SciELO - Scientific Electronic Library Online

 
vol.32 número64Desvelando a máscara da religião: uma reflexão desde a filosofia de NietzscheHannah Arendt e a Conquista do Espaço índice de autoresíndice de assuntospesquisa de artigos
Home Pagelista alfabética de periódicos  

Serviços Personalizados

Journal

Artigo

Compartilhar


Educação e Filosofia

versão impressa ISSN 0102-6801versão On-line ISSN 1982-596X

Educação e Filosofia vol.32 no.64 Uberlândia jan./abr 2018  Epub 20-Set-2020

https://doi.org/10.14393/revedfil.issn.0102-6801.v32n64a2018-12 

Artigos

Educare a vivere nella Città di Dio

Educar para viver na cidade de Deus

Educate to live in the City of God

Donatella Pagliacci* 

*Professore Associato di Filosofia Morale presso l’Università degli studi di Macerata, dove insegna Antropologia filosofica. Dottore di Ricerca (PhD) in Filosofia e Scienze Umane IX ciclo, presso l’Università degli Studi di Perugia. E-mail: donatella.pagliacci@gmail.com


Riassunto

Nel presente saggio vengono presi in esame i compiti educativi assunti dal vescovo di Ippona attraverso la redazione del testo sulla Città di Dio. Infatti, fin dall’apertura dell’opera egli si assume, per così dire, l’onere di insegnare non solo i principali contenuti della religione cristiana, capaci di illuminare anche sulle vicende del tempo presente, ma soprattutto di indicare quale via debba essere percorsa per il conseguimento dell’equilibrio interiore e della salvezza eterna. Tre quindi i poli tematici sui quali vorremmo, brevemente, concentrare la nostra attenzione: l’educazione alla vita, alla pace e alla vita comunitaria che si raccoglie intorno all’idea di popolo. Per affrontare queste tre complesse, ma anche attualissime questioni, il vescovo di Ippona si presenta come un maestro dinanzi ai suoi discepoli, la cui fiducia nei confronti degli interlocutori nasce dall’esperienza e dalla conoscenza dell’animo umano, capace e ricco di potenzialità, ma anche dalla determinazione di chi sa di dover comunque rendere comprensibili i contenuti della fede.

Parole chiave: Educazione per la vita; Pace; Vita comunitaria; Idea di persone; Conoscenza dell’anima umana; La fede

Resumo

No presente artigo coloco em questão as tarefas educativas assumidas pelo bispo de Hipona através da redação do texto sobre a Cidade de Deus. De fato, desde a abertura da obra ele assume por assim dizer o ônus de ensinar não somente os principais conteúdos da religião cristã, capazes de iluminar até mesmo os eventos do tempo presente, mas sobretudo de indicar qual via deva ser percorrida para obtenção do equilíbrio interior e da salvação eterna. Portanto, três são os pólos temáticos sobre os quais gostaríamos de concentrar brevemente a nossa atenção: a educação para a vida, para a paz e para a vida comunitária que se reúne em torno à ideia de povo. Para enfrentar essas três complexas mas atualíssimas questões, o bispo de Hipona se apresenta como mestre em face de seus discípulos, cuja confiança nos confrontos dos interlocutores nasce da esperança e do conhecimento da alma humana, capaz e rica de potencialidade, mas também da determinação de quem sabe que precisa ainda tornar compreensíveis os conteúdos da fé.

Palavras-chave: Educação para a vida; Paz; Vida comunitária; Ideia de povo; Conhecimento da alma humana; Fé

Abstract

In this paper we are examined educational tasks undertaken by the Bishop of Hippo through the drafting of the text on the City of God. In fact, since the opening of the work, he assumes the burden of teaching not only the main contents of the Christian religion, able to illuminate the events of the present time, but above all to indicate which way should be walked for the achievement of inner balance and eternal salvation. Three so the thematic poles on which we would like to briefly focus our attention: education to life, to peace and to the community that gathers around the idea of people.To address these three complex, but also very timely issues, the bishop of Hippo looks like a teacher before his disciples, whose confidence with respect to suppliers arises from the experience and knowledge of the human soul, capable and rich in potential, but also by the determination of who knows he must still make comprehensible the contents of faith.

Keywords: Education for life; Peace; Community life of people; Knowledge of the human soul; Faith

Premessa

L’interesse per l’impegno educativo di Agostino occupa un posto di rilievo nella vasta gamma degli studi sul vescovo di Ippona1. Il riferimento immediato sul quale si è concentrata l’attenzione degli studiosi è notoriamente il dialogo De magistro in cui, accanto al tema fecondo del maestro interiore, vengono discusse le possibilità dell’insegnamento e dell’istruzione.

Pur riconoscendo la fecondità dei temi esposti nel dialogo agostiniano che rimane un utile punto di riferimento anche per il nostro lavoro, nel presente saggio vorremmo, tuttavia, soffermarci sui compiti educativi assunti dal vescovo di Ippona attraverso la redazione del testo sulla Città di Dio. Infatti, fin dall’apertura dell’opera egli si assume, per così dire, l’onere di insegnare non solo i principali contenuti della religione cristiana, capaci di illuminare anche sulle vicende del tempo presente, ma soprattutto di indicare quale via debba essere percorsa per il conseguimento dell’equilibrio interiore e della salvezza eterna2.

Tre quindi i poli tematici sui quali vorremmo, brevemente, concentrare la nostra attenzione: l’educazione alla vita, alla pace e alla vita comunitaria che si raccoglie intorno all’idea di popolo.

Per affrontare queste tre complesse, ma anche attualissime questioni, il vescovo di Ippona si presenta come un maestro dinanzi ai suoi discepoli, la cui fiducia nei confronti degli interlocutori nasce dall’esperienza e dalla conoscenza dell’animo umano, capace e ricco di potenzialità, ma anche dalla determinazione di chi sa di dover comunque rendere comprensibili i contenuti della fede.

Egli, dunque, come una guida attenta si preoccupa di offrire ad ognuno la bussola per orientarsi nel proprio pellegrinaggio temporale e in vista di quello eterno.

1. Educare alla vita: tra la vergogna e la ragione

Dinanzi ai disastri causati dall’indebolimento morale dei romani, incapaci di resistere agli attacchi dei barbari, Agostino cerca di respingere le accuse rivolte ai cristiani3 e, nel contempo, sottolinea come il Cristianesimo sia portatore di valori autenticamente universali, centrati sul riconoscimento della dignità della persona umana, in quanto tale.

Di questo si avvidero persino i barbari che ebbero rispetto per coloro che, durante i saccheggi delle città, si rifugiavano dentro i templi consacrati a Dio e non agli dei4. Prima dei romani, i barbari ebbero una qualche forma di rispetto e di considerazione verso la religione cristiana.

Proprio a partire da questo riconoscimento inizia l’insegnamento di Agostino che si focalizza sul primato della dimensione interiore e sul rispetto della vita umana. Egli, infatti, dopo aver invitato a pensare agli uomini non in base alla loro appartenenza civile e religiosa, ma all’inclinazione che rende migliori o peggiori, a seconda dell’autenticità e sincerità con le quali ciascun essere umano affronta le avversità e le sofferenze: i giusti con pazienza e sacrificio, i malvagi con rabbia e desiderio di vendetta5, si persuade che anche da un’esperienza così cruenta, come è il sacco di Roma, gli uomini di fede possono ricavare un qualche insegnamento.

In primo luogo, la devastazione dei barbari costringe i credenti a fare i conti con l’effettiva importanza che ciascuno assegna alla vita spirituale. I fedeli, infatti, non si comportano tutti allo stesso modo, dimostrando in alcuni casi di essere effettivamente distaccati dalle cose del mondo, mentre in altri di essere mortalmente dipendenti dalla materia. Per questo motivo, solo coloro che pongono, quotidianamente e realmente, Cristo al centro della loro vita possono sperare di essere salvati, anche in mezzo alle torture, mentre per gli altri il desiderio di salvaguardare prima i beni e poi il Bene erode avidamente la vita spirituale e aumenta l’onda d’urto della disperazione, rendendo incapaci di resistere a qualunque sofferenza che, a causa della mancanza della fiducia in Dio, si rivela insensata, inaccettabile, cruenta e genera un insaziabile desiderio di vendetta6.

Questo avvertimento anticipa il motivo centrale dell’insegnamento sul senso del vivere. Il vescovo d’Ippona cerca, infatti, per un verso di riconoscere, senza banalizzarne la dimensione tragica, quella che potremo definire l’indifferenza della morte e, per l’altro, ribadisce il carattere illecito del suicidio che non può essere ammesso nemmeno come soluzione rispetto al male inflitto dall’esterno, perché il vero male è solo quello che viene dall’intimo, l’unico in grado di comprometterne, fino a deturparla, la bellezza e la dignità dell’uomo. Nel togliersi la vita, come vedremo, non viene riparato il male, ma solo generato un secondo quello di colui o colei che decide di togliersi la vita.

Da un certo punto di vista, spiega Agostino, è possibile dire che la morte è indifferente, nella misura in cui questa ha il merito di mettere gli uomini tutti sullo stesso piano, non solo perché non vi è alcuno che possa non morire, ma anche perché chiede alla vita, sia essa lunga o breve, di misurarsi, sempre e comunque, con l’evento che le è maggiormente contrario: il finire7.

Siamo in tal senso incoraggiati a spostare il fuoco della nostra attenzione dalla morte alla vita rispetto alla quale ciò che conta non è tanto la durata che, almeno fino ad un certo punto non dipende da noi, quanto piuttosto l’intensità. Gli uomini, in altre parole, dovrebbero angosciarsi di meno a causa della morte e pensare di più alla qualità e al senso che danno alla loro vita8. Ci sono vite vissute da morenti e persone che arrivano alla morte dopo aver intensamente ed energicamente vissuto ogni istante della loro vita. Come verrà ampiamente trattato nel libro XIII la morte fisica è un istante impercettibile in cui si attua il passaggio tra il non già e il non ancora.

Il vescovo di Ippona è attento e consapevole della profonda sofferenza e dell’umiliazione subita da molte donne vittime di violenze e di soprusi, la cui dignità, soprattutto durante le scorrerie dei barbari, è stata gravemente offesa. A queste donne si accosta con comprensione e rispetto, per mostrare loro che la violenza esteriore può ferire senza macchiare e offendere senza, tuttavia, cancellare la dignità dell’essere personale.

Chiamato a rispondere anche della possibile scelta di quelle donne che, avvertendo il disonore, decidono di darsi la morte, Agostino ripete che la morte non è la soluzione del male, ma in un certo senso ne è la sua riproduzione, infatti, pensare di potersi sottrarre al male subito togliendosi la vita non cancella il male commesso da altri, anzi, spiega Agostino, lo raddoppia9.

Pensando di suggerire alle donne violentate una soluzione diversa dal suicidio, Agostino però, accentua l’idea di una possibile scissione tra fisico e spirituale, che non è senza difficoltà, anche in riferimento ad una visione unitaria dell’essere umano sostenuta, come vedremo, nel prosieguo del testo; egli sostiene, infatti, che, quand’anche il corpo venga violato, la parte spirituale, se è rimasta retta e casta, non potrà essere oltraggiata da quella violazione10.

Per un verso viene espressa, in modo positivo e costruttivo, la capacità umana di separarsi da sé, per cui nel momento in cui viene effettuata una violenza, l’essere umano sembrerebbe capace di distanziarsi e distaccarsi fino a quasi non essere contaminato dal male che si sta compiendo su di lui11. Per l’altro anche salvaguardano la validità di questa intuizione è difficile sostenere che una persona che subisce violenza si senta ferita solo nel corpo, perché la mortificazione subita traccia un solco profondo nell’anima, una lesione indelebile, che può anche indebolire e demotivare irrimediabilmente l’originaria tensione al bene12. Nei casi di violenza fisica è forse impossibile sostenere che non venga contaminato lo spirito, non nel senso temuto da Agostino di un acconsentire alla perversione del carnefice, ma nel senso che è tutta la persona ad essere coinvolta: la dimensione fisica, come quella spirituale, che vi è incarnata.

Del resto è pur vero che l’Ipponate vuole soprattutto difendere la purezza della disposizione interiore e ribadire il rapporto tra mezzi e fini, per mostrare come la dimensione fisica dell’essere umano deve essere intesa come uno strumento in rapporto a quella spirituale e non viceversa. Da qui dipende anche il diverso peso della colpa che non può essere attribuita alla vittima, se questa non ha mai manifestato alcun compiacimento alla passione perversa dell’altro, da cui è stata travolta. In effetti, spiega Agostino: “Con questo evidente ragionamento noi affermiamo che anche se il corpo è contaminato, ma il proposito della volontà non muta per consenso al male, il peccato è soltanto di chi si è unito carnalmente con la violenza, non di colei che sopraffatta lo ha subito senza volere”13.

In questa prospettiva, due sono i motivi che rivestono un certo interesse sotto il profilo morale: anzitutto il riconoscimento secondo il quale l’esteriore non può contaminare l’interiore. L’interiorità appare, da questo punto di vista, come una roccaforte blindata contro il nemico, che può essere espugnata solo da noi stessi; infatti, questa fortezza è, come mostra nel VIII libro delle Confessioni14, agitata solo da contrasti interni che possono giungere anche a lacerare la volontà fino a spezzarla e a farla allontanare dal bene15. Da qui sorge anche la responsabilità che riguarda la purezza e la rettitudine del nostro essere interiore, che deve essere salvaguardato e custodito, affinché il male che altri compiono sia estromesso dalla vita spirituale e non provochi alcun genere di corruzione morale16.

Siamo dunque responsabili non del male inflitto dall’esterno, ma della nostra capacità di resistere17; da questa nostra disposizione al bene dipende anche l’attitudine a guardare a noi stessi con stima e rispetto e scoprire nella vita le risorse e le risposte per risollevarsi dall’abisso di dolore nel quale rischiamo di sprofondare. Per questo motivo le parole del vescovo d’Ippona sono necessarie, come lo erano quelle contenute nell’opera De vera religione, che, come è stato sottolineato, rappresenta un modello di insegnamento per la vita cristiana18.

In secondo luogo viene riaffermata la centralità della volontà alla quale è affidato il controllo della vita morale; se il volere, anche nelle peggiori avversità, sarà capace di rimanere stabile nella linea del bene, non potrà essere oltraggiato, mentre se non sarà in grado di resistere alle provocazioni e seduzioni del male, allora dovrà vergognarsi non del peccato subito, ma unicamente di quello commesso cedendo al negativo.

Tutto, come noto, dipende dalla volontà, la quale, del resto, vive in una conflittualità perenne19, che le impedisce di assicurare il recte agere. A questo riguardo, sottolinea anche Sciuto, la volontà “può come ogni creatura, venir meno e tendere al nulla - deficere - in quanto prende la sua origine ex nihilo; come, dunque, è ontologicamente produttiva se compie il bene, mossa da causae efficientes, così è ontologicamente negativa se compie il male, mossa da causae deficientes. Ma la defezione, per la sua stessa natura, non è necessaria bensì libera”20.

Per essere coerente con la propria costituzione originaria la volontà, come ogni altro bene, deve in ogni caso tendere all’armonia e alla pace. Queste sono, infatti, le caratteristiche essenziali delle nature create verso le quali conduce anche la riflessione di Agostino che si estende ad esplorare l’universalità e l’inevitabilità della pace.

2. Educare ad amare la pace

La pace costituisce il fine più universale, quello a cui tendono tutti gli esseri umani, quasi una via d’accesso per conoscere e comprendere i desideri degli uomini e le loro possibilità di realizzazione, perché fondamentalmente essa non è un fine estrinseco, ma è all’inizio di tutto. Il tendere dell’uomo è finalizzato a conseguire un bene stabile e duraturo. Essere felici è non avere contrasti che possano contristare l’animo e perdurare in una condizione di generale benessere fisico ed interiore, perciò, spiega Agostino “potremmo dire che la pace è il fine del nostro bene”21.

Viene qui a saldarsi ciò che attraverso il male si era separato. Se per mezzo del male subito possiamo distaccarci da noi stessi, per essere felici e vivere in perfetto accordo è necessario che tutto il nostro essere viva in armonia22. La pace, dunque, che è il fine universale a cui aspirano gli esseri umani, rappresenta anche un importante fattore di coesione umana e sociale23.

Paradossalmente anche un’associazione di banditi deve essere regolata secondo una certa armonia ed un certo equilibrio, altrimenti viene ad essere minacciata l’intera organizzazione e persino impedito il successo delle azioni scellerate prefigurate. E del resto nemmeno del peggiore degli uomini può dirsi che non viva in pace24.

La pace indica l’ordine con cui si armonizzano le diverse parti del corpo fisico e sociale. Per dirlo con le parole di Ghisalberti: “La pace, in tutte le sue forme e manifestazioni, si appella all’ordine, dunque a un bonum, a qualcosa di positivamente esistente, che trattiene in sé una disposizione ordinata per potersi rivelare come bounum, a qualsiasi grado della scala dei beni esso si collochi”25.

Mostrare che vi è una pace del corpo ed una dell’anima, una pace che investe i rapporti familiari, civili e mondiali significa ammettere che a ciascuno di noi è anche affidato un compito nella vita, in quella temporale come in quella eterna: mantenere l’originaria tensione al bene e perdurare in esso. Siamo disposti in modo armonico, fin dall’inizio: la nostra costituzione corporea, come quella spirituale posseggono una naturale propensione all’accordo che è necessaria per la sopravvivenza. Il corpo non potrebbe vivere e riprodursi senza l’equilibrio dei suoi organi, così pure le facoltà umane non realizzano il loro fine più proprio, la comprensione o l’espressione dei sentimenti, se si occupano ciascuna di qualcosa di diverso rispetto alle loro rispettive inclinazioni.

In controtendenza rispetto al discorso svolto in precedenza, Agostino arriva ad affermare che la parte fisica e quella spirituale non solo devono tendere ad armonizzarsi ciascuna per se stessa, ma sono anche interdipendenti in modo che l’una non possa sussistere senza l’altra. Così Agostino: “Se manca la pace del corpo è ostacolata la pace dell'anima irragionevole perché non può raggiungere la placazione degli impulsi. L'una e l'altra insieme favoriscono quella pace che hanno l'anima e il corpo nel loro rapportarsi, cioè la pace di una vita ordinata in buona salute”26.

La spinta con cui gli uomini aspirano al mantenimento dell’ordine originario è l’amore. L’ordine, infatti, da cui dipende la pace deve essere garantito solo mediante l’amore, lo stesso che il Creatore ha impresso alla creatura, per mezzo della creatio ex nihilo. Tutto, dunque, nella vita dell’uomo parla il linguaggio dell’amore che si rivela come norma, sigillo o regola a cui aderire e per mezzo del quale perdurare.

Veniamo traghettati dall’origine alla fine: dalla pace alla beatitudine celeste per mezzo dell’amore, che chiede di essere incarnato ed espresso in ogni circostanza e situazione. Amare è anche essere educati ed educare il prossimo a scoprire la propria costituzione e vocazione: “Ora Dio maestro insegna due comandamenti principali, cioè l'amore di Dio e l'amore del prossimo (Cf. Mt 22, 34-40; Mc 12, 28-31; Lc 10, 27-28), nei quali l'uomo ravvisa tre oggetti che deve amare: Dio, se stesso, il prossimo, e che nell'amarsi non erra chi ama Dio. Ne consegue che provvede anche al prossimo affinché ami Dio perché gli è ordinato di amarlo come se stesso, così alla moglie, ai figli, ai familiari e alle altre persone che potrà e vuole che in tal modo dal prossimo si provveda a lui, se ne ha bisogno”27.

I fedeli vivono ogni esperienza e ogni legame nel segno della libertà e della responsabilità. Per mezzo dell’amore si aprono all’esperienza radicale dell’incontro con la novità rappresentata dall’altro, rispetto al quale è sempre necessario prendere una decisione: o scommettere sulla possibilità che, nella e dalla relazione, sia sempre possibile qualcosa di nuovo e di ulteriormente indeducibile, oppure ripiegare verso il terreno e più conosciuto, ma forse anche più arido, dell’essere individuale che, nella sua voracità, persegue gli interessi più disparati, anche i più mediocri, pur di conquistare un potere.

3. Il popolo in cammino verso la città celeste

Un ultimo nucleo di considerazioni può dunque, a questo punto, essere svolto proprio attorno alla nozione agostiniana di popolo28. Infatti, se dall’amore retto e perverso sorgono due città e da queste due popoli29 e se, come dice Agostino, il popolo è “l’insieme degli esseri ragionevoli, associato nella concorde comunione delle cose che ama”30, possiamo ricavare degli indizi utili anche per definire i caratteri dell’essere educati a vivere nella e della comunione fraterna che unisce i credenti, rendendoli un popolo e non una somma di singolarità indipendenti.

Agostino ci pone in effetti dinanzi ad un diverso modo di concepire l’identità comunitaria, sollevandola dai pesi e dalle ristrettezze del tempo presente per innalzarla verso una piena e definitiva realizzazione.

Nell’accogliere pienamente definizione agostiniana di popolo, riconsideriamo i membri della comunità cristiana, i quali non vengono identificati in riferimento ad un principio giuridico o geografico, ma al riconoscimento dell’amore che unifica e fonda ogni altro legame interumano. In base a questo nuovo apprezzamento si ridefinisce anche la nozione di Stato, nel senso che “lo stato di Dio è dunque la comunità della caritas, così come lo stato del mondo è la comunità della cupido. Cioè, l’intera dottrina di Agostino circa la caritas, riccamente sviluppata, viene ora inserita nella dottrina sulla civitas31.

In tal modo, da una parte, come è stato osservato, “Agostino riconosce alla civitas Dei peregrinans una valenza essenzialmente profetica ed escatologica, ponendola al riparto dal doppio pericolo della temporalizzazione, che la irrigidirebbe in istituzione storico-politica, e della spiritualizzazione, che la ridurrebbe, vanificandola, a una figura atemporale e indifferente”32; dall’altra viene riaffermato il primato della vita interiore su quella esteriore. Infatti, “sostenendo il primato dell’interiorità e dell’amore come fattori costitutivi della civitas e dell’idea stessa di populus, egli pone le premesse per un profondo ripensamento dei legami della vita associata, qualificata in ultima analisi dalla natura dei fini ultimi autenticamente perseguiti, più che dall’appartenenza puramente fattuale ed esteriore, anche se tutelata dalla forma del diritto”33.

L’essere umano si scopre guidato dalla verità che abita nell’interiorità (De v. rel. 39,72) e influenza il modo di scegliere e vivere i propri legami34. Questi ultimi, infatti, possono essere pienamente vissuti solo se istruiti dalla pienezza dell’amore che, donandosi, non perde niente della propria ricchezza, ma anzi conforta, sostiene e riempie incessantemente coloro che gli si rivolgono e lo cercano. Chi vive secondo questo modello altruistico, in cui al primo posto vi è il donare piuttosto che il ricevere, è già interiormente unito a coloro che riconoscono in Cristo il loro principio e modello35.

Il popolo romano, a cui Agostino ha accordato la dignità di popolo proprio perché ha saputo coagularsi attorno all’amore della gloria e della giustizia, è stato pertanto superato dal popolo cristiano a cui l’Amore stesso si è rivelato affinché a tutti sia concessa la possibilità di confidare in Lui. Attratti e risanati dall’amore, i credenti, in ogni tempo e in ogni parte del mondo36, sono chiamati a vivere in comunione rispettando l’ordine che è stato loro imposto dal Creatore, infatti, “anche quando potrebbe sembrare che l’anima comandi in modo encomiabile sul corpo e la ragione sui vizi, se l’anima e la ragione non sono al servizio di Dio come Egli ha comandato di essere servito, non possono assolutamente comandare in modo giusto al corpo e ai vizi”37.

Da qui si comprende che esistono un amore retto e un amore perverso che orientano il vivere; se per un certo verso è necessario individuare come criterio identificativo del popolo la condivisione dell’amore per il medesimo bene, per l’altro è opportuno stabilire una gerarchia tra diversi generi di amore. Vi è, infatti, spiega Agostino, “un amore con cui si ama ciò che non si deve amare; esso è disprezzato da chi possiede l’amore, con cui si ama ciò che si deve amare. Entrambi questi amori possono coesistere nell’individuo; il bene dell’uomo è quando, aumentando l’amore con cui viviamo bene, diminuisce l’altro con cui viviamo male, finché non si sia risanati alla perfezione e tutta la nostra vita della carne e ciò che è secondo i suoi sensi”38.

Il popolo cristiano è stato, dunque, costituito attorno alla verità di un evento che si è realizzato nella storia, ma che di per sé è oltre la dimensione della temporalità. La patria dei credenti in Cristo, dunque, è solo provvisoriamente il mondo, perché definitivamente essa è situata nell’ordine intemporale39. Tutto questo modifica la percezione dell’essere e del vivere, del legare e dello sciogliere tutti i legami40.

I cristiani, spiega il vescovo di Ippona, vivono nel mondo come estranei, pellegrini che attendono di raggiungere la loro vera patria situata altrove, in alto41.

Così, Agostino invita a considerare ciò che è stato dato. La giustizia terrena può in qualche modo avvicinare gli esseri umani alla perfetta giustizia, che è quella divina; la giustizia mondana può, in altre parole, riconoscere il principio a cui tutto è dovuto, ovvero le è dato sapere che tutto ciò che esiste proviene da Dio e niente di ciò che è umano può essere stabilito al di fuori di Lui, senza perdere in dignità e perfezione. Pretendere di sottrarsi all’ordine non rende l’uomo più libero, ma lo fa sprofondare nel disordine; l’umana giustizia allora ha il dovere di ricondurre tutto al principio da cui è stata posta42.

La perfetta giustizia non prescrive solo il dovere, essa cioè non consiste solo in un criterio formale, ma si incarica anche di indicare ciò che all’uomo spetta di eseguire: il retto amore43. È in definitiva solo l’amore che rende un insieme di individui un popolo. Un amore che non è puro desiderio, ma ordinata dilectio, nella misura in cui ama prima di tutto il fondamento dell’amore e poi esegue il comandamento dell’amore del prossimo: “Non vi può essere dunque un insieme di uomini associato da un accordo giuridico e da comunione d’interessi, se manca questa giustizia, per la quale l’unico e sommo Dio comanda alla città che, obbedisce, secondo la sua grazia, perché nessuno offra sacrifici se non a Lui; una giustizia per la quale in tutti coloro che appartengono a questa città e obbediscono a Dio l’anima comanda al corpo e la ragione ai vizi, fedelmente e nel giusto ordine; una giustizia per la quale ogni singolo giusto, come pure un insieme o un popolo di giusti, vive della fede, la quale spinge ad amare Dio come deve essere amato e il prossimo come se stesso. Se non vi è questo, sicuramente non vi è popolo, se è vera questa definizione di popolo. Non vi è neppure uno Stato, poiché non c’è cosa del popolo dove non c’è popolo”44.

Se l’uomo pretende di agire rivendicando la propria totale autonomia e autodeterminazione, perde se stesso, la propria integrità e s’incammina verso le tenebre della dimenticanza e della lontananza dal bene45.

Incoraggiandosi gli uni gli altri e uniti nel riconoscere i beni che sono stati donati, i credenti si affidano alla misericordia del divino ordinatore per conseguire la perfetta concordia, non quella stabilita dalle regole del mondo, che sono state indicate dalle imperfette volontà degli uomini, ma da quella divina giustizia, in cui consiste anche la vera pace: “In quella pace finale, poi, a cui deve tendere questa giustizia, che deve essere rispettata per poter conseguire quella pace, la natura risanata nella immortalità e nella incorruttibilità non avrà più nessuna corruzione e nessuno di noi incontrerà più alcuna resistenza, esterna o interna; non sarà più necessario per questo che la ragione comandi su vizi che ormai non esisteranno più, ma Dio comanderà all’uomo, l’anima al corpo, e sarà dolce e facile l’obbedienza, come felice la vita regale. Tutto ciò lassù sarà eterno, come è certo, in tutti e in ciascuno, e per questo la pace di quella felicità o la felicità di quella pace sarà il sommo bene”46.

Da tutto ciò si può osservare come “tutte le volontà che tendono alla pace di Dio formano il popolo della città di Dio; tutte le volontà che tendono alla pace di questo mondo come al loro fine ultimo, formano il popolo della città terrena. Il primo popolo comprende quanti usano del mondo per godere di Dio; il secondo tutti quelli che, se anche riconoscono un Dio o degli dèi, pretendono di usarne per godere del mondo”47.

Si ridefiniscono in tal modo i termini di un’appartenenza alla civitas Dei peregrinans, capace di estendersi al di là di tutti i confini e di esplicitare un’idea di comunione spirituale, grazie alla quale sia permesso agli uomini di riconoscersi come membri di una città che si dispiega nel passato, nel presente e nel futuro, poiché tutti i suoi cittadini sono in cammino verso la comune patria del cielo. Là conosceranno perfetta giustizia, letizia e pace e potranno finalmente godere di quel bene che durante il viaggio hanno potuto solo desiderare. Gli abitanti di questa civitas Dei non conoscono turbamento perché ad essi è concessa una beatitudine perfetta e stabile, a cui aspirano tutti gli uomini fin dal loro sorgere: “Tutto ciò lassù sarà eterno, come è certo, in tutti e in ciascuno, e per questo la pace di quella felicità o la felicità di quella pace sarà il sommo bene”48.

Ma il tendere e il camminare verso la meta non preserva gli uomini dalla possibilità di distogliere lo sguardo e di dirigersi, anche se solo provvisoriamente, altrove. Da questa alternativa si rende possibile una doppia cittadinanza: celeste, per il fine ultimo che si intende perseguire e terrena, per l’attrazione che, momentaneamente, subiamo e dalla quale facciamo fatica a liberarci. Anche la Chiesa è la conferma materiale di questa duplice possibilità. In essa, infatti, convivono santi e peccatori, senza che una tale commistione indebolisca la tonalità spirituale del suo essere manifestazione visibile del popolo di Dio49.

L’esito del pellegrinaggio temporale è indicato nella visione sul giudizio finale nel quale la città celeste e il suo popolo, ovvero tuti coloro che hanno desiderato mantenere la rotta dell’amore, saranno finalmente saziati, i desideri soddisfatti, le lacrime asciugate e non vi sarà chi non sia stato consolato.

Presa alla lettera, la visione finale dice di un solo popolo e di una sola città, nella quale regna su tutto il bene50. È la città e il popolo dei salvati, redenti e uniti dall’amore la cui verità regna senza fraintendimenti e confusioni, in cui tutto è chiaro e manifesto e i fratelli si soccorreranno gli uni gli altri e coopereranno per realizzare tutte le opere del Signore. Un popolo questo che comprende gli uomini più disparati, ma che non coincide con la totalità degli uomini di ogni razza e di ogni epoca, “poiché moltissimi saranno nei tormenti”51.

Un solo popolo, tanto vasto quanto fedele all’amore e una sola città, questa è la realtà che Agostino considera come la terra promessa dell’uomo, la vera patria per la sua piena e definitiva realizzazione. Questo destino, che vede come termine la ricostituzione di un’unità, come lo era all’inizio l’alleanza tra creatura e Creatore, è il pieno compimento dell’essere e dell’attesa dei cristiani che riconoscono nell’orizzonte intemporale il Bene in vista del quale anche il possesso degli altri beni ritrova il suo significato.

Educarci a vivere come cittadini della città celeste richiede un investimento senza limiti di tempo e di energia, essere capaci di realizzarlo senza voltarsi indietro è la sfida più provocante e, per certi versi, anche più seducente del vivere temporale, perché “quella città avrà una volontà libera, una in tutti e inseparabile in ciascuno; liberta da ogni male e ricolma d’ogni bene, godendo indefettibilmente nella letizia dei gaudi eterni, dimentica delle colpe e delle pene, sena dimenticare però la sua liberazione e senza essere ingrata verso il suo liberatore”52.

1Sui temi dell’educazione in Agostino si vedano tra gli altri i seguenti studi: J. M. Colleran, The Treatises De magistro of St. Augustine and St. Thomas, Roma 1945; T. Gregory, Il maestro interiore nel pensiero di s. Agostino, in B. Nardi (ed.), Il pensiero pedagogico nel Medioevo, Firenze 1956, pp, 3-19; A. Locher, Augustins Erkenntnislehre in der Dialog De magistro und das Problem ihrer Interpretation, Tübingen 1960 (inedito); V. Palazzolo (ed.), La pedagogia del maestro interiore, Bologna 1961; G. Belotti, L’educazione in S. Agostino, Bergamo 1963; E. Kevane, Augustine the Educator. A Study in the Fundamentals of Christian Formation, Westminster (MD) 1964; L. P. Patané, Il pensiero pedagogico di S. Agostino, Bologna 1967; R. Calzecchi Onesti (ed.), Sant’Agostino, Educazione al cristianesimo, Vicenza 1967; G. Howie, Educational Theory and practice in St. Augustine, New York 1969; G. Howie, St. Augustine: on Education, Chicago 1969; Aa. Vv., Sant’Agostino educatore, Atti della Settimana agostiniana pavese 16-24 aprile 1970, Pavia 1971; G. Madec, Analyse du De magistro, in REAugus 21, 1975, pp. 63-71; M. Casotti, I De magistro di S. Agostino e di S. Tommaso, in Aa.Vv., Nuove questioni di storia della pedagogia, I, Brescia 1977, pp. 365-386; D. Kidester, The Simbolism of Learning in St. Augustine, HThR, 76, 1983, pp. 73-90; N. Cipriani, La pedagogia della preghiera in S. Agostino, Palermo-Rocca 1984; A. F. Valenzuela, San augustín de Hipona, teoría y arte pedagógicas, Valparaiso 1984; T. Borsche, Macht und Ohnmacht der Woerter. Bemerkungen zu Augustins De Magistro, in Aa.Vv., Sprachphilosophie in Antike und Mittelalter, Amsterdam 1986, pp. 121-161; M. Perrini, Cultura e risveglio delle coscienze nel “primo” Agostino (386-391), in Humanitas, 42, 1987, pp. 355-388; E. Silvestrini, L’educazione come processo interiore: S. Agostino e S. Tommaso: confronto con la pedagogia moderno-contemporanea, Roma 1992; J. P. Drucker, Teaching as Pointing in the Teacher, in AugStud 28, 1997, pp. 101-132.

2“Nell'ideare questa opera dovuta alla promessa che ti ho fatto o carissimo figlio Marcellino, ho inteso difendere la gloriosissima città di Dio contro coloro che ritengono i propri dèi superiori al suo fondatore, sia mentre essa in questo fluire dei tempi, vivendo di fede è esule fra gli infedeli, sia nella quiete della patria celeste che ora attende nella perseveranza finché la giustizia non diventi giudizio e che poi conseguirà mediante la supremazia con la vittoria ultima e la pace finale. È una grande e difficile impresa ma Dio è nostro aiuto. So infatti quali forze si richiedono per convincere i superbi che è molto grande la virtù dell'umiltà. Con essa appunto la grandezza non accampata dalla presunzione umana ma donata dalla grazia divina trascende tutte le altezze terrene tentennanti nel divenire del tempo. Infatti il re e fondatore di questa città, di cui ho stabilito di trattare, nella scrittura del suo popolo ha rivelato un principio della legge divina con le parole: Dio resiste ai superbi e dà la grazia agli umili. Anche il tronfio sentimento dell'anima superba vuole presuntuosamente che gli si riconosca fra le glorie il potere, che è di Dio, di usare moderazione con i soggetti e assoggettare i superbi. Perciò anche nei confronti della città terrena la quale, quando tende a dominare, è dominata dalla passione del dominare anche se i cittadini sono soggetti, non si deve passare sotto silenzio, se si presenta l'occasione, ciò che richiede la tematica dell'opera in progetto” (De civ. Dei, 1).

3Nel frattempo Roma era stata distrutta dalla violenta e disastrosa irruzione dei Goti, guidati dal re Alarico. I cultori di molti e falsi dèi che siam soliti chiamare pagani, nel tentativo di imputare alla religione cristiana la distruzione della città, incominciarono con maggiore asprezza ed animosità del solito a bestemmiare il vero Dio. Ardendo di zelo per la casa di Dio(Sal 68, 10; Gv 2, 17) decisi di scrivere dei libri su la città di Dio, per controbattere i loro errori blasfemi. L'opera mi ha tenuto occupato per alcuni anni in quanto continuavano a frapporsi molte altre indilazionabili incombenze al cui disbrigo ero tenuto a dare la precedenza. Questa estesa opera su la Città di Dio finì col comprendere, una volta terminata, ben ventidue libri. I primi cinque libri confutano coloro secondo i quali l'umana prosperità esigerebbe come condizione necessaria il culto dei molti dèi venerati dai pagani, mentre sarebbe la proibizione di tale culto a provocare l'insorgere e il moltiplicarsi di tanti mali. I successivi cinque libri sono rivolti contro coloro secondo i quali nella vita dei mortali questi mali non sono mai mancati in passato e non mancheranno mai in futuro e, ora grandi ora piccoli, variano a seconda del tempo, del luogo e delle persone. Ritengono però che il culto di molti dèi, con i sacrifici che comporta, sia utile ai fini della vita che verrà dopo la morte. I primi dieci libri, dunque, contengono la confutazione di queste due inconsistenti dottrine contrarie alla religione cristiana. Per evitare però l'accusa di criticare le teorie altrui senza esporre le nostre, abbiamo deputato a questo la seconda parte di quest'opera, che comprende dodici libri, benché anche nei precedenti ci sia capitato di esporre le nostre idee e di confutare nei dodici successivi quelle degli avversari. Di questi dodici libri i primi quattro trattano la nascita delle due città, quella di Dio e quella di questo mondo, i quattro successivi della loro evoluzione e del loro sviluppo, gli altri quattro, che sono anche gli ultimi, dei dovuti fini di ciascuna di esse. Tutti i ventidue libri, pertanto, pur trattando di entrambe le città, hanno mutuato il titolo dalla migliore, la Città di Dio. Nel decimo libro non avrebbe dovuto essere considerato come un fatto miracoloso che nel sacrificio di Abramo una fiamma venuta dal cielo fosse circolata fra le vittime divise (De civ. Dei 10, 8; Gn 15, 17): si trattava in realtà di una visione dello stesso Abramo (108). Nel libro diciassettesimo si dice che Samuele non era uno dei figli di Aronne (De civ. Dei 17, 5; cf. Retract. 2, 55, 2), ma si sarebbe piuttosto dovuto dire che non era figlio di un sacerdote. In realtà era più conforme alla consuetudine giuridica che i figli di sacerdoti subentrassero ai sacerdoti defunti. E fra i figli di Aronne si trova il padre di Samuele; non era però un sacerdote né era annoverato fra i figli di Aronne nel senso che fosse stato Aronne stesso a generarlo, bensì nello stesso senso in cui tutti i membri di quel popolo son detti figli di Israele. Quest'opera incomincia così: La gloriosissima città di Dio” (Retr, II, 43, 1, 2).

4“E tutto ciò che nella recente sconfitta di Roma è stato commesso di rovina, uccisione, saccheggio, incendio e desolazione è avvenuto secondo l'usanza della guerra. Ma si è verificato anche un fatto secondo una nuova usanza. Per un inconsueto aspetto degli eventi la rozzezza dei barbari è apparsa tanto mite che delle spaziose basiliche sono state scelte e designate per essere riempite di cittadini da risparmiare. In esse nessuno doveva essere ucciso, da esse nessuno sottratto, in esse molti erano condotti da nemici pietosi perché conservassero la libertà, da esse nessuno neanche dai crudeli nemici doveva esser condotto fuori per esser fatto prigioniero. E chiunque non vede che il fatto è dovuto al nome di Cristo e alla civiltà cristiana è cieco, chiunque lo vede e non lo riconosce è ingrato e chiunque si oppone a chi lo riconosce è malato di mente. Un individuo cosciente non lo attribuisca alla ferocia dei barbari. Animi tanto fieri e crudeli ha sbigottito, ha frenato, ha moderato fuori dell'ordinario colui che, mediante il profeta, tanto tempo avanti aveva predetto: Visiterò con la verga le loro iniquità e con flagelli i loro peccati ma non allontanerò da loro la mia misericordia (Sal 88, 33-34)” (De civ. Dei, I, 7).

5“Come in un medesimo fuoco l'oro brilla, la paglia fuma, come sotto la medesima trebbia le stoppie sono triturate e il grano è mondato e la morchia non si confonde con l'olio per il fatto che è spremuto dal medesimo peso del frantoio, così una unica e medesima forza veemente prova, purifica, filtra i buoni, colpisce, abbatte e demolisce i cattivi. Quindi in una medesima sventura i cattivi maledicono e bestemmiano Dio, i buoni lo lodano e lo pregano. La differenza sta non nella sofferenza ma in chi soffre. Infatti anche se si scuotono con un medesimo movimento, il fetidume puzza disgustosamente, l'unguento profuma gradevolmente.” (De civ. Dei, I, 8,2).

6De civ. Dei, I, 10, 3.

7De civ. Dei, I, 11.

8Come noto, il tema della morte viene ripreso nel XIII libro della Città di Dio, ma non è nostro l’obiettivo del presente studio affrontarlo

9De civ. Dei, I, 17.

10De civ. Dei, I, 18.

11È interessante notare su questo punto un’anticipazione della capacità della distanza messa a tema dagli autori dell’antropologia filosofica contemporanea. Per l’approfondimento di questo tema ci permettiamo di rimandare al nostro Dis-posizioni personali. L’eccentricità della persona nell’antropologia filosofica, in C. Danani, B. Giovanola, L. Perri, Filosofia per l’umano. Volume in onore di F. Totaro, Milano (in corso di pubblicazione).

12Su questo punto ci pare interessante la riflessione condotta anche da R. De Monticelli che osserva: “Ciò che “si vive” nella sfera dei sentimenti sensoriali - piacere e dolore “fisici” inerenti alle sensazioni - è la “superficie” o l’ “esterno” del proprio essere: le parti del corpo in cui questi sentimenti sensoriali sono localizzati, ma più generalmente le parti del corpo che sono coinvolte nell’esercizio delle funzioni vitali e sensoriali. Tuttavia è solo nella passività del piacere e del dolore fisico che mi sono per così dire dati i confini fisici del mio essere, dalla testa che duole al piede che qualcuno calpesta (…). I sentimenti vitali, in effetti, oltre a “stringere sulla realtà”, colorando di rosa o di nero l’atmosfera che circonda il soggetto, ne annunciamo l’effettivo stato vitale. Non dicono in che cosa io consisto, ma solo come sto, qual è il mio stato. In questo modo segnalano anche una caratteristica essenziale che la persona (…) condivide con ogni essere vivente che dipende da qualcos’altro per vivere, o la cui vita deve essere di continuo alimentata” (R. De Monticelli, L’allegria della mente. Dialogando con Agostino, Milano 2004, pp. 62-63).

13De civ. Dei, I, 19, 1.

14Conf. VIII, 5, 10.

15L’uomo, avverte anche R. Bodei, con Agostino “si scopre dividuo, irrimediabilmente dissociato da se stesso, opaco al proprio sguardo, soggetto e oggetto di una contesa che ne riproduce e replica in forma drammatica, un’altra quella che si svolge da epoche immemorabili tra Dio e demonio” (R. Bodei, Ordo amoris, Conflitti terreni e felicità celeste, Bologna 1991, p. 56).

16Da questo punto di vista occorre anche considerare, come fa Laura Boella, che “la coscienza della facoltà del volere nasce […] dall’esperienza di un dramma interiore, quello dell’ «io voglio, ma non posso», che in Paolo è interpretato come lacerazione di corpo e anima, mentre in Agostino viene riconosciuto come conflitto interno all’anima medesima e corrispondente alla sua capacità di volere e non volere contemporaneamente” (L. Boella, Hannah Arendt. Amor mundi, in L. Alici, A. Pieretti, R. Piccolomini (edd.), Eistenza e libertà. Agostino nella filosofia del 900/1, Roma 2000, p. 141).

17Come è stato osservato “il senso con cui Agostino intende la nostra responsabilità è molto forte e radicale: si tratta addirittura di una fondazione della responsabilità etica e di una responsabilità ontologica che noi abbiamo di noi stessi” (R. De Monticelli, Il libero arbitrio e la facoltà del nuovo: fra Agostino e noi, in A. Marini (ed.), Presenza e pensiero. La scoperta dell’interiorità, Milano 2004, p. 24).

18In particolare: G. Madec, Le De civitate Dei comme De vera religione, in R. Piccolomini (ed.), Interiorità intenzionalità nel “De civitate Dei” di Sant’Agostino. Atti del III° Seminario Internazionale del Centro di Studi Agostiniani di Perugia, Insitutum Patristicum Augustinianum, Roma 1991, pp. 7-33.

19Si vedano su questo punto le osservazioni di Hannh Arendt che ricorda: “Primo: la scissione interna alla Volontà è un conflitto, non un dialogo, ed è indipendente dal contenuto del volere. Una volontà cattiva non è meno divisa di una buona e viceversa. Secondo: allorché comanda al corpo, la volontà è solo un organo esecutivo della mente e come tale del tutto non problematica. Se il corpo ubbidisce alla mente è perché non è in possesso di nessun organo tale da rendere la disubbidienza possibile. Se la volontà, rivolgendosi a se stessa suscita la sua contro-volontà è perché l’operazione è del tutto mentale; una contesa è possibile solo tra eguali. Una volontà che fosse «intera», senza una contro-volontà, non potrebbe più, propriamente parlando, essere una volontà. Terzo: dal momento che è nella natura della volontà comandare ed esigere obbedienza, è pure nella natura della volontà che le si opponga resistenza. Infine nel quadro delle Confessioni non si dà nessuna soluzione all’enigma di questa facoltà «mostruosa»; in qual modo, ribelle a se stessa, la volontà attinga alla fine il momento in cui diviene «intera» resta un mistero” (H. Arendt, La vita della mente, Bologna 1987, pp. 414-415).

20I. Sciuto, Interiorità e male, in R. Piccolomini, Interiorità e intenzionalità nel “De civitate Dei” di Sant’Agostino. Atti del III° Seminario Internazionale del Centro di Studi Agostiniani di Perugia, Roma 1991, p. 109.

21De civ. Dei, XIX, 11.

22De civ. Dei, XIX, 10.

23De civ. Dei, XIX, 12, 1.

24Si veda su questo punto quanto lo stesso Agostino afferma in relazione al mitico personaggio Caco, cattivo e tuttavia bisognoso di vivere in pace. Cfr. De civ. Dei, XIX, 12, 2.

25A. Ghisalberti, Il filosofo e il dolore del mondo. Analisi del libro XIX del De civitate Dei, in L- Alici, A. Pieretti, R. Piccolomini, Il mistero del male e la libertà possibile (III): lettura del De civitate Dei di Agostino. Atti del VII Seminario del Centro Studi Agostiniani di Perugia, Roma 1996, p. 134.

26De civ. Dei, XIX, 14.

27De civ. Dei, XIX, 14.

28Su questo punto ci permettiamo di rimandare al nostro lavoro: Amor populi. Una rilettura del De civitate Dei di Agostino, in Hermeneutica. Annuario di filosofia e teologia, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 173-194.

29Cfr. É. Gilson, La città di Dio e i suoi problemi, Vita e Pensiero, Milano 1959, p. 59.

30De civ. Dei, XIX, 23.

31J. Ratzinger nel suo, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, Jaca Book, Milano 2005, p. 285.

32L. Alici, L’altro nell’io. In dialogo con Agostino, Città Nuova, Roma 1999, p. 133.

33Ibidem.

34Sulla disposizione interiore è opportuno riprendere le annotazioni di A. Rigobello sul dinamismo interno di intentio, extensio, e ditensio. Infatti, egli osserva che “L’uomo trova il suo equilibrio nel cogliere ciò che lo trascende: l’intentio è la ricerca e l’extensio è la risposta che orienta e rende sempre più incompiuta la ricerca perché la proietta sull’infinito. Da questa apertura viene la forza per superare le istanze dispersive della distentio (…). L’intentio è una condizione, non un’indicazione positiva; l’extensio è la vera risposta dell’anima che ha trovato il suo equilibrio allargando l’orizzonte oltre di sé (...). Si tratta di un non con-prendere, ossia un non possesso che è tuttavia un allargarsi, un tendere-a, un dilatarsi-su. È il momento dell’aprirsi all’iniziativa divina, dell’accoglimento della illuminazione. È il momento del « vivere la verità », il momento della pienezza” (A. Rigobello, Dalla verità a Dio, in Aa. Vv., Congresso Internazionale su s. Agostino nel XVI centenario della conversione, Institutum Patristicum « Augustinianum », Roma 1987, p. 224).

35Non dobbiamo dimenticare, infatti, che “in Agostino è incontestabile la presenza di una sapienza cristiana della storia. Ci si potrebbe già chiedere se, secondo lui, sarebbe possibile una semplice storia universale sena la rivelazione che, sola, ce ne rivela l’origine e il termine. Tuttavia, anche privata di tutto ciò che essa deve, secondo lui, alla rivelazione, la nozione di storia universale rimane possibile, poiché non è certo contraddittorio ammettere che tutti gli uomini possono essere considerati come un essere collettivo, la cui storia unica si svolge nel tempo. Sono allora in causa i limiti e il metodo di una storia siffatta, non la sua possibilità” (É. Gilson, La città di Dio e i suoi problemi, pp. 76-77).

36È stato osservato che “la storia profetica, come Agostino l’aveva intesa, poteva sorvolare i secoli concentrandosi sulle poche oasi che avessero un significato; «il corso rivelatore» delle due città, invece attraversa ogni età. Agostino avrebbe coraggiosamente tentato di rinvenire le tracce di entrambe le città, secolo dopo secolo, nei confusi racconti della storia biblica primitiva” (P. Brown, Augustine of Hippo, London 1967, 2000, tr. it. di G. Fragnito, Agostino d’Ippona (Nuova edizione ampliata), Einaudi, Torino 1971 e 2005, p. 321.

37De civ. Dei, XIX, 25.

38De civ. Dei, XI, 28.

39“Il nostro andare a casa significa quindi entrare nella comunità degli angeli; la meta fissata all’uomo è quella di diventare un angelo. Ma questa meta non è ancora raggiunta né nei credenti in Cristo ancor viventi né in quelli morti. Piuttosto l’assunzione del genere umano fuori dallo spazio cosmico, cui è assegnato secondo la sua condizione naturale, in un ambito cosmico del quale per sé non è capace, sarà preceduta da una trasformazione della carne e la nuova creazione. Nel frattempo questa intera eletta comunità sosta nell’estraneità di questa ora. In un certo senso certamente essa è già in alto, come esprime il sursum cor della celebrazione del sacrificio. Essa è in alto per la fede e la speranza.” (J. Ratzinger, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, p. 221).

40È opportuno sottolineare con Ruokanen che «according to the ederly Augustine, all the political societies of the world, large or small, past or present, are based on the same kind of foundation of collective selfish love. A minimal consensus on the object of that kind of love is sufficient for a consitution of a political society». (M. Ruokanen, Theology of Social Life in Augustine’s De civitate Dei, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1993, p. 142).

41Cfr. É. Gilson, La città di Dio e i suoi problemi, pp. 74-75.

42“La giustizia è la virtù che riconosce a ciascuno il suo. Quale giustizia dunque è quella dell’uomo che sottrae l’uomo stesso al vero Dio e lo sottomette a domini immondi? È proprio questo il riconoscere a ciascuno il suo? Chi toglie un campo a chi l’aveva comprato e lo consegna a chi non poteva vantarvi nessun diritto, è ingiusto; è forse giusto allora colui che si sottrae al potere di Dio che lo creò, e si pone al servizio degli spiriti del male?” (De civ. Dei, XIX, 21, 1, 976). Come osserva anche Curbelié: “La uera uirtus est liée à la uera pietas qui est la caritas (…). L’imperfection actuelle de sa justice rappelle constamment à l’homme vertueux qu’il doit tout à Dieu en qui, un joiur, sa uirtus trouvera sa perfection.” (P. Curbelié, La justice dans La cité de Dieu, Institut d’Études Augustiniennes, Paris 2004, pp. 268-269).

43Sul nesso tra amore e giustizia si veda anche A. J. Parel, Justice and love in the political thought of St. Augustine (1990), in J. Dunn, I. Harris (edd.), Augustine, II, Edward Elgar Publishing, Cheltenham-Lyme, 1997, pp. 405-417.

44De civ. Dei, XIX, 23, 5.

45De civ. Dei, XIX, 21, 2.

46De civ. Dei, XIX, 27.

47É. Gilson, La città di Dio e i suoi problemi, p. 64.

48De civ. Dei, XIX, 27.

49La complessità e la vastità di questo argomento non ci consentono in questa sede un efficace approfondimento del tema della Chiesa in Agostino per il quale si rimanda a Ratzinger, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, in particolare le pp. 141-158.

50Cfr. De civ. Dei, XX, 21.

51De civ. Dei, XX, 21.

52De civ. Dei, XXII, 30, 4.

Received: March 29, 2017; Accepted: October 18, 2017

Creative Commons License This is an open-access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License