Collocare un punto preciso nella storia che accolga un significato importante per la sua singolarità, è un’operazione che contiene sempre qualcosa di arbitrario. L’azzardo del rintracciare una nobile discontinuità laddove potrebbe trattarsi di un episodio pienamente strutturato nel continuum degli eventi e nella sua atmosfera, è un rischio che si corre ogni qualvolta si voglia ipotizzare di rilevare una crucialità che interviene nella storia del pensiero.
È in questo senso che risulta quantomeno problematico scandire ciò che di un determinato periodo storico risulta portatore di senso per l’oltrepassamento in quello successivo. L’Umanesimo, che non si sottrae a tutto ciò, non può allora esser ridotto ai suoi attori principali, poiché ciò comprometterebbe la visione di insieme che occorre mantenere in una valutazione complessiva dei panorami storico-culturali. Ma non si può neppure d’altra parte seguire un procedimento elencativo, poiché lo spettro che ne risulterebbe sarebbe troppo composito per poter essere riscritto in unità.
Occorre allora l’impiego di un setaccio che provi ad isolare gli elementi di maggiore consistenza, non per tenerli come precipitato da accumulare per la risoluzione di un concetto compiuto, ma per individuare i punti in cui la crisi raggiunge il suo culmine, incarnandosi in singolarità d’eccezione. È il succedersi di queste esperienze che compone la relazione che costituisce un’atmosfera produttiva in senso critico, e che offre alla storiografia la necessità dell’isolamento attraverso un nuovo appellativo.
Ciò che in questo luogo è di interesse, non è però caratterizzare compiutamente il fenomeno dell’Umanesimo e il quadro storico di riferimento del Rinascimento, quanto piuttosto, come già accennato, evidenziare l’apporto di coloro che all’interno di questo ambito maggiormente hanno contribuito al tramonto di quella tradizione scolastico-aristotelica che da lungo tempo aveva inchiodato il pensiero filosofico sul tavolo dell’origine.
Se non si vuole parlare di salto, a giusta ragione, non si può però neppure ignorare quel che dalla tradizione è sortito verso il nuovo: e in effetti l’impianto scolastico non fu demolito in un sola volta, ma il colpo di genio fu proprio quello di iniziare dalle sue fondamenta, la logica; e sebbene, almeno inizialmente, ciò non fu fatto nella piena consapevolezza dei potenziali effetti, è in questa tematica che va individuato il primo cedimento della statica medioevale: «Il Callot deve constatare, senza capirne la ragione, questa funzione positiva dell’umanesimo; ma la ragione è chiara a chi abbia mente a comprendere, e va ricercata in una “educazione” e nella conquista di un metodo di una logica»1.
È secondo questa modalità che nel 1439 compaiono le Disputaiones Dialecticae2 di Lorenzo Valla, il cui intento era ben lontano dal voler rivoluzionare la logica aristotelica; il suo obbiettivo si rivolgeva difatti meramente alla semplificazione di quest’ultima innovandola di concretezza e funzionalizzandola, oltre che alla dimostrazione, anche alla persuasione.
L’opera di Lorenzo Valla ha tra i suoi propositi più rilevanti quello di applicare alla logica aristotelica una forte rielaborazione in direzione esemplificativa: non si tratta di una rivoluzione, piuttosto di una chiarificazione che si muove verso una finalità risolutiva di problemi concreti. Per Valla la logica assume una strumentalità produttiva, in antitesi all’astrattezza scolastica. I maestri delle scuole, difatti, avevano riempito la sillogistica di mille artifici, astuzie che alimentavano una capacità dimostrativa cavillosa e ricorsiva.
Non è secondaria tuttavia lo spirito di recupero dell’antico cui Valla partecipa in seno all’Umanesimo, una sorta di riconquista della tradizione, ricondotta alla sua verità e spogliata delle vesti di cui il pensiero medioevale era responsabile e che ne aveva snaturato strumentalmente l’autenticità: «Se di distacco si può e si deve parlare, tra la prospettiva medioevale e quella umanistica, essa va ricercata nella coscienza […] che tale antichità vada riconquistata, nel suo più genuino significato, oltre e di contro il modo in cui il Medioevo l’aveva intesa e usata, liberandola dalle incrostazioni “gotiche”, in altri termini intendendola per ciò che effettivamente era stata, in ciò che di diverso dal mondo medioevale essa aveva significato per la cultura umana. È col Valla che questa esigenza esce trionfalmente dalle mere affermazioni programmatiche e incomincia ad elaborarsi come una consapevole metodologia»3.
In Valla si compie quella ritrovata unione tra pensiero e linguaggio, che determina un ripensamento del ruolo che tale rapporto assume nella conoscenza: «Il Valla non è un puro filologo o un puro grammatista. La filologia con lui assume un atteggiamento filosofico […]. La filologia, difatti, col Valla diventa la filosofia del linguaggio la quale appare per la prima volta come la più affascinante e più seria manifestazione della spiritualità umana»4. In tal senso, la sua stringente ricerca alla semplicità e alla chiarezza non è una pura velleità retorica, ma piuttosto si inquadra in un preciso tentativo di ridare forza al linguaggio, di riassettare la sua pertinenza di sistema formale in relazione al reale come pensabile: «Se rileggiamo la Dialettica come le Eleganze noi troviamo costantemente lo stesso tema. Oltre le discussioni logiche tradizionali il Valla vuole afferrare il senso preciso primitivo delle espressioni; ridiscendendo alla valutazione originaria della parola egli intende determinare la portata, l’intenzionalità, ripenetrando alle sorgenti del pensiero che vi si incarna. Di qui tutta la sua violenta critica d’Aristotele, di Boezio, ti tutta la barbarie medievale; di qui la sua indagine linguistica, grammaticale»5.
L’enigmistica della sillogistica medievale deve trovare ritraduzione in un dispositivo ridotto nel suo meccanismo, nonché nel suo sistema di principî; testimonianza di quanto poco formale sia stata la sua proposta di critica retorica, è lo svolgimento della questione della riduzione delle categorie e dei trascendenti, nell’ambito del progetto si semplificazione della logica aristotelica: «Per capire il significato delle parole bisogna definirle e, nel processo definitorio, si arriva a certi elementi che sono i principî ai quali appunto si riferisce il senso di tutti i vocaboli. Tali principî sono o categorie (predicamenti) o trascendenti. Dieci sono le categorie e sei i trascendenti; dall’esame dei quali (ens, aliquid, res, unum, verum,bonum) si rileva come ens significhi “ea res quae est”; aliquid, “aliqua res”; unum, “una res”; verum, “vera res”; bonum, “bona res”. Solo la res è dunque vero trascendente perché essa è la parola che ha il significato più esteso e che quindi non vien determinata dagli altri vocaboli. “Ens”, “aliquid”, “unum”, “verum”, “bonum”, soltanto fittiziamente ed erroneamente si assumono a designare trascendenti e, d’altra parte, altrettanto erroneamente e fittiziamente si assumono a indicare le realtà categoriali la “quantitas”, la “relatio”, l’”ubi”, il “quando”, il “situs”, l’”habitus”, la “passio”. Delle dieci categorie aristoteliche, solo tre sono reali: la sostanza (o essenza), la qualità, l’azione; le altre non sono che complicazioni vischiose che servono sol a rendere più arduo il problema della scienza»6.
L’approdo del motivo valliano non è semplicemente una riformulazione superficiale: l’individuazione della res come unico e vero trascendente aprirebbe uno spazio a delle riflessioni non prive di interesse; così come la risoluzione dei dieci predicamenti aristotelici nei soli tre della substantia, della qualitas e della actio, gli unici in grado di esprimere un realismo autentico, è espressione della profondità dell’approccio valliano: «Quando si esamina il vero significato di concetti come “Ens”, “Aliquid”, “Unum”, “Verum”, “Bonum”, risulta infatti ben chiaro che essi sono altrettante definizioni particolari del concetto di “Res”, l’unico veramente semplice e trascendente. Prima di tutto, cos’altro indica il termine “ens” se non la cosa stessa che è (ea rest quae est) espressa nella forma participiale che riceve il suo senso dal verbo e dal relativo che l’accompagna? […] anche il vocabolo “ens” si risolverà in “id quod est”, e poiché “id” a sua volta significa, né più né meno, “ea res”, ecco che “ens” si risolverà in “ea res quae est” o semplicemente in “res”7.
Il passaggio dalla dimensione linguistica alla dimensione filosofica è qui chiaramente esplicitato: «Ens suapte natura participium est omnisque generis, quod cum transit in nomen est tantum neutrum»8; inscrivere la questione del concetto di “ens” all’interno e secondo un dinamica derivativa del concetto di “res” non può non suggerire una dilatazione extra-retorica della tematica valliana che, almeno in linea di principio, potrebbe essere responsabile di un riverbero poi giunto persino all’orecchio di Descartes.
L’analisi di Vasoli mostra puntualmente lo svolgimento del discorso valliano il quale rovescia la scolastica e tradizionale centralità del trascendente “Unum” verso la sua iscrizione nello spazio della “res”: «All’obiezione che l’”Unum” non è numero, bensì il fondamento ed il principio del numero, il Valla potrà obiettare facilmente che anche i “principi” sono parte delle cose e quindi anch’essi delle “res”»9.
Solo un’analisi squisitamente linguistica poteva sottolineare la dimensione grammatica della predicazione e dell’aggettivazione delle parole e il loro corretto spazio semantico; ma d’altro canto solo un filosofo poteva intravedere le conseguenze di un tale passaggio argomentativo, che individua nella “res” il termine risolutivo più pertinente, dal punto di vista logico, alla realtà. In questo senso, trova anche continuità la sua critica al sillogismo, appunto per la sua accusa di mancanza di “realismo”, per cui la coerenza di un discorso è valutata unicamente nella verifica della sua consistenza interna. Critica che trova anche qui una soluzione semplificata, nei termini di una riduzione sostanziale dei modi sillogistici aristotelici, da diciannove a solo otto modi.
In più non può passare inosservato il movimento valliano per quanto concerne i predicamenti: l’utilizzo di “essentia” nella definizione delle cose non tiene conto, secondo Valla, da un lato della imprecisa identità logica tra “esse” e “essentia” e dall’altro della problematica enunciazione di una pura sostanza: «Come già prima, nell’esame dei “trascendenti”, è dunque ancora nella “res” che conduce anche il concetto di “essentia”»10. Come potrebbe qui non rilevarsi uno spirito che si spende nel tentativo di condurre la logica al di fuori della cappa metafisica, e che al medesimo tempo suggerisce un nuovo impiego e una ritraduzione dei concetti filosofici della tradizione.
Come mostra chiaramente il Gaeta, il ripensamento del Valla della logica aristotelica passa quindi per il ripensamento della sua base ontologica: la revisione valliana tuttavia non deve essere interpretata come uno stravolgimento integrale che apporta novità rilevanti nella storia della metafisica o della logica. Il suo tentativo va più nell’ordine di un atteggiamento dialetticamente esemplificativo, e teso alla riappropriazione degli strumenti della logica tradizionale, sofisticati dalle contaminazioni scolastiche e occamistiche. Se il suo posto nella storia della logica non ha un peso in sé stesso rilevante, tuttavia l’influenza delle sue opere per quanto riguarda le questioni da lui poste, ha attraversato numerosi pensatori ed ha senz’altro contribuito alla ritematizzazione delle tecniche formali del discorso e del loro impiego in campo scientifico. Inoltre il suo procedimento, per così dire storico-semantico, tende più a ritrovare nella purezza della significatio originaria la chiave di uscita dalle mistificazioni scolastiche, più che a voler rinnovare integralmente la terminologia tradizionale. Le Dialecticae Disputationes hanno come principio l’esatta definizione di ogni vocabolo, la cui determinazione e semplificazione semantica costituisce il passaggio necessario verso la loro corretta cognizione.
Un’interpretazione in chiave unicamente filologica dell’opera di questa personalità così tanto rilevante nell’ambito dell’Umanesimo, ridurrebbe perciò stesso significativamente il suo senso, e ignorerebbe l’impatto che essa ha avuto sul corso del processo di riforma cui la logica è stata sottoposta e che ha condotto al suo esito all’interno della modernità: «C’è in queste Dialecticae Disputationes, che storici e filosofi hanno considerato con molta superficialità, il tentativo di una riforma ab imis della logica, il quale, anche se non riuscito per insufficienza talvolta di vigore speculativo, sta ad attestare luminosamente l’attitudine originale dello spirito italiano»11.
La logica valliana possiede un ripensamento delle basi della logica antica e scolastica, un ripensamento che assume come punto di riforma centrale l’adeguare la grammatica alla verità del pensiero; una verità che vuole andare tuttavia verso il prosciugamento dell’artificio sillogistico e verso un’enunciazione riduttiva dei concetti attraverso una riponderazione dello strumento linguistico e dei suoi elementi: «Verum ut captionibus obviam ire debemus, ita subtiliter iniquere et verborum pondera examinare debemus»12. Attraverso queste considerazioni, il Valla, che, come già detto, non era animato da obbiettivi innovatori, - la sua operazione è difatti da egli stesso definita una repastinatio - giunge ad una riflessione più ampia sulla centralità della questione linguistica nel campo della conoscenza; riflessione che richiama il tema della lingua epistemologicamente perfetta. La soluzione valliana è in questo senso una rielaborazione semplificata delle categorie aristoteliche e uno spostamento della soluzione formale verso un recupero della consuetudine: «At philosphia ac dialectica non solent ac ne debent quidem recedere ab usitatissima loquendi consuetudine et quasi a via vulgo trita et silicibus strata»13.
Il motivo che torna è sempre la semplicità del linguaggio, poiché ad essa si legano le problematiche inerenti alla definizione di un linguaggio pertinente alla res, in una prospettiva di concretezza espressiva della filosofia: «Lo studio delle lingue classiche lo aveva abituato a ricercare nella parola il significato della cosa. […] C’è in lui un’esigenza realistica, la quale non presenta nessuna affinità con le correnti realistiche anteriori. Il Valla non cede che alla sua ispirazione […] e quindi è naturale che la stessa logica che è oggetto delle sue Disputazioni dialettiche, lungi dall’essere la scienza più astratta diventi nel suo pensiero la scienza più concreta»14.
È esattamente questa la strada che intraprenderanno Agricola, Nizolio, Ramo, anche se in questi ultimi il momento linguistico più propriamente verrà inserito nella struttura della scienza: resta comunque l’esigenza centrale del Valla, che non può ridursi ad una polemica unicamente superficiale; l’attacco del Valla si inoltra in profondità, richiamando esigenze di riforma spirituale, e affrontando tematiche che se intendono innovare è proprio nella direzione del rapporto tra logica, linguaggio e scienza.
La sua geniale proposta di connettere la retorica al sillogismo risponde alla necessità di mostrare lo stretto legame tra la proposizione e la struttura concreta degli strumenti discorsivi15; la retorica funzionalizzata alla efficacia dell’argomentazione incarna l’esigenza di esporre la realtà nella sua possibilità di ricezione più compiuta. Ecco qui trovar luogo l’ambizione di unificare biunivocamente la dialettica e la retorica: «retorica e dialettica si presentano come due strumenti cooperanti ad un unico fine: l’una volta a dare efficacia al discorso e alla parola sul piano effettivo nei rapporti sociali e nella comunicazione umana, l’altra invece preoccupata di elaborare i principi di coerenza strutturale delle proposizioni e delle dimostrazioni, senza le quali però anche le “forme” retoriche sarebbero vane e sofisticate»16.
L’esigenza del Valla non trova ovviamente una soluzione definitiva, ma costituisce uno dei primi rilevanti attacchi all’impostazione logico-scolastica, attacco che rileva la centralità della formulazione semplificata del problema, in ordine alla sua risoluzione: «Qui, come ovunque, [Valla] non vuole giungere ad un risultato determinato; gli basta di metterci davanti al problema in tutta la sua portata e formulato nel modo più acuto»17.
L’intento del Valla, quindi, non si rivolge ad un integrale rifiuto della logica aristotelica, quanto piuttosto una semplificazione, che costituisce tuttavia una potente riformulazione e ritraduzione dell’intero edificio logico-scolastico, preda di una secolare deriva formalistica. L’impianto sillogistico della metodologia della scuola aveva acquisito in effetti una dimensione amplissima, articolata in dispositivi dimostrativi di esasperata cavillosità: il sillogismo scolastico contro il quale muove l’invettiva valliana, è uno strumento fumoso, capace di una scomposizione grammatica e logica indefinita e che quindi impronta una finalità di svuotamento realistico del discorso piuttosto che orientarsi verso una concretezza e chiarezza esemplificativa. In tal senso, la detenzione di un simile strumento costituisce la base per una sofistica argomentativa e all’occorrenza una dogmatica perfettamente conchiusa nel suo orizzonte.
Se il Valla non può definirsi un antiaristotelico, è ad ogni modo anche per il suo tramite che il pensiero filosofico si indirizza su una prospettiva di concreta visione e chiara soluzione delle problematiche.
Nella sua opera si risente la necessità di far sortire la logica dall’amore delle astuzie, di penetrare nell’essenza del linguaggio stesso e mostrarne l’intimo rapporto con il pensiero: la filologia si costituisce come capitolo preliminare della filosofia.
È ovviamente un’operazione che non può ritenersi conclusa, non solo nell’opera del Valla, ma molto probabilmente neppure nell’arco dell’intero periodo rinascimentale, il quale tuttavia recherà a lungo l’impronta del romano e contribuirà a segnarne il destino: «Con lui comincia a sorgere in Italia il desiderio e l’idea di una libera filosofia assai forte per potersi opporre nel medesimo tempo che alla filosofia scolastica, alla ignoranza erudita e superstiziosa degli scolastici, dei medici, dei giuristi, assai chiara per non dovere rispettare il privilegio di una casta dotta e per potere chiamare ad essa un pubblico più esteso, animata infine dal solo successo della verità e del bene comune»18. Se è possibile parlare di un distillato della critica rinascimentale alla logica scolastica, esso vede il suo luogo solo nell’aurora seicentesca, laddove la modernità prende congedo, senza tuttavia costituirsi come tradimento pieno, dall’orizzonte scolastico-aristotelico.