparazione di Ctesippo è ormai completa, riconoscendo che egli ha ormai appreso le finezze eristiche (300 D 7-9).

13La Sprague (Plato’s…, p. 3) definisce questo alternarsi delle scene, un mezzo scenico, appunto, per rendere il contrasto tra dialettica ed eristica.

14Szlezák, Leggere…, p. 77.

15Cfr. V. Meattini, Anamnesi e conoscenza in Platone, ETS, Pisa 1981, p. 82. A questo proposito l’autore aggiunge: «Sull’argomento, che dovette essere uno dei suoi crucci, non per niente noi abbiamo un Eutidemo e, di contro la figura di Socrate, ricercatore esemplare, Platone ritornò, con la stessa volontà di denuncia nel Sofista e nel Filebo».

16Proprio così si descrive, nel Sofista, l’elenchos socratico che è funzionale a mettere alla prova le opinioni degli interlocutori (230 B 4-8).

17Cfr. R. Weiss, When Winning is Everything: Socratic Elenchus and Euthydemian Eristic, in Plato: Euthydemus, Lysis, Charmides. Proceedings of the V Symposium platonicum, edited by T. M. Robinson e L. Brisson, Academia Verlag, Sankt Augustin 2000, pp. 68-75.

18A questo proposito Meattini (Anamnesi…, p. 65) scrive: «il recupero della disposizione alla ricerca è il risultato della confutazione, la quale è dunque, momento costitutivo dell’esercizio dialettico».

19Questa maggior sicurezza di Clinia con Socrate è attribuita da Méridier (Platon, Oeuvres..., p. 119) alla diversità del metodo di Socrate rispetto a quello dei sofisti. Anche Hawtrey (Commentary , p. 92) è propenso ad interpretare la sicura e spontanea risposta di Clinia come una prova del successo del discorso protrettico di Socrate. Il filosofo è riuscito a convincerlo, dunque, che deve perseguire la sophia e la virtù e che esse siano insegnabili, come aveva chiesto di fare ai sofisti.

20Szlezák (Platone , pp. 111-112) legge come ironica l’affermazione finale dell’Eutidemo - nella quale Socrate consiglia a Critone di considerare la cosa in se stessa, a prescindere da coloro che se ne dicono maestri - perché vede una contraddizione tra la conclusione socratica e il suo atteggiamento nei confronti degli eristi: egli insiste a voler diventare loro allievo, quindi non sembra indifferente ai maestri. Sullo sfondo delineato dalla Lettera VII, l’affermazione che conti la cosa in sé non viene toccata, dal momento che Socrate si rivolge ai due solo perché li ha scoperti come negativo del filosofo così come la loro arte ed è questa (non chi la insegna) che a lui interessa, per fare un primo passo verso la filosofia.

21L’interpretazione che vede nelle parole dell’Anonimo una critica alla filosofia in genere, e quindi anche a Socrate, è diffusa: Méridier (Platon, Oeuvres , p. 138) ricostruisce sommariamente i rapporti tra Isocrate (personaggio che egli pensa sia “nascosto” dietro la maschera dell’anonimo retore) e Platone arrivando a concludere che Isocrate avrebbe considerato allo stesso modo Platone e gli eristi e Platone nell’Eutidemo mostrerebbe la differenza che corre tra lui e gli eristi; Szlezák (Platone , p. 112) sostiene che l’Anonimo accomuna Socrate agli eristi nel suo giudizio e lo considera, quindi, uno che dedica un impegno senza valore a cose di nessun valore; così anche Shorey (Plato , p. 168) il quale parla, a questo proposito, di un «invidiosa identificazione [da parte dell’Anonimo] della filosofia e della dialettica (platoniche) con l’eristica dei sofisti». Erler (Senso, p. 403) accomuna l’Anonimo a Critone nell’incapacità di distinguere ciò che è proprio di Socrate ed è quindi filosofia, da ciò che è eristico; Chance (Plato’s , p. 202) sostiene che l’Anonimo condanni la filosofia in genere e non distingua qualitativamente i filosofi. La critica che questo personaggio conduce rivolto a Critone, però, a me non sembra indirizzata alla filosofia in genere né a Socrate, ma al tipo di filosofia, se così si può definire, di cui i due eristi hanno dato dimostrazione e, riguardo a questa, egli dice cose vere. In prima battuta afferma di aver ascoltato uomini che sono considerati i più sapienti in tali ragionamenti e poi li definisce «chiacchieroni che si danno da fare in modo indegno su cose di nessun valore» (304 E 4-5). Socrate non è chiaramente compreso in questo giudizio, perché immediatamente dopo l’Anonimo dice che assurda gli parve l’intenzione di Socrate di affidarsi a Eutidemo e Dionisodoro, quindi deve essere consapevole della differenza che corre tra questi personaggi: non è normale ai suoi occhi che uno come Socrate parli con gente come i due eristi. A ben vedere, chi confonde la filosofia con l’eristica, parlando in modo generico e superficiale di filosofia, è Critone che interpreta la critica dell’oratore come se fosse diretta anche al suo amico e tenta una generosa, quanto impropria, difesa: «la filosofia (filosof a) è qualcosa di bello» (304 E 6 -7). Critone è il primo ad introdurre in questo contesto il termine filosofia, fin ad ora l’Anonimo non ha mai definito così quello a cui ha assistito ed è solo rispondendo all’amico di Socrate e, dunque, sulla scia della sua affermazione, che dice: «...piuttosto di nessun valore» (304 E 8). È chiaro, però, che egli pensi alla dimostrazione filosofica alla quale ha appena assistito e che ha visto tra i protagonisti i due eristi i quali, appunto, come poi si sofferma a precisare, si attaccavano ad ogni parola, senza dar nessun peso a quello che effettivamente dicevano. Per sottolineare che sta parlando degli stessi che ha definito chiacchieroni ribadisce che sono considerati i migliori del loro tempo, ma sono solo ridicoli. A me non sembra plausibile che in questo giudizio egli possa comprendere anche Socrate, a meno di non voler dare un falso giudizio. Socrate, infatti, non ha parlato di cose di poco conto, non si è attaccato alle parole e, anche se alla fine è stato apparentemente vinto dai sofisti, mai è caduto nel ridicolo. Perfettamente vero, invece, appare questo giudizio se applicato esclusivamente a Eutidemo e Dionisodoro che si attaccano effettivamente alle parole, sono del tutto indifferenti al significato di ciò che dicono e nelle loro promesse di saper fare tutto anche i salti mortali (294 E 3- 5) o nel garantire che il loro padre è anche padre degli animali (298 C 8 - D 1) si sono resi ridicoli. L’effettiva critica mossa a Socrate dal logografo è di diversa natura e riguarda esclusivamente il fatto che egli si sia affidato ai due eristi, abbia parlato con loro pubblicamente; questo crea in lui meraviglia e un senso di vergogna che, a suo parere, Critone dovrebbe condividere e, infatti, è così. Critone e l’Anonimo si trovano vicini nel rimproverare a Socrate la volontà di discutere in pubblico con due individui come Eutidemo e Dionisodoro.

22Méridier (Platon, Oeuvres , pp. 133-138), analizzando quanto dice Platone di questo personaggio tramite Critone e Socrate e confrontando questo con alcuni passi di Isocrate, conclude che il ritratto è applicabile a Isocrate, ma questo non prova che l’Anonimo sia Isocrate, anche se resta l’identificazione più probabile. Si dice comunque sicuro che Platone si riferisca ad un preciso individuo. Rudberg (Isokrates und Platon, «Symbolae Osloenses», 2 (1924), pp. 1-24, p. 7) sostiene che l’Anonimo debba essere Isocrate, perché ha molti tratti in comune con il retore. Egli rileva, però, che questo personaggio non sembra avere caratteri molto personali, il che lo conduce a ipotizzare che rappresenti un tipo, più che una persona definita, anche se a lui sembra chiaro che Platone mirasse comunque a Isocrate. Una posizione in parte confrontabile a questa è quella della Canto (Intrigue..., p. 197) la quale sostiene che ci sono indizi per identificare il personaggio: egli è un retore che non ha mai pronunciato discorsi in pubblico (questa sarebbe anche la causa del suo silenzio nel dialogo a cui assiste) e i suoi giudizi di valore, che Critone riferisce a Socrate, sarebbero noti. Socrate, però, pur riconoscendolo, lo lascerebbe anonimo, perché la sua analisi e il suo giudizio siano resi tipici. Di un individuo, dunque, di cui, comunque, la Canto non propone un nome, Socrate farebbe un tipo. Hawtrey (Commentary..., p. 190) vi riconosce Isocrate; così anche Heitsch (Der Anonymos in “Euthydem”, «Hermes» 128 (2000), pp. 392-404, pp. 401-402) il quale sostiene che, mettendo a confronto quanto Platone dice sull’Anonimo e quanto è noto su Isocrate, al lettore l’identità dell’Anonimo risulta chiara. Così anche Shorey (What Plato said, Chicago 1933, reprint 1980, pp. 167-168 ) che afferma: «Il critico anonimo è sicuramente Isocrate, o un discepolo di Isocrate, anche se Platone, non facendo il suo nome, si lascia la libertà, come un moderno romanziere, di rinnegare qualsiasi intenzione personale». Questa posizione si colloca, dunque, nel contesto del presunto rapporto conflittuale tra Isocrate e Platone. Tulli (Sul rapporto di Platone con Isocrate: profezia e lode di un lungo impegno letterario, «Athenaeum», 78 (1990), pp. 403-422), invece, nel quadro di un riuscito tentativo di dimostrare che se si analizzano i testi di Isocrate e Platone non si trovano prove di una reale contesa o inimicizia tra i due, scrive: «Non persuade comunque lo sforzo di vedere Isocrate nell’anonimo interlocutore dell’Eutidemo». A mio parere, invece, l’identificazione è pienamente convincente e, inoltre essa non inficia, ma anzi rafforza, la tesi secondo la quale non è possibile provare, sulla base dei testi, la presenza di una contesa tra i due. Questo anonimo personaggio, infatti, alla fine dell’Eutidemo, viene lodato con parole esatte e sincere; dunque, se si tratta di Isocrate, dobbiamo registrare in questo dialogo un elogio che precede quello del Fedro. Chance (Plato’s…, p. 200) e la Sprague (Plato’s Use of Fallacy, Londra 1962, p. 31) ridimensionano il problema, sostenendo che non sia fondamentale sapere chi sia questo personaggio per comprendere il senso del dialogo. A mio parere, invece, non si tratta di una questione secondaria, perché è evidente il tentativo di Platone di far identificare questo sconosciuto, pur se non ne dice il nome, e questo significa che per lui doveva avere una certa importanza. C’è poi l’ultima affermazione di Socrate riguardante l’Anonimo che si spiega solo se si sta parlando di Isocrate.

23Cfr. Hawtrey, Commentary…, p. 190.

24Platone, dice che l’Anonimo si occupa misuratamente di politica e troviamo rispondenza di questo in un testo di Isocrate: «…ma lasciai da parte tutti questi [discorsi di argomento mitico, storico - celebrativo e forense] per dedicarmi ai discorsi che danno consigli sui veri interessi della nostra città e degli Elleni» (Panatenaico 2; Per tutte le citazioni dalle opere di Isocrate si utilizza la traduzione di M. Marzi, Opere di Isocrate, Unione Tipografico - Editrice Torinese, Torino, 1991). Nell’orazione Lo scambio degli averi (2-3) Isocrate afferma che «taluni sofisti» lo calunniano sostenendo che ha a che fare con discorsi forensi, ma egli, invece, ha scelto di scrivere non di contratti privati, ma di argomenti di tale portata e di tale natura che nessun altro oserebbe affrontare eccetto i suoi discepoli e chi li vuole imitare. Ancora, al paragrafo 42: «…non sono abile nel comporre discorsi relativi agli interessi privati». Socrate, dopo aver capito con chi ha a che fare, dice che Prodico considera tali uomini a metà strada tra il filosofo e il politico. Si ritengono molto sapienti e a buon diritto, perché si occupano misuratamente di filosofia e politica «secondo un ragionamento davvero verosimile» e credono di partecipare di entrambi quanto conviene ed «essendo al riparo da pericoli e lotte, di cogliere i frutti della sapienza». Le tematiche che Isocrate ha l’orgoglio di aver scelto e che lo distinguono dagli oratori, confermano, dunque, un altro punto importante nel ritratto di Platone, cioè il suo interesse per la politica, un interesse misurato, dice Platone, che non corre rischi; forse perché la politica di Isocrate resta, comunque, legata alla retorica, i suoi sono discorsi, non c’è un’attività diretta, un’esposizione personale da parte sua. Inoltre, i suoi discorsi politici toccano grandi temi, non discutono, per esempio, della disputa elettorale, non toccano, dunque, la contingente e rischiosa realtà ateniese. Il misurato interesse per la filosofia è giustificato dal fatto che la dottrina educativa di Isocrate, poneva tra le conoscenze di un retore, la filosofia che, però, interessava solo nella misura in cui forniva all’oratore una cultura generale e dei temi da sviluppare. Era quindi considerata come una disciplina di natura soltanto propedeutica all’apprendimento dell’arte oratoria. Infatti, ne Lo scambio degli averi (paragrafi 46-47), egli scrive che ci sono alcuni oratori, tra i quali è anche lui, che si dedicano ai discorsi panellenici, politici, panegirici e hanno molti discepoli, i quali pensano che essi siano «più abili, più virtuosi, più utili di coloro che parlano bene nei processi», perché traggono la capacità oratoria dalla filosofia.

25«Io sono nato così sprovvisto delle due qualità che hanno presso di noi la massima importanza, una voce robusta e l’ardire che, pur di non rinunciare alla gloria mi rifugiai nella filosofia, nel lavoro, nello scrivere il frutto delle mie riflessioni, facendo cadere la mia scelta non su argomenti di poco conto o concernenti interessi privati o su cui certi altri ciarlano a vuoto, ma su temi riguardanti gli Elleni, i re, la nostra patria: grazie ad essi pensavo di dover godere una considerazione tanto superiore a quella degli oratori che salgono alla tribuna (Panatenaico, 10-11); me, invece, nessuno mi ha mai visto nei consigli o presente alle istruttorie o nei paraggi dei tribunali o presso gli arbitri, anzi me ne tengo lontano più di ogni altro cittadino» (Panatenaico, 38).

26Anche Kahn (Plato and the Socratic dialogue. The philosophical use of a literary form, Cambridge University Press, Cambridge 1996, 19993, traduzione italiana di L. Palpacelli: Platone e il dialogo socratico. L’uso filosofico di una forma letteraria, Introduzione di M. Migliori, Vita e Pensiero, Milano 2007, p. 317) ritiene che l’inserimento di Isocrate sia funzionale a completare un «quadro educativo» dell’Atene contemporanea.

27Hösle (Platons ‘Protreptikos’. Gesprächsgeschehen und Gesprächsgegenstand in Platons Euthydemos, «Rheinisches Museum fur Philologie», 147 (2004), pp. 247-275, p. 261) ritiene, invece, che Isocrate sia rappresentato come inferiore rispetto agli eristi, perché non si mostrerebbe all’altezza delle loro sottigliezze teoriche e sarebbe peggiore rispetto ad essi, perché presume di sé credendosi appunto primo invece che terzo. Questo giudizio rientra in un quadro che legge nelle parole platoniche una critica a Isocrate, critica che poi riceverebbe una «ritrattazione aritistica» nel Fedro. Su questa scia anche Scolnicov (Euthydemus. Ethics and language, Academia Verlag, Sankt Augustin 2013, p, 24) afferma ripetutamente che l’intento platonico, nel presentare l’anonimo personaggio, sarebbe quello di unificare nello stesso giudizio eristica e retorica, come assertrici del discorso decontestualizzato, di contro al modello socratico-platonico che è, invece, legato al contesto. È chiaro che non vedendo alcuna condanna nelle parole di Platone, è, a mio giudizio, del tutto improbabile che egli voglia rappresentare Isocrate come peggiore rispetto agli eristi stessi, tanto più che il testo sembra andare in direzione contraria, come si è cercato di dimostrare.

28«Platone, proprio perché socraticamente convinto che la filosofia è lavoro comune e scoperta, dà luogo ad un insegnamento che sempre, ma soprattutto nella forma scritta, avvicina al vero senza rivelarlo, comunica informazioni vere che non sono tout court la verità, ma che richiedono l’elaborazione e lo sviluppo autonomo da parte del lettore sulla base delle poche indicazioni strettamente necessarie» (Migliori, Disordine..., p. 83).

29Erler, Senso..., p. 356.

30M. Migliori, Scrive..., pp. 249-277; Migliori, Disordine..., pp. 73-102Szlezák, Platone...; Szlezák, Leggere...

31Non posso in questa sede giustificare questa numerazione dei sofismi; da un’analisi complessiva del dialogo, per la quale mi permetto di rimandare a L. Palpacelli, L’Eutidemo di Platone. Una commedia straordinanriamente seria, Vita e Pensiero, Milano 2009, i sofismi di Eutidemo e Dionisodoro risultano ventuno.

32Dunque, non è corretto dire che la dottrina dell’anamnesi sia in bocca ad Eutidemo, come afferma Chance (Plato’s Euthydemus. Analysis of What Is and Is Not Philosophy, University California Press, 1992, p. 154). L’erista apparentemente si avvicina alle posizioni platoniche, tanto da ricordare la dottrina dell’anamnesi, ma, in realtà, percorre tutta un’altra strada, perché esclude addirittura l’anima, rifiutando per due volte la precisazione di Socrate, secondo cui lo strumento della conoscenza è l’anima (295 B; 295 E).

33Per approfondire questo punto cfr. L. Palpacelli, Eutidemo..., pp. 278-294. 34 Szlezák, Platone…, pp. 101-120.

Received: March 20, 2017; Accepted: May 17, 2017

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