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Educação e Filosofia

versión impresa ISSN 0102-6801versión On-line ISSN 1982-596X

Educação e Filosofia vol.31 no.62 Uberlândia mayo/agosto 2017  Epub 09-Mar-2021

https://doi.org/10.14393/revedfil.issn.0102-6801.v31n62a2017-p1089a1109 

Artigos

Note su linguaggio, lingua e politica in Dante. Una lettura gramsciana

Apotamentos sobre linguagem, língua e política em Dante. Uma leitura gramsciana

Notes on language and politics in Dante. A gramscian reading

Rocco Lacorte* 

*Doutor em Romance, Languages and Literatures pela Universidade de Chicago (UofC). Professor Substituto na Universidade de Brasília (UnB). E-mail: roccola@gmail.com


Sommario

Sulla base della concezione gramsciana dell’intreccio tra lingua e politica si vogliono qui avanzare sia alcune considerazioni per una impostazione di una interpretazione della teoria linguistica di Dante, quale espressione delle innovazioni sociali e politiche del suo tempo, sia illuminare alcune conseguenze filologiche che esse possono avere rispetto ai testi esaminati. Nel De vulgari eloquentia, si può assistere a una delle forme più eminenti di reazione del poeta fiorentino allo sfacelo dell’unità politica della penisola italica e alla disintegrazione delle classi economiche e politiche formatesi dopo il Mille coi Comuni. Ciò si fa matura e altissima consapevolezza proprio attraverso la nuova impostazione dantesca della questione della lingua e della sua teoria corrispondente, nel crescente snodarsi critico e autocritico testimoniato dal percorso che va dal Convivio alla Commedia, attraverso il De vulgari eloquentia.

Parole chiave: Dante; Linguaggio; Politica; De vulgari eloquentia; Convivio; Commedia

Resumo

Com base no conceito gramsciano do entrelaçamento entre linguagem e política, e em tensão dialética com as ideias de prestigiosos intelectuais e críticos da obra de Dante, são aqui avançadas tanto algumas considerações para uma interpretação da teoria linguística de Dante que seja expressão das inovações sociais e políticas de seu tempo, tanto para iluminar algumas das consequências filológicas que elas podem ter em relação aos textos examinados. O De vulgaris eloquentia é testemunha de uma das formas mais importantes de reação do poeta de Florência ao colapso e fragmentação da unidade política da península italiana e da desintegração das classes econômicas e políticas que se formaram após o ano Mil com as Comunas. Isto torna-se consciência madura e altíssima precisamente pela nova colocação Dantiana da questão da língua e de sua teoria correspondente, ao desdobrá-la no crescimento do desenvolvimento crítico e auto-crítico testemunhado pelo caminho que vai do Convivio a Commedia, através do De vulgaris eloquentia.

Palavras-chave: Dante; Línguagem; Política; De vulgari eloquentia; Convivio; Commedia

Abstract

Starting from Antonio Gramsci’s conception of the relationship between language and politics and dialectically challenging the ideas of some important intellectuals and critics of Dante’s work, I intend to put forward both some considerations for laying an alternative interpretation of Dante’s linguistic theory, taken as an expression of the social and political innovations of his times, and illuminate some filological implications that these considerations can have in relation to the texts I am going to examine. In the De vulgari eloquentia, one can see one of the most eminent forms of Dante’s reaction against the disruption of the political unity of the Italian peninsula and the disintegration of the groups that came to light after the XIth Century A.C. This reaction turns into the highest form of awareness throughout Dante’s development of the question of language and its correspondent theory. The movement of this growing awareness becomes more and more visible along the path that (self-)critically connects the Convivio to the Comedy, through the De vulgari.

Keywords: Dante; Language; Politics; De vulgari eloquentia; Convivium; Commedy

“Poichè nessuno io trovo che prima di me abbia svolto alcuna dottrina intorno alla eloquenza volgare […]” (DANTE: 1965b, DVE, I, i)1.

“Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale” (GRAMSCI: 1975b, Q 29, 3, 2346)2.

Introduzione

C’è un passo dei Ricordi in cui Guicciardini scrive:

Se considerate bene, non s’ha vera notizia delle ‘cose’ presenti, non di quelle che giornalmente si fanno in una medesima città, e spesso tra ‘l palazzo e la piazza è una nebbia sì folta, o uno muro sì grosso, che non vi penetrando l’occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi governa, o della ragione per che lo fa, quanto delle cose che fanno in India; e però si empie facilmente el mondo di opinione erronee e vane (§ 141).

La distanza fra “il palazzo” e “la piazza”, “el popolo” e “chi governa”, la scissione interna alla penisola italica fra gruppi sociali e politici è registrata senza indugio da Guicciardini, il quale è uno dei pochi a scrivere in volgare - accanto ad autori come Machiavelli, Galilei e Vico, vissuti in epoche progressivamente sempre più lontane da quella in cui si dispiegò la crisi della civiltà comunale italiana. E la cosa è tanto più sorprendente dopo la riaffermazione dell’uso del latino presso le classi colte a partire dall’Umanesimo, mentre lo è meno se si considera che tutti questi autori hanno in comune, a differenza di molti dei dotti a loro contemporanei, la necessità di far capire a più vasti strati della popolazione i propri progetti di riforma culturale e politica. Nel passo di Guicciardini appena citato il problema della separazione economica, sociale e politica nella penisola italica rinvia implicitamente, alla questione della lingua (oppure, in certo senso, anche esplicitamente: per lo meno se si considera lo stesso problema con l’occhio al testo, che è scritto in volgare e non in latino. Il fatto in sé, di presentarsi in volgare, è la risposta reale)3. Ancora in epoca contemporanea, autori come Italo Calvino o Pierpaolo Pasolini, hanno sentito la necessità di riportare la questione alla ribalta, poiché il muro di cui parla Guicciardini evidentemente è ancora lì (e non solo in Italia), nonostante nessuno oggi parli più in latino. Di qui l’attualità di alcuni temi e problemi che si trovano nell’opera di un’autore come Dante, vissuto circa otto secoli fa: infatti, si può trovare più di un legame fra le ragioni della scelta linguistica degli autori appena citati e certo pensiero dantesco. Tutt’altro che estraneo a simili problemi è anche Antonio Gramsci, la cui presenza in questo lavoro, più implicita che esplicita, a dire il vero, sarà, comunque, necessaria, poiché sono le sue idee sulla traducibilità (tra le differenti attività umane, “teoriche” e “pratiche”) e sulla relazione tra politica e linguaggio il fondamento critico sul quale ci baseremo per articolare i nostri giudizi e per costruire passo a passo questo piccolo studio4.

1. Dal Convivio al De vulgari eloquentia. Tensioni euristiche tra “latino” e “volgare”

Sul limitare della crisi della civiltà comunale vediamo Dante Alighieri svettare sull’intellettualità contemporanea, tutto preso dal tentativo di sanare il problema del suo disfacimento, tanto era lacerata economicamente, socialmente, politicamente e linguisticamente la società in cui viveva. Dante è il primo che, esiliato dalla “sua” Firenze, e perciò non più in grado di agire politicamente per partecipare direttamente alla lotta per risolvere i tremendi conflitti fra fazioni che avvelenavano il presente della propria patria, si cimenta teoricamente con un fatto nuovo; la realtà linguistica predominante, in cui si esprimono i rapporti sociali nei Comuni, si presenta, per la prima volta, come elemento da studiare e da comprendere: in questo senso va valutata la portata innovativa del De vulgari eloquentia, dove il tentativo dantesco consiste nell’elevare il fatto a teoria. É vero che il libro è scritto in latino, ma per trattare della lingua nuova, il volgare, cioè della lingua parlata nei Comuni.

E innovativa è anche la posizione di questo trattato incompiuto rispetto al Convivio. In quest’ultima opera, come ha già rilevato Bruno Nardi5, Dante assegna ancora un ruolo di primo piano al latino per nobiltà (“perché lo latino è perpetuo e non corruttibile, e il volgare è non stabile e corruttibile”), per virtu’ (“con ciò sia cosa lo latino molte cose manifesta concepite ne la mente, che lo volgare far non può”) e per bellezza (“però che lo volgare seguita uso, e lo latino arte”)6. Ciò nonostante, sebbene più in là rigetterà queste affermazioni, già nel Convivio Dante dà vari segnali in controtendenza con esse. Per esempio, prima di tutto il fatto stesso di scrivere quest’opera in volgare; in secondo luogo, il fatto che egli penetra nella lingua latina attraverso il volgare e non nel volgare perchè conosce da prima il latino (C, I, xiii); e, infine, anche l’affermazione secondo la quale: “Ciascuna cosa è virtuosa in sua natura che fa quello che ella è ordinata; e quanto meglio lo fa tanto più è virtuosa” (C, I, v), affermazione da associare con l’altra secondo cui il volgare si presta meglio a commento delle canzoni del Convivio perchè gli è più “prossimo” (C, I, xii):

Tanto è la cosa più prossima quanto, di tutte le cose del suo genere, altrui è più unita: onde di tutti li uomini lo figlio è più prossimo al padre; di tutte l’arti la medicina è la più prossima al medico, e la musica al musico, però che a loro sono più unite che l’altre […] E così lo volgare è più prossimo quanto è più unito, che uno e solo è prima ne la mente che alcuno altro, e che non solamente per sè è unito, ma per accidente, in quanto è congiunto con le più prossime persone, sì come con li parenti e con li propri cittadini e con la propria gente. E questo è lo volgare proprio; lo quale è non prossimo, ma massimamente prossimo a ciascuno. Perchè se la prossimitate è seme d’amistà, come detto è di sopra, manifesto è ch’ella è de le cagioni stata de l’amore che io porto a la mia loquela, che è a me prossima più che l’altre. […] (C, I, xii).

Il volgare è, dunque, “il più unito” alle canzoni e alla mente di Dante che le ha composte (perchè lingua materna), in quanto, inoltre, “lo latino conosce lo volgare in genere, ma non distinto”, “chè uno abituato di latino non distingue, s’elli è d’Italia, lo volgare [inghilese] da lo tedesco; nè lo tedesco, lo volgare italico dal provenzale” (C, I, vii - corsivi miei).

Ora, è chiaro da queste parole che rispetto al fine particolare del “commento”, la natura del volgare sembra “ordinata” più virtuosamente del latino. Se, dunque, il latino è considerato da Dante gerarchicamente superiore, esso non può però fungere per il commento alle canzoni del Convivio. Allora, la superiorità del latino è tale solo se riferita ad ambiti diversi da quello relativo a questo commento; così, di fatto, nel Convivio è il volgare che comincia progressivamente a prevalere.

Se ne trae perciò che Dante, in questa fase tutto preso dal fare, dalla costruzione “pratica” della sua opera, usa ancora un linguaggio che non è il suo, cioè quello che arriverà a sviluppare più tardi, esprimendo così la sua posizione autonoma e originale. Per ora, a voler essere più esatti, egli ancora oscilla ecletticamente facendo convivere insieme vari linguaggi (in senso lato) e teorie (alcuni dei quali perciò in parte contrastano con quello che sta facendo, ma egli ancora non se ne accorge, mentre la sua presa di coscienza piena coinciderà proprio con la formulazione compiuta di un proprio linguaggio nuovo e originale): per esempio, da un lato, il pregiudizio scolastico della superiorità del latino e, dall’altro, la sua idea sull’importanza del volgare, che a quest’altezza non si presenta ancora come una teoria compiuta. Le conseguenze e la realtà di quel fare poetico - che implicitamente già contiene, in qualche modo, degli elementi “teorici” - troveranno la loro “traduzione” in un nuovo linguaggio coerente e omogeneo, cioè, questa volta, in una teoria di Dante7, solo nel De vulgari eloquentia (che, dunque, deve seguire di necessità cronologicamente almeno al primo libro del Convivio8). E, com’è noto, a un certo punto Dante, con la Commedia, non in latino, ma proprio in volgare, narrerà ed esporrà un intero universo. Effettivamente, la Commedia è la prova materiale dell’abbandono definitivo di uno degli assunti cardine del Convivio, quello per cui “lo latino molte cose manifesta concepite ne la mente, che lo volgare far non può”.

Alla fine del primo libro del Convivio Dante svolge una ulteriore considerazione da Nardi non sottolineata: alludo al paragone fra il volgare e la tecnica artigianale del fabbro, cioè fra una “lingua” e una “tecnica”, o meglio, prima di tutto, fra il volgare recepito dai propri genitori e il “fuoco” che consente al fabbro di trasformare il ferro in “coltello” (il volgare - non il latino - in quanto lingua che ha consentito di unire i suoi genitori, è addirittura condizione senza la quale il poeta non sarebbe potuto nascere, essere):

Non è secondo [lo Filosofo impossibile sì come dice ne la Fisica al libro secondo] a una esser più cagioni efficienti, avvenga che una sia massima de l’altre; onde lo fuoco e lo martello sono cagioni efficienti de lo coltello, avvenga che massimamente è il fabbro. Questo mio volgare fu congiugnitore de li miei generanti, che con esso parlavano, sì come il fuoco è disponitore del ferro al fabbro che fa lo coltello; per che manifesto è lui essere concorso a la mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere. Ancora, questo mio volgare fu introduttore di me ne la via della scienza, che è ultima perfezione, in quanto con esso io entrai nello latino (C, I xii).

Com’è oramai ben noto, Dante nelle sue opere future non riprodurrà i volgari attingendoli così come sono, bensì li tratterà come quel fuoco, o quei fuochi, da cui foggerà una nuova lingua (e da questo punto di vista mostra che la sua operazione corrisponde a una traduzione dell’ordine rappresentato dalla grammatica per eccellenza, cioè il latino, in un ordine nuovo, e ciò egli fa a partire dagli elementi del volgare, il quale, in quanto dis-ordinato, sarebbe inferiore alla grammatica, cioè al latino medesimo, che stima come lingua artificiale, cioè frutto di un lavoro tecnico-intellettuale). Dante stesso porrà se medesimo come artigiano, o “cagione efficiente” massima, del “volgare illustre” nel De vulgari eloquentia - scritto successivamente al capitolo in cui sono contenute le affermazioni sopra riportate del Convivio. È notevole, però, il fatto che già qui abbiamo la importantissima equiparazione fra il tecnico del ferro, il fabbro, e il “tecnico” della lingua, lo scrittore e poeta.

Dobbiamo, allora, prestare attenzione all’equazione che Dante stabilisce fra la nuova lingua (il futuro volgare illustre) e la tecnica; perchè, in primo luogo, se la nuova lingua è una tecnica, essa è frutto d’un lavoro (e naturale potrà esser detta solo nel senso che, una volta istituitasi, essa presenterà degli automatismi funzionali a chi l’apprende, la parla e l’ascolta). Nel Convivio ancora non ci sono affermazioni esplicite e chiare circa una distinzione fra “natura” e “artificio”9 rispetto al volgare (non illustre). D’altronde, è Dante stesso a servirsi di un paragone da cui non trae ancora tutte le conseguenze teoriche. Rimane, però, ferma l’immagine del fabbro-poeta; immagine feconda in futuro e da cui, per il momento, si deduce che sicuramente il volgare fabbricato dall’autore della Commedia richiede “artificio”, mentre più complesso è tentare di capire come egli intendesse il volgare materno (sicuramente “corruttibile”, ma non è detto se naturalmente corruttibile o artificialmente corruttibile). Nel De vulgari eloquentia Dante affermerà che i volgari hanno proceduto a caso (DVE, II, iv) e parlerà senz’altro di una “lingua volgare”, “senza regola alcuna” - forse identificabile con una lingua in certo senso naturale e spontanea, che i bambini apprendono da chi li circonda appena in grado di balbettare i primi suoni - e distinta da una “lingua secondaria” e artificiale (il latino dei Romani), per imparare la quale bisogna studiare lungamente e intensamente (DVE, I, i). Nel Convivio, distinzioni chiare in merito non ce ne sono. Si deduce dal passo riportato che il latino richiede studio, ed è una lingua seconda, mentre il volgare era la lingua parlata (naturalmente) dai genitori e da Dante bambino, e la causa, contemporaneamente, del loro reciproco amore.

In secondo luogo, “lingua come tecnica” equivale a “lingua come sapere” non astratto. In terzo luogo, in quanto “tecnica”, la lingua deve avere, contemporaneamente, una consistenza e un fine pratico. Da questo punto di vista la scelta dell’uso del volgare ha senz’altro un fine divulgativo e sociale, come già si evince nel Convivio:

[…] Lo volgare è più prossimo quanto è più unito, che uno e solo è prima ne la mente che alcuno altro, e che non solamente per sè è unito, ma per accidente, in quanto è congiunto con le più prossime persone, sì come con li parenti e con li propri cittadini e con la propria gente. E questo è lo volgare proprio; lo quale è non prossimo, ma massimamente prossimo a ciascuno (C, I, xii - corsivo mio).

Già prima Dante aveva affermato, fra le ragioni che lo mossero a eleggere l’uso del volgare e non del latino nello scrivere il Convivio, oltre all’amore per la sua “loquela” e il convenire meglio al commento, quella che “si muove […] da prontezza di liberalitate” (C, I, v), persuaso che “come lo latino averebbe a pochi dato lo suo beneficio, […] lo volgare servirà veramente a molti” (I, ix). In tal modo, egli apre agli altri la propria cultura - mostrando con ciò di essere molto più “moderno” di tanti intellettuali, anche contemporanei, che si esprimono in un linguaggio ostico ai più - sebbene, bisogna precisarlo, il suo fine essenziale fosse quello di aprirsi per rendere più efficace una riforma di quei principi radicati in un tipo di struttura sociale fortemente gerarchica, tipica del Medio Evo. Il fine pratico, etico (e perciò anche politico), insito nella tematica della lingua (e della lingua come tecnica) è, dunque, già in questo trattato; come scrive Dante: “Onde con ciò sia cosa che due perfezioni abbia l’uomo, una prima e una seconda - la prima lo fa essere, la seconda lo fa essere buono -, se la propria loquela m’è stata cagione e de l’una e dell’altra, grandissimo beneficio da lei ho ricevuto” (C, I, xiii - corsivo mio). Il compito di “inducere li uomini a scienza e virtu’” (C, I, ix) è altresì eminentemente politico-morale e mostra che la problematica linguistica fa tutt’uno con esso, perchè, nella convinzione di Dante, solo ricorrendo al volgare, cioè alla lingua del ceto attivo del “borgo” comunale, esso può essere condotto a compimento. Ma, chiaramente, il volgare, nell’Italia medievale non era uno; nella realtà tanti erano i volgari, quasi a metaforizzare la condizione di lacerazione socio-politica e culturale che attraversava la penisola. É nel De vulgari eloquentia, che la reazione dantesca allo sfacelo dell’unità politica del paese, alla disintegrazione delle classi economiche e politiche formatesi dopo il Mille coi Comuni, si fa matura consapevolezza proprio anche attraverso una nuova impostazione della questione della lingua. Ma già nel Convivio, sintomaticamente, Dante fa affermazioni fondamentali in questa direzione: il sapere delle scuole religiose e filosofiche era separato da tutti quei gruppi sociali che non conoscevano il latino, e solo attraverso l’elevazione del volgare a lingua filosofica (cioè a alternativo coerente e unitario ordine sintattico e di pensiero) quel medesimo sapere poteva essere liberato dal gergo esclusivo degli scolastici10. Da questo punto di vista, quella di Dante diverrà la teoria di un rappresentante degli intellettuali dei Comuni italiani che “rompe” col latino e, in certo senso, giustifica il volgare (la realtà dei Comuni, ché però si sta smembrando) di fronte al “mandarinismo” latineggiante e tutto feudale dei dotti scolastici. Ed egli “rompe” proprio nel senso che la lingua artificiale del volgare-illustre non la concepisce in funzione di una comunicazione entro una cerchia ristretta di intellettuali, ma in funzione di una comunicazione che si estenda in un ambito più vasto di popolazione, nel tentativo di supplire in questo modo a una crisi interna alla società e alla chiesa, a una frattura sociale crescente fra le classi alte - che parlavano il latino - e “i semplici” che la Chiesa dell’epoca non fronteggiava adeguatamente.

2. Il De vulgari e la maturazione linguistico-politica

Già nel Convivio il volgare che Dante elaborerà sulle basi dei volgari italiani è definito come un “sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce”11. Nel De vulgari eloquentia egli mostra di essere pienamente consapevole di stare facendo nel suo campo qualcosa di assolutamente nuovo - trasferendo nel proprio qualcosa che in altri campi si era già costituito (o si andava costituendo) come una tecnica nuova: penso, e forse Dante stesso pensava, alle nuove tecniche politiche, giuridiche e amministrative nella realtà dei Comuni, alle nuove tecniche pittoriche di Giotto, etc… É Dante stesso, d’altronde, a riconoscersi come il primo nel De vulgari: “Poichè nessuno io trovo che prima di me abbia svolto alcuna dottrina intorno alla eloquenza volgare […]” (DVE, I, i).

Secondo Nardi12, nel primo libro del De vulgari, l’assunto del Convivio è rovesciato; ora è il volgare, più prossimo al parlare naturale degli italici, a essere riconosciuto più nobile dell’artificioso e convenzionale latino, lingua morta dei dotti:

Di queste due [volgare e latino] più nobile è la volgare; sia perchè è la prima che l’uman genere abbia usata; sia perchè il mondo tutto ne fruisce, benchè sia divisa in differentissime forme e vocaboli; sia perchè l’abbiamo da natura, mentre l’altra è piuttosto fattura d’arte. E di questa più nobile è mio intento trattare. (DVE, I, i).

Inoltre, è nel De vulgari eloquentia che Dante scopre la legge per cui necessaria e naturale è la mutabilità dei linguaggi nei tempi e nei luoghi, ad eccezione, però, della lingua di Adamo, lingua rivelata, che arriva inalterata anche dopo Babele fino a Cristo. Tuttavia, un po’ più tardi, anche questo assunto teologico viene meno. Infatti, nella terza parte della Commedia, nel Paradiso, c’è una ulteriore rettifica alla teoria sviluppata nel De vulgari, Dante apprende da Adamo sia che l’idioma di quest’ultimo si era già modificato ed estinto prima che i babilonesi costruissero la Torre sia che naturale è il fatto che gli uomini parlino, tuttavia poi sta agli uomini stessi elaborare i propri linguaggi particolari:

La lingua ch’io parlai fu tutta spenta

Innanzi che all’ovra inconsummabile Fosse la gente di Nembrot attenta; chè nullo effetto mai razionabile, per lo piacere uman che rinnovella seguendo il cielo, sempre fu durabile. Opera naturale è ch’uom favella, ma così o così, natura lascia poi fare a voi, secondo che v’abbella13.

Per Gianfranco Contini, a differenza di Nardi, “il fatto che il De vulgari dichiari il volgare più nobile del latino, il Convivio il contrario, non ha importanza, essendo diverse le causali addotte nei due luoghi, come Dante suol praticare, non senza qualche civetteria dialettica di origine sofistica immanente al costume della disputa scolastica, ogni volta che metta lui in rilievo le sue proprie apparenti contraddizioni14. Per Enrico Malato, poi, che segue Contini, non si tratta di incoerenza, in quanto la prospettiva del trattato volgare è diversa, perchè qui Dante celebra la superiorità del latino come modello d’arte e lì, nel trattato latino, celebra la superiorità del volgare come “lingua naturalis”.

É vero quello che scrive Contini: le “causali addotte” sono differenti nell’uno e nell’altro trattato; ma il fatto che nel De vulgari eloquentia la tesi della nobiltà del volgare diventi una teoria che poi sarà materialmente e coerentemente applicata - anche se con ulteriori sviluppi e correzioni, alla Commedia - fa pensare che Dante sia approdato ad una fase decisiva di chiarimento e di maturazione del proprio pensiero, laddove, nel Convivio, la compresenza di linguaggi diversi che si sovrappongono (uno dei due vecchio e tradizionale, quasi il ventre culturale entro cui il nuovo nato si dibatte - tuttavia ancora non libero) sembra testimoniare pittosto di una fase che precede. Se si può accettare, dunque, l’idea che l’intento dantesco sia differente in ciascuna delle opere menzionate, rimane però il fatto che nel De vulgari e nella Commedia, il “linguaggio” di Dante cominci a strutturarsi secondo coordinate che fanno capo a un idea - quella della centralità di un certo volgare - che prima di lui o non c’era o non era stata elevata consapevolmente a centro di gravità del modo di considerare il linguaggio e la lingua (in special modo la lingua volgare), ponendola e sviluppandola all’interno di un discorso che, come abbiamo visto, non è semplicemente “linguistico”, ma contemporaneamente morale e politico.

Come già notava Antonio Gramsci - intellettuale di portata mondiale (ma non sufficientemente apprezzato dalla critica e intellettualità italiana) - la teoria del De Vulgari eloquentia, viene a coincidere di fatto con “un atto di politica culturale-nazionale (nazionale nel senso che la parola poteva avere al tempo di Dante)”15. E questo tanto più in quanto l’idea emersa nel Convivio Dante la trasforma in un linguaggio compatto e coerente, in una teoria nuova. L’opposizione di Dante al frazionamento dialettale, cioè al moltiplicarsi infinito degli idiomi secondo uno schema triadico (derivato da Proclo attraverso lo pseudo Dionigi Aeropagita) che ebbe inizio con l’edificazione della Torre di Babele, o “torre di confusione” come la chiama Dante (DVE, I, vi), è l’opposizione alla tendenza centrifuga e “peccaminosa” dei gerghi corporativi (DVE, I, vii). Tradotto in termini metafisici: una sorta di allontanamento dalla Luce appunto secondo la teoria neo-platonico-cristiana dell’Aeropagita. Coerentemente con questa dottrina metafisica - per cui oltre l’irradiazione e differenziazione è previsto un ritorno16 degli enti all’Uno (o Luce) - Dante preme per ricondurre l’Italia dalla frantumazione (anche delle gerarchie) all’unità politica e sociale; e il ‘collante’ non può non essere una nuova lingua, un nuovo volgare. Perciò il problema dell’unità socio-politica si pone, al contempo, già prima che egli materialmente scriva il De Monarchia, e si pone solo apparentemente come questione (semplicemente) “linguistica”. Norma linguistica e norma politica, forma linguistica e forma politica comune, costituiscono un tutt’uno nella mente di Dante. Il lavoro dei “ritrovatori dell’arte di ‘grammatica’” è dunque fin da principio intrinsecamente politico, poichè corrisponde nei suoi intenti, sia pure indirettamente, alla volontà di fermare la disgregazione sociale, culturale e politica della penisola.

É interessante a questo punto notare come nel capitolo settimo del libro primo del De vulgari eloquentia ritorni un parallelo fra il linguaggio e la tecnica della costruzione della Torre di Babele:

Certo quasi tutto il genere umano si era unito a quell’impresa di nequizia: v’era chi comandava, chi architettava; chi erigeva muri, chi con livelle li faceva dritti, chi con cazzuole li intonacava; chi era intento a spaccar rupi e chi per terra e chi per mare a trasportarle; e gruppi diversi a diversi altri lavori si applicavano, quando da sì grande confusione furon dal cielo percossi che, mentre tutti con una sola e medesima lingua eran ministri alla costruzione, dalla costruzione per molte lingue tra loro straniati, cessavano, e per una medesima scambievole intesa non più si trovavan concordi. Infatti solo a quelli che si accordavano in un’unica operazione rimase una lingua medesima: una, per esempio, a tutti gli architetti, una a quanti rivoltavan massi, una a quanti li preparavano; e così avvenne dei singoli lavoratori. E quante erano le varietà di lavoro tendenti alla costruzione, con altrettanti linguaggi si scinde allora il genere umano; e quanto più eccellente era il lavoro, tanto più rozzamente e barbaramente ora parlano. Ma coloro a cui rimase l’idioma sacro, nè stavan presenti, nè approvavano quel lavoro, anzi profondamente esecrandolo, irridevano la stoltezza di quelli che vi attendevano. […] (DVE, I, vii).

In un certo senso anche il linguaggio è come una costruzione, però - sembra ammonire Dante - bisogna stare attenti a come e cosa si costruisce, perchè anche le tecniche artigianali tendono a diversificarsi e a farsi sempre più particolari a seconda delle potenzialità offerte loro dai diversi ambiti in cui vengono esercitate e a sviluppare una serie di gerghi che finiscono per essere reciprocamente incomprensibili. In secondo luogo, questa divisione ad infinitum delle lingue e dei lavori minaccia seriamente la coesione gerarchica della compagine sociale. Nel passo sopra citato egli implicitamente ammette che oltre ad un’uso tecnico “cattivo” (che conduce verso la divisione) possa essere per contro sviluppata una tecnica “buona” (che conduca verso l’unità del genere umano). Quando Dante, nelle ultime righe del passo citato, accenna alla condanna della moltiplicazione dei linguaggi e dei lavori da parte di coloro i quali conservarono la lingua divina, non sta solo riportando una storia biblica, sia pure ricostruita secondo la sua possente fantasia e immaginativa, ma sta implicitamente condannando la condizione italiana presente di divisione sociale e linguistica attraverso una narrazione estremamente drammatica - condanna che riceverà la sua critica teorica nel De vulgari eloquentia e nel De monarchia e la sua critica reale attraverso la costruzione concreta di una nuova lingua volgare (naturalmente, senza la fase teorica, che ne è una parte essenziale, quel processo globale che è la critica non potrebbe arrivare a essere critica reale e esso stesso reale). Perdipiù non vi è dubbio che tutto questo discorso ritorni nella Commedia, dove, soprattutto nell’Inferno, con l’approssimarsi al Cocito si assiste a un progressivo abbrutimento e differenziazione dei linguaggi e delle lingue - compresi quelli incomprensibili e vari delle creature diaboliche, quasi a simboleggiare il confine infimo dell’universo non solo linguistico - mentre risalendo verso il Paradiso si fa via via chiara una tendenza al venir meno delle differenze, una tendenza all’Uno.

3. Conclusioni

Come risulta evidente dal capitolo VII del De vulgari eloquentia, grazie ad una acutezza senza pari nel Medio Evo, Dante riesce a scorgere un legame profondo fra la potenziale tendenza alla parcellizzazione nell’ambito produttivo, con il rischio di una eccessiva divisione e frammentazione dei lavori e delle tecniche e la tendenza della lingua a suddividersi in gerghi e dialetti estremamente differenti l’uno dall’altro. Soprattutto, egli percepisce la possibilità che la genesi di questo processo di divisione non si arresti alla sfera economica, ma che da questa passi alla sfera culturale. Ed è con questa altissima consapevolezza ed autocoscienza che Dante affronta nel De vulgari il discorso sulla lingua - che è, allora, un discorso ad un tempo implicante risvolti di semiotica, di semantica, di linguistica, di politica, di filosofia, di etica, di religione, di economia, di antropologia; risvolti, come direbbe Gramsci, tra attività reciprocamente traducibili (in quanto espressioni del medesimo contesto culturale, quello dantesco, tipicamente medievale per l’osservanza degli ordini gerarchici e assolutamente originale per elaborazione e coerenza)17. Sicchè il discorso sulla lingua e sul linguaggio traduce idee che Dante ha sviluppato ed elaborato tenendo costantemente presente il parallelo con altre sfere culturali.

Se l’essere umano può opporsi a una prospettiva disgregatrice in campo linguistico, è perchè, secondo lui, la natura degli esseri umani è razionale18, cioè partecipa del divino, e, in quanto tale, può imporre la propria forma sulla materia; può trasformare un suono materiale in un veicolo per la comunicazione di entità immateriali, i significati (cfr. DVE, I, iii). In ciò, ossia nel “nomenclare”, si manifesta la relativa libertà degli umani rispetto alla materia - relativa poichè, senza il segno sensibile, non potrebbero comunicare affatto. Per altro verso, qui si mostra al contempo il limite invalicabile rappresentato dalla ragione stessa, che non può mai affrancarsi del tutto dalla materia e dai sensi, in quanto ciò che la caratterizza come ragione umana è proprio il linguaggio (cfr. DVE I, iii e iv), il quale è costituito da segni che, a loro volta, hanno una componente fondamentale nel suono materiale. Gli umani non sono infatti come gli angeli “che uno compenetri all’altro per mezzo di un rispecchiamento dello spirito, poichè di fronte allo spirito umano si stende la materialità ed opacità del corpo mortale” (DVE, I, iii)19; nè sono come l’animale o il bruto, guidati esclusivamente dall’istinto:

Neppure fu d’uopo provvedere di un linguaggio gli animali inferiori, essendo guidati da solo istinto naturale: infatti quelli della medesima specie hanno gli stessi atti e passioni, e così possono conoscere, per mezzo dei propri, gli altrui; un linguaggio poi fra quelli di specie diversa non solo non era necessario, ma sarebbe stato assolutamente dannoso non essendovi alcun amichevole raporto tra loro” (DVE, I, ii).

Tuttavia, l’essere umano non è tanto o solo qualcosa che sta tra il sensibile e l’intelligibile, ma, soprattutto, si trova al contempo sopra il sensibile, appunto perchè la ragione, in quanto forma, ha un potere sulla materia. Tuttavia, Dante tende ulteriormente a sottolineare che questo potere, nell’uomo, è tutt’altro che infinito perchè i contenuti foggiati di volta in volta dalla ragione umana, ed estrinsecati nelle diverse lingue, sono tutti destinati a trapassare in tempi più o meno lunghi. La grammatica, espressione della ricerca delle costanti formali interne alle varie e mutevoli lingue, ossia dell’atemporale nel temporale, rivela il lato divino della ragione in quanto forma del formato. Questo risulta chiaro, per un verso, se si considera che la grammatica esprime la dignità razionale non di un solo individuo, ma di una comunità di popoli - come afferma Dante stesso alla fine del capitolo IX del primo libro - e, per l’altro, se si analizza la struttura del segno e il lavoro dell’“artigiano” della lingua, la sua “tecnica”.

É vero che in DVE, I, iii il “signum” è descritto come contemporaneamente razionale (“in quanto appar significare alcuna cosa a piacimento”) e sensibile (“in quanto è suono”): come lo stesso essere umano, d’altronde. Tuttavia, questa osservazione di carattere puramente quantitativo, se affiancata, in primo luogo, a quella fatta in DVE, I, ix, dove Dante descrive la “grammatica” come nient’altro che “una certa identità di lingua inalterabile attraverso a tempi e luoghi diversi”, “regolata per consenso comune di molti popoli”, per cui “non appar soggetta ad alcun arbitrio individuale e per conseguenza non può essere neppure variabile”, e dipinge i grammatici come coloro che la ritrovarono (adinvenerunt) “affinchè per il variare della lingua, ondeggiante ad arbitrio degli individui, non fossimo in condizione di accostarci” a autori o individui distanti da noi nel tempo e nello spazio; ovvero dove Dante sottolinea nel contempo quanto il linguaggio sia specchio o “effetto” del carattere umano e la grammatica della lotta dell’uomo medesimo contro quest’incessante mutamento (“essendo l’uomo animale instabilissimo e mutevolissimo”, che “non può avere nè durata nè continuità, ma, come le altre cose che son di noi uomini, per esempio costumi e fogge, deve tramutarsi per distanza di luoghi e di tempi”), e perciò sottolineando che la grammatica è una reazione alla storicità e mutabilità delle lingue20; se messa accanto, in secondo luogo, a quella fatta nel Paradiso, per cui “nullo effetto mai razionabile,/per lo piacere uman che rinnovella/ seguendo il cielo, sempre fu durabile” (XXVI, 127-32) e se vista, infine, in rapporto alle implicazioni che sorgono dalla considerazione della tensione che si crea fra l’elemento sensibile e quello razionale entro uno stesso segno, e fra quello storico di una lingua già creata e quello relativamente astorico-razionale del grammatico, siamo portati a concludere che ci sono appunto due forze, di cui una, la “razionale”, ha l’incarico di tentare incessantemente di arginare la deriva della moltiplicazione e della scissione linguistica e più in generale del genere umano. E se, da un lato, la ragione appare divina, dall’altro mostra tutti i suoi limiti per l’impossibilità costitutiva a creare qualcosa che duri effettivamente in eterno.

Questo dualismo o tensione, è riaffermato in Paradiso XXVI, e precisato ulteriormente nel rapporto fra gusto e ragione. Nessuna opera della ragione, afferma Dante, fu mai duratura perchè soggetta alla mutevolezza del gusto che “rinnovella” secondo il vario influsso degli astri. Dalla tensione fra questi due elementi scaturisce il mutamento e il movimento incessante e drammatico della storia umana e delle lingue umane. Lo stesso autore della Commedia, col suo lavoro di poeta-artigiano, indica al tempo stesso ciò che la ragione umana può ottenere nel suo sforzo a ordinare e dominare la materia. Infatti, per essere intrisa di sensibilità, materia e gusto essa mostra tutti i suoi limiti teoretici e storici, ma, in quanto libero organo legislativo della materia stessa (nel nostro caso anche fonematica), allude allegoricamente a una sfera ultraterrena, a una sfera di libertà assoluta dai vincoli del senso e della materia. Infatti, la costruzione di una nuova lingua volgare, nell’indicare i limiti in cui la ragione umana si trova costretta (per non poter prescindere dalle pretese del senso e del gusto) mostra al contempo, proprio nel momento in cui sottolinea quei limiti, che c’è anche oltre essa tutto un campo in cui può essere raggiunta una condizione di liberazione assoluta. Perciò la tecnica dell’“artigiano” della lingua - del “linguista” come è il caso del poeta Dante - oltre che essere un dire e un conoscere, mostra al contempo allegoricamente e praticamente ciò che con la conoscenza e con le parole non può essere raggiunto. Il non detto e l’indicibile rinviano a una sfera ultraterrena. In questo senso, l’affermazione di Etienne Gilson, secondo la quale il fine della Commedia non è speculativo, poichè in quanto opera d’arte che “intende servire una verità, si ordina verso una verità pratica”21, può essere, con le debite cautele, estesa già all’affermazione del Convivio per la quale l’artigiano della lingua è come il fabbro, il sapere del quale si mostra nel fare. E non vi sono dubbi che, per Dante, questo “fare” si proponesse un “alto” obiettivo.

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1D’ora in poi, per quanto riguarda il De vulgari eloquentia, si citerà ponendo la sigla DVE = De vulgari eloquentia, seguita dal numero del Libro e dal numero del paragrafo (come nell’esempio dell’ultima citazione: DVE, I, i).

2D’ora in poi, ci si riferirà, salvo indicazione diversa, sempre a GRAMSCI, A. Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di Valentino Gerratana. Einaudi: Torino, 1975. Si citerà ponendo la lettera Q = Quaderni, seguita dal numero del quaderno, dal numero del paragrafo e, eventualmente, dal numero della pagina (come nell’esempio dell’ultima citazione: Q 29, 3, 2346).

3Ci si deve, in altri termini, domandare perchè esso sia scritto in volgare e non in latino. Con tutta probabilità Guicciardini ha dovuto fare una scelta linguistica, per niente semplice ai suoi tempi, prima di cominciare a scriverlo, e deve averla fatta per motivi precisi, che superano il campo linguistico inteso in senso stretto.

4In LACORTE; 2014, p. 67 ss. Si può trovare uno studio sul concetto di traducibilità nella maniera in cui è qui utilizzato e inteso e, inoltre, ulteriori riferimenti bibliografici su di esso.

5NARDI; 1942 (Dante e la cultura medievale. Laterza: Bari, 1942).

6DANTE; 1965a, C, I, v. D’ora in poi, per quanto riguarda il Convivio, si citerà ponendo la lettera C = Convivio, seguita dal numero del Trattato e dal numero del paragrafo (come nell’esempio dell’ultima citazione: C, I, v).

7Ogni filosofia o, più latamente, ogni visione del mondo è un “linguaggio”, e si presenta in una certa determinata lingua, non ogni lingua è una filosofia coerente, una teoria, seppure possa contenere una visione del mondo più o meno eclettica o coerente, o addirittura vari “linguaggi”, o visioni del mondo, che si intersecano ed interagiscono fra loro in vario modo, per lo meno quando esprimono la stessa realtà o realtà affini (Cfr. GRAMSCI: 1975b. In particolare cfr. Q 4, 42; Q 8, 208 e Q 10 II, 44, 1330).

8I critici ipotizzano che il De vulgari sia stato scritto o in una pausa nella composizione del III e IV trattato del Convivio o subito dopo quest’ultimo. Cfr. MALATO: 1999, p. 163.

9Questa parola non deve essere intesa qui nel senso che artificio o artificiale ha rispetto ai linguaggi formali o formalizzati della scienza e della logica moderna e contemporanea, poichè Dante è il primo a riconoscere la storicità di una qualsiasi lingua che deriva dal lavoro della ragione umana (cfr. per esempio, DANTE; 1965b, DVE, I, ix).

10Cfr. C I, xiii.

11Dante non usa la parola “sole” e la parola “luce” a caso. Si rifà piuttosto alla metafisica neo-platonica della luce dello Pseudo-Dionigi Areopagita (sec. V d.C.). Ivi il Sole è immagine divina soprasensibile che irradia la propria bontà a tutti gli esseri del creato, i quali, a loro volta, la recepiscono in modi e gradi che differiscono secondo le loro proprie potenzialità. Tale paradigma ontologico ritorna costantemente attraverso tutto il terzo libro del Convivio - dove è esaltata la mente umana in quanto raggio dell’infinita sapienza divina (Cfr. LACORTE, C., CUBEDDU, I., BARATTA, G.: 1965-68, p. 516 s.). E non è detto che Dante non alluda implicitamente alla nuova lingua volgare da foggiare come a un sole che irradia nuova luce a individui differenti per gradi (sociali e d’età) e modi (uomini, donne, bambini).

12(Cfr. NARDI: 1942, p. 168).

13(DANTE: 1965c, Paradiso, XXVI, 124-132).

14(Cit. in MALATO: 1999, p. 169 - corsivi miei).

15GRAMSCI: 1975a (Letteratura e vita nazionale), p. 226 e cfr. Q 29, 2, 2344.

16(Cfr. CORTI: 1993, p. 111).

17Cfr. rispettivamente LACORTE: 2014 e, più in particolare sul significato del termine “espressione”, LACORTE: 2012, p. 3 ss.

18Cfr., a questo proposito, quanto Dante dice in C IV, xxi.

19Non pare che questa opacità materiale sia, però, considerata come del tutto come negativa, se nel Convivio Dante può affermare che “la nobilitade umana, quanto è da la parte di molti suoi frutti, quella de l’angelo soperchia, tutto che l’angelica in sua unitade sia più divina” (C IV, xix), quasi a voler dire che gli angeli perdono qualcosa nel non essere costretti a “commerciarè con la materia per darle forma e a non avere necessità di un linguaggio.

20Dante precisa che le lingue sono realtà che mutano lentamente, tanto da dare l’impressione di essere immutabili: “di quello infatti che a poco a poco si muove non ci avvediamo affatto, e quanto più tempo richiede il mutamento di una cosa per essere avvertito, tanto più stabile quella cosa reputiamo” (DVE, I, ix).

21Cfr. GILSON: 1965, pp. 197-223.

Received: February 09, 2016; Accepted: April 19, 2017

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