Il nemico mortale più inquietante della vita contemporanea, dinanzi alla cui scatenata offensiva il pensiero e la cultura appaiono quanto mai impotenti e disarmate è senz’altro il relativismo etico. Questo, oltre a costituirsi come una vera e propria filosofia, è divenuto ormai un atteggiamento mentale supinamente e dogmaticamente accettato e condiviso con la massima disinvoltura spesso anche dalle persone colte e sensibili, impegnate nella ricerca spirituale.
Il relativismo è figlio dell’emotivismo, cioè di quell’atteggiamento di pensiero che si fonda sulla convinzione secondo la quale i valori e le preferenze assiologiche in materia di etica sono da attribuire alla sensibilità sentimentale ed emozionale tanto dei singoli quanto della comunità. E poiché si sa, de gusti bus non est disputandum, non ha senso impegnarsi in una fondazione razionale, intuitiva o intellettiva che dir si voglia, sottratta in ogni modo agli arbitri e ai capricci soggettivi. Il relativismo etico sostiene che tutte le valutazioni etiche sono accettabili ed apprezzabili, poiché non c’è modo di dimostrare la superiorità di alcune su altre. E così, tutte le civiltà, tutte le religioni, hanno pari valore e legittimità. L’etica ordinaria del nostro mondo civile che punisce l’assassino, il ladro, il truffatore, che condanna la pornografia e l’incesto, sarebbe in fondo, a trarre le conseguenze più radicali possibili da siffatta prospettiva, fondata sul costume, sulla consuetudine e sulla convenienza. Sarebbe in sostanza soltanto un’etica che consente il miglior adattamento possibile alla vita sociale e al benessere generale della collettività. Il “pensiero debole”, il “postmodernismo” in tutte le salse di certa sinistra neoborghese, nella sua querula e vaniloquente “vulgata” sono autori e complici di questo deplorevole e sciagurato sfascio. Un relativista conseguente non avrebbe nemmeno il diritto di indignarsi di fronte ai più scellerati ed efferati delitti ed alle atrocità delle torture, visto che in fondo dichiara apertamente che l’etica teoretica deve essere indifferente tanto al valore quanto al disvalore. Per fortuna ciò non succede mai. Anche il relativista scettico più accanito, felicemente autocontraddicentesi, partecipa di un mondo morale di valori condiviso; si indigna, prova compassione, dimostrando nei fatti ciò che respinge nella teoria. Ma è sempre un atteggiamento pericoloso ed unilaterale che acceca la mente di fronte a scelte morali difficilissime che si possono presentare nella vita. Ricordiamo che anche i relativisti scettici inglesi, con
D. Hume in testa, credevano bene o male in un moral sense innato e si rifugiavano in un’etica della simpatia. E’ incontestabilmente vero che c’è sempre stato nella storia della filosofia un relativismo etico, una scepsi etica, dai Greci, agli empiristi inglesi; su questi ultimi abbiamo detto qualcosa in un cenno brevissimo. Essi almeno credevano in un innato senso della simpatia e della compassione. Ci fu poi un movimento “libertino” fra i secoli XVI e XVIII. Ma i “libertini”, almeno i primi (Herbert di Cherbury, Collins, Bayle), con tutta la polemica aspra contro la religione ufficiale, si appellavano a dettami morali di una “ragione universale”. Che poi il movimento cosiddetto “libertino” sia degenerato nella più aperta e spudorata apologia dell’immoralità, fino ad arrivare al perverso marchese De Sade, questa è tutta un’altra storia. Gli scettici greci (Pirrone, di Elide IV-III sec. a.C., Enesidemo di Cnosso, I sec. a.C., Agrippa, I sec.d.C. ed infine Sesto Empirico (II-III secolo d.C.), rilevano le enormi differenze assiologiche tra le varie civiltà e le varie culture, riconoscono la mutevolezza delle preferenze morali da persona a persona, e ritengono che soltanto un’etica della compassione e della benevolenza universale, dell’atarassia come pratica dell’imperturbabilità e della solidità interiore dinanzi alle avverse fortune della vita può condurci ad un’etica condivisibile da tutti. Ma l’odierno relativismo non ha nemmeno questa risorsa. Nella sua stolta propaganda il relativista libertario sferra tutti gli attacchi possibili ed immaginabili ad ogni esito sospetto di metafisica e di teologia le quali a suo dire sono capaci soltanto di fabbricare mostri violenti e repressivi che abbattono e umiliano l’uomo. Il relativismo odierno proclama ad ogni piè sospinto di volere la libertà della persona, la sua incondizionata emancipazione individuale e sociale nell’esercizio di un imprescindibile, sacrosanto diritto a tutte le gratificazioni e a tutte le soddisfazioni possibili. Rifiuto assoluto di ogni sacrificio, di ogni sofferenza possibile, diritto incondizionato alla “felicità”, permissivismo assoluto e sovrano sono i suoi motivi preferiti. Ma come intende il relativismo l’essere della “ persona”? Questo è il punto fondamentale che ci mostra bene la via per fargli cadere la maschera, per farci vedere come dietro il suo presunto universalismo umanistico, la sua sollecitudine per il bene dei singoli e delle masse, si celi in realtà un ottuso dogmatismo della attualità bruta e cieca, del dato immediato naturalisticamente inteso e interpretato. La “persona” del relativismo altro non è che l’uomo naturale puro e semplice, impastato di istintualità, bisogni e desideri. L’uomo non è che il prodotto più raffinato dell’evoluzione della vita, che è poi sfociata nella produzione di un vivente consapevole di sé, capace del miglior adattamento possibile all’ambiente che gli consente di sviluppare nel modo più completo e più soddisfacente le aspirazioni sia individuali sia sociali al conseguimento e all’incremento del benessere e dei comforts della vita. Ed ora si mettono a nudo le basi reali del relativismo; un basso, vile e calcolante utilitarismo fondato su una dubbia metafisica dell’evoluzione, che denuncia tra l’altro l’uso ideologico di un’ipotesi scientifica che avrà pure qualche indizio a suo favore, ma nessuna prova decisiva.
Utilitarismo ed evoluzionismo sono i dogmi indiscussi, oggetto di venerazioni idolatrica e sacrale della cultura ufficiale che imprime il suo sigillo nel giornalismo, nella mezza cultura d’accatto che trionfa nei mass media, nella letteratura e nella saggistica commerciale. Il relativismo non è poi nemmeno un pensiero “laico”. E’ piuttosto “laicistico”. Infatti nel pensiero laico classico, almeno fino al Rinascimento e nelle prime espressioni del cosiddetto “libertinismo” si respirava ancora pur sempre un’atmosfera religiosa e si sentiva, nonostante l’opposizione ferma e recisa alla Chiesa ufficiale, l’alito di uno spirito religioso, nulla di tutto questo vive ormai nel laicismo contemporaneo. Il laicismo è assolutistico. E’assolutismo del dato naturale, dell’homo natura, contraddistinto da una ratio calcolatrice e progettante che si innesta in una fisicità istintuale e in una psichicità concepita in termini unicamente egocentrici. Il relativismo laicista finge tolleranza e rispetto delle differenze culturali, etniche e religiose. In realtà è convinto che la tecnica, la scienza, l’organizzazione tecnica ed economica delle civiltà cosiddette avanzate finirà per corrodere prima e per farle sparire del tutto poi le culture che vivono con piena convinzione le loro differenze rispetto alla nostra, lottando strenuamente per mantenerle vive e vitali. Il relativista laicista, con la sua ipocrita tolleranza benevola, in fondo spera profondamente in cuor suo che la nostra superiorità culturale dovuta alle conquiste dell’evoluzione e del progresso tecnologico e scientifico, finirà per fare piazza pulita di ogni diversità etnica, religiosa, culturale, per imporre l’omologazione mondiale tecnico-economica, sostanziata dalla promozione incondizionata del benessere psicofisico e dall’incremento esponenziale del “prodotto interno lordo”, nella più stolta cecità di fronte alle possibili conseguenze catastrofiche incombenti e forse già imminenti.
II
E qui tocchiamo il primo punto della nostra esposizione enunciato nel titolo: l’imperatività. La resa incondizionata dell’agnosticismo e del relativismo ai comandamenti assoluti della tecnica, dell’economia, della promozione senza riserve del benessere universale, configura un nuovo imperativo etico che nessuna civiltà del passato aveva potuto persino immaginare: l’imperativo della tecnologia e della liceità incondizionata dell’assoggettamento completo senza eccezioni alla tecnica e ai suoi voleri. Ogni tecnologia che ci metta in possesso di capacità di disporre della vita e della morte deve essere promossa e praticata. Per coloro che reclamano il diritto incondizionato alla vita sono a disposizione tutte le tecnologie mediche per prolungarla a piacere, anche al di là di ogni tollerabilità. Per coloro che invece invocano il diritto di disporre della propria morte come e quando a loro piace sono a disposizione le migliori tecniche dell’eutanasia. E su questo punto ricordo l’atrocità della definizione riduttiva della morte come cessazione dell’attività cerebrale, fortemente imposta e voluta dalla medicina americana per giustificare la ventilazione e la rivitalizzazione di organi singoli, p.es., il fegato o i polmoni, per espianti e trapianti. Ne ho parlato in questa sede proprio un anno fa, riferendo un caso raccapricciante in cui tale pratica è stata effettivamente messa in opera e che è stato riferito da Hans Jonas, che naturalmente lo ha denunciato con una critica molto giusta e ineccepibile (Controcorrente. Osservazioni sulla definizione e ridefinizione della morte, in “Dalla fede antica all’uomo tecnologico”, trad.it., Il Mulino, Bologna 1991). L’assenza di senso morale, la sfrontatezza intellettuale del relativismo etico viene naturalmente arginata dai sottili “distinguo” e dalla casistica giuridica. Ma spesso quest’ultima verrebbe a configurarsi come un vero e proprio tessuto di ipocrisie e di sottigliezze davvero criminali in mancanza di un tacito ricorso a valori permanenti e ad una cultura della vita che si ispiri ad una ricerca incessante e pensosa di ciò che davvero può essere una “vita buona”, di cui pure alla fine il relativista deve riconoscere il valore.
A siffatto imperativismo della cultura libertaria del benessere deve essere opposto un argine incrollabile. La necessità e l’esigenza di un’imperatività dell’etica ci riconduce a Kant, che su questo punto rimane sempre un modello insuperato. C’è davvero un imperativo categorico dotato di universalità e di necessità- E Piero Martinetti nel memorabile saggio Sul formalismo della morale kantiana (in “Funzione religiosa della filosofia. Saggi e discorsi”) invoca con piena ragione un’ “origine trascendente” dell’imperativo categorico. Martinetti ha colto un punto fondamentale che era sfuggito al grande fondatore del pensiero critico. E a riprova di questa tesi, per una via affatto indipendente un altro grande filosofo italiano finora pressoché ignorato e solo da pochi anni riscoperto, Giuseppe Rensi perviene alla medesima conclusione: l’imperativo categorico non può essere un comandamento autonomo della ragione umana ma deve imporsi come “trascendente” (La trascendenza. Studio sul problema morale, 1914). Infatti Kant pretendeva che l’imperativo categorico dovesse venir ricondotto alla pura necessità razionale della non contraddizione tra la regola soggettiva dell’agire (la “massima” della nostra condotta) ed il “principio”, vale a dire la legge universale della ragione che vale oggettivamente. Ma si è sempre visto ed osservato come il formalismo estremo, che ha per conseguenza un “rigorismo” esasperato ed impietoso non sia affatto applicabile a circostanze di fatto in cui non è più sufficiente il puro e semplice attenersi all’astratta ed universale “legge della ragione”. I sostenitori della recente “filosofia pratica” tedesca affermano con vigore e non senza ragione il ricorso alla virtù della prudentia, alla phronesis aristotelica quale capacità discriminante di discernere “il giusto mezzo tra gli estremi”, dunque come capacità di riconoscere quale sia il modo migliore di calare l’imperativo di agire eticamente in modo giusto e buono nei mutevoli e variabili casi della vita. Tutto ciò è senz’altro valido, ma per noi non è ancora sufficiente. In fondo la “filosofia pratica” ripiega su una specie di “etica della situazione” in cui si valuta certamente in modo attento ed accurato la responsabilità e si cerca di salvaguardare il valore della migliore tradizione, ma con essa non si giunge a veri e propri “principi etici”. La discussione sarebbe molto interessante e proficua, ma in questo momento posso solo limitarmi a questi accenni molto scarni. E’ giunto ora il momento di passare al secondo punto dell’esposizione indicato nel titolo: l’ “obbligazione”.
III
C’è un obbligo verso la persona che è in noi come negli altri. Del resto Kant lo aveva molto ben definito nella sua seconda formulazione dell’imperativo categorico (Fondamenti della metafisica dei costumi): ric ordati di trattare la persona che è in te come negli altri soltanto come fine, mai come mezzo”. C’è dunque un obbligo verso la persona che è in noi come negli altri. E a quest’obbligo siamo incondizionatamente legati. Ma per comprendere in profondità il concetto di “obbligazione” dobbiamo comprendere meglio che cosa significhi la “persona”. Per Kant essa è soltanto “ragione”. Ma, come a più riprese e in modo impareggiabile scrive ed insegna Max Scheler, che pure apprezza non poco il valore dell’etica di Kant, se la “persona” è soltanto un’istanza universale senza il riferimento e senza alcun rapporto con l’individualità concreta, costituita dall’intera totale complessione della sua singolarità che include la stessa corporeità vivente, allora Kant si contraddice in modo rovinoso. Infatti nella prospettiva kantiana, la “persona” essendo un’universale astratto è completamente disindividuata e non è dunque alla fine proprio nessuno (Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori). Gli individui, resi identici nell’universalità della ragione finiscono infatti per non esistere più. Non si comprende allora in nessun modo come il senso dell’obbligazione possa radicarsi in un singolo individuo e come le motivazioni etiche possano realmente farsi valere e divenire efficaci al di fuori di ogni concreto ed individuale, diremo ancor meglio, singolare, moto dell’animo di ciascuno. Dunque il concetto di “obbligazione” non esaurisce ancora, nemmeno se congiunto con quello di “imperatività”, l’etica personalistica. Ma che cos’è veramente la “persona”? E’ molto più difficile dire di essa ciò che non è, piuttosto che dire che cosa essa sia. Certamente la persona non si riduce ad un sacco da riempire, ad una pelle da solleticare, ad un generico ricettacolo di impulsi istintuali ed emozionale cui dare ad ogni costo soddisfazione. Ciò che è “persona” in noi lo possiamo apprendere soltanto vivendo come persona con altre persone, in una spontanea e nativa direzione che ci fa compiere atti emozionali, volitivi, intelligenti che noi comprendiamo compiendoli insieme con altre persone che per noi sono un’alterità che non è mai assoluta estraneità, perché altrimenti noi non la conosceremmo mai, né assoluta identità perché altrimenti nessuno di noi sarebbe un’individualità singola ed irripetibile, pensosa e sollecita del proprio destino e del senso della sua vita che non può essere mai identico a quello di altri. E qui è ancora Max Scheler a venirci incontro e a soccorrerci. A suo dire la persona è l’unità immediatamente co-vissuta del vivere per esperienza vissuta e non soltanto una cosa pensata dietro e al di fuori del vissuto immediato” (Der Formalismus in der Ethik, p. 371). La persona è attualità originaria che si coglie tutta intera in ogni atto in cui si esprime. Ed essa partecipa dei propri atti come propri e degli altrui come propri di altri, ma tali da poter essere riferiti anche a lei stessa, coinvolgendo la sua partecipazione ad essi. Non possiamo soffermarci su ulteriori sviluppi e su più ampie precisazioni. Diremo solo, seguendo le analisi acute ed illuminanti del grande filosofo tedesco, che un atto personale di altri rivolto a me, è da me vissuto non come mio, ma come suo, però nella consapevolezza che esso è rivolto a me, e che richiede la risposta di una reciprocità, anche se io la rifiuto. Così p.es., una richiesta d’aiuto, una domanda insistente ed importuna sono da me comprese e vissute come tali anche se in ogni caso io mi nego alla richiesta d’aiuto o rifiuto di rispondere alla domanda. La reciprocità è fondamentale e originaria. Così un’espressione di gioia o di tristezza di un altro non è affatto un processo psichico che si esprime in una smorfia o in un’alterazione del viso e del comportamento gestuale altrui, dietro i quali io inferisco l’esistenza di un centro di attività interiore nascosto a me. Espressività ed attualità sono una sola e identica realtà. Non ho affatto bisogno di elucubrazioni induttive e di ipotetiche illazioni per risalire dall’espressività esteriore all’interiorità e riconosco immediatamente, senza che in ciò mi sostengano un’istruzione, una cultura, che quel carattere espressivo che si manifesta nello sguardo, nella gestualità e nei comportamenti dell’altro nei miei confronti sono diversi da persona a persona, e tuttavia mi rendono innegabilmente manifesto il fatto che di fronte a me c’è un centro personale di vita e di atti spirituali; nient’affatto dunque una x corrispondente ad un processo psichico interiore che mi rimane nascosto. Così un comportamento ispirato da libertà e da generosità è meglio compreso da chi è libero e generoso piuttosto che da chi non lo è affatto. Solo la libertà comprende l’atto libero, perché la libertà non è conoscibile se non da colui che la esercita e la vive realmente.
Negli sviluppi, ispirati in profondità dal pensiero di Scheler, caratteristici della contemporanea “antropologia filosofica” tedesca, i cui più insigni rappresentanti sono Helmuth Plessner e Arnold Gehlen, ricorre, pur con molte variazioni, lo stesso tema: l’uomo non è come l’animale, limitato e ristretto in un rapporto con il mondo-ambiente (Umwelt); egli è piuttosto, primariamente, l’essere “aperto al mondo” come un tutto, come totalità di tutti gli ambienti vitali possibili (Weltoffen). Un tutto che è assolutamente imparagonabile ad una pura e semplice somma di tutti gli ambienti dei viventi di natura; perché l’uomo è l’essere aperto all’infinità, che è qualcosa di cui la vita animale non può assolutamente sapere nulla, nemmeno la vita più intelligente e più evoluta. L’uomo è l’essere aperto all’indefinita possibilità. Questa è la sua Weltoffenheit), che ogni persona vuole realizzare secondo il sentimento di una vocazione che può sentire in lei stessa e che può avvertire immediatamente e in modo innato come diversa da quella di ogni altro. Questa vocazione e questa apertura possono anche non esaurirsi nella ricerca pianificata del benessere e dell’omologazione sociale di massa. Queste ultime anzi possono ben venir rifiutate in vista di altri valori e di altre realizzazioni possibili del proprio destino.
IV
E con questo veniamo al terzo punto del nostro titolo: la liberazione. Imperatività ed obbligazione non esauriscono le istanze di un’etica autenticamente personalistica. Esse possono venire completate e perfezionate soltanto dalla terza istanza, quella della liberazione. La vita morale della persona non è esaurita dalla sottomissione all’imperativo e all’obbligazione. Al di là di queste c’è la domanda di felicità. E soltanto la felicità offre la liberazione. E, inversamente questa è la condizione di quella. Fra i grandi che riconobbero la fonda mentalità di questo principio è da ricordare B. Spinoza, il quale pur riconoscendo con la massima lucidità l’esistenza di molteplici e discordanti vedute umane sulla natura ultima della felicità e del bene supremo, non indietreggiò affatto dinanzi a questa enorme difficoltà, ma ben si avvide come le concezioni insufficienti e mal fondate della felicità finiscano per contraddire l’essenza stessa del processo della vita che mira alla soddisfazione costante, all’autosufficienza e all’affrancamento dalla dipendenza dalle vicende esteriori della sorte, buona o cattiva che sia. Non tutti infatti limitano la ricerca della felicità al possesso dei beni e al godimento di agi e piaceri, alla disponibilità di tutti i ritrovati della tecnica per assicurarseli. E se si va a vedere bene non sono poi pochissimi coloro che cercano qualcosa di più. La ricerca di felicità, per coloro che sono disposti a mettere in questione se stessi per amore di altri o addirittura del prossimo tutto quanto, per tutti coloro che sono disposti a rischiare tutto per una causa in cui credono, non cessa mai di animarli neppure di fronte a sconfitte, a umiliazioni, a delusioni e a insuccessi. Chi vive secondo uno stile di vita qualitativamente scelto e relativamente raro comprende quanto sia insensato imporre un ideale di felicità, o più semplicemente far propaganda di felicità. Questo è invece ciò che propugnano gli ideologi e i persuasori della cattiva cultura, i cattivi maestri e i ciarlataneschi opinion makers che oggi pullulano da ogni parte. La ricerca della felicità è refrattaria ad ogni coercizione esteriore, e lo è però anche nei confronti dei rigoristici comandamenti di una “pura ragione” di stampo kantiano. Eppure la persona dedita a questa ricerca non rifugge affatto da una sua “imperatività” e da un profondo senso interiore dell’ “obbligazione”. La persona sinceramente appassionata alla ricerca della felicità si obbliga con se stessa e nei confronti degli altri, ispirandosi ad un modello di unità e di coerenza della propria vita che costituisce un’autoformazione continua ed incessante, che si rinnova sempre. Senza un’etica della liberazione l’etica dell’obbligazione e dell’imperatività è manchevole e diventa addirittura repressiva. A. Schopenhauer, nella memorabile memoria Sul fondamento della morale del 1840 fu ben capace di cogliere questo esito, a suo giudizio, non a torto, fortemente presente nella morale kantiana. L’etica della liberazione non vuole imporre né comandare nulla. Per essa infatti il rifiuto del male, il distacco dai beni contingenti, l’esercizio della giustizia la generosità e la tendenza all’amor del prossimo non costituiscono affatto un comandamento eteronomo proveniente da un’autorità, di qualunque specie essa sia, che vuole imporsi incondizionatamente e senza motivo. Le etiche della liberazione cercano la libertà e l’emancipazione da tutti i limiti e da tutte le ristrettezze di un’esistenza egoistica e isolata, di una socialità tenuta in vita soltanto dai legami dell’interesse e del tornaconto. L’esercizio della rinuncia, della magnanimità, della giustizia e della generosità disinteressata fanno di noi e degli altri un’unità vera. Ci rendono compartecipi di un’unica realtà nella quale possiamo sentirci tutti come una sola ed un’unica persona pur restando distinti e diversi. Il vero dolore di un’anima appassionata alla ricerca della liberazione, quando cade negli errori dell’isolamento, della sfiducia e della passività inerte, non nasce affatto dall’istanza accusatrice implacabile di un “giudice” superiore, esterno o interno che sia (nel qual caso avrebbe ragione la teorizzazione freudiana del “Super- Io”); nasce invece dall’amarezza di avere contribuito ad accrescere il male nel mondo, e con esso la discordia, la divisione, la violenza. Nasce dal senso della propria inadeguatezza a combatterli e a vincerli. La tristezza per il male commesso nasce dalla consapevolezza delle ricadute in errori compiuti contro di noi e contro gli altri.
E’ per tutti questi motivi che dalle etiche della liberazione promana un senso di oltrepassamento delle coercizioni, un’enorme carica di compassione e di simpatia universale in cui ogni logica moralisticamente contrappositiva di “vizio” contro “virtù” è immensamente trascesa e superata. Esempi fra i più insigni di etica della liberazione sono Plotino, Spinoza, Schopenhauer, e in Oriente il Buddha. E vale sempre ricordare la sublime proposizione XLII del quinto libro dell’etica di Spinoza (De libertate humana): “Beatitudo non est virtutis premium, sed ipsa virtus; nec eadem gaudemus quia libidines coercemus, sed contra quia eadem gaudemus, ideo libidines coercere possumus” (La felicità non è il premio della virtù, ma essa stessa è virtù; né godiamo di essa perché teniamo a freno le cupidigie, ma al contrario poiché siamo beati teniamo a freno le cupidigie”).
Dobbiamo sempre tenere presente che l’etica della liberazione, nelle linee che ne abbiamo tracciato non ignora né disconosce l’imperatività e l’obbligazione, però conferisce ad esse un senso tutto diverso da quello dell’incondizionato comandamento che non sa dare di sé motivazioni accettabili. Non v’è qui da ascoltare il pronunciamento di una sentenza alla quale l’io empirico di una piccola soggettività debba piegarsi perché proveniente da una ragione assoluta. Si tratta infatti di ben altro: dell’obbligazione interiore dinanzi a se stessi e al bene del prossimo come se fosse il proprio. Un’ “etica senza sanzione né obbligazione” è una strada tutt’altro che comoda e facilmente praticabile. Io so che rimango pur sempre attratto dal tornaconto egoistico, dall’inerzia che mi fa attaccare al mio benessere, alla mia ordinaria e quotidiana tranquillità. E so pure che l’obbligazione che sento viva e presente in me potrà prima o poi chiedermi un sacrificio che esigerà una certa rinuncia. Ma so pure che non ne sarò capace, so bene che non godrò i frutti del rifiuto della rinuncia, perché mi amareggerà il dolore di avere nuociuto ad altri quando invece potevo essere loro d’aiuto. Obbedirò ad una legge che può anche essere universale, ma che insieme è una legge assolutamente individuale, la cui individualità non esclude affatto, ma implica la sua possibile validità per tutta l’umanità. Si tratta della legge di quell’ “io sono così e non posso essere altrimenti” che mi segue per tutta la vita e che non va affatto distorta ed umiliata abbassandola al rango di un semplice sentimento, di un’emozione qualunque (Georg Simmel, Intuizione delle vita, trad. it. 1997).
V
A questo punto siamo prossimi alla conclusione delle presenti riflessioni.
Il circolo delle tre istanze supreme e imprescindibili dell’etica personalistica può considerarsi chiuso. Obbligazione e liberazione non sono in conflitto e in contrasto come a torto credono i vari “pensieri deboli”, l’etica relativistica, l’utilitarismo e l’eudemonismo sociologico. Ma nemmeno c’è contrasto fra imperatività e liberazione. E qual è l’imperativo supremo dell’etica di cui Kant scorse l’assoluta necessità, ma configurandola in termini fuorvianti? Questo imperativo non può essere che uno solo: che il male non vinca e non trionfi nel mondo, altrimenti ricadrà su di noi e ci renderà infelici. E c’è il male nella sottomissione dell’uomo alle tentazioni seduttive della tecnica che offre benessere, agi, piaceri ed agevolazioni di ogni genere? Certamente il male si annida anche in questo. Ma questo è ciò che un’etica adeguata alle enormi e pressanti, assolutamente nuove richieste del nostro tempo, deve sapere indagare. I compiti dell’etica della nostra epoca sono enormi perché sono sorte ad opera della tecnica e dell’organizzazione sociale nuove situazioni, nuovi conflitti che il passato non poteva certo conoscere ed incontrare. Non riteniamo che in tutta quanta la tecnica risieda il male. Noi non la demonizziamo in assoluto come certi contemporanei e disinvolti banditori del “nichilismo” amano fare. Ma nemmeno la esaltiamo come gli utilitaristi e i neoilluministi d’ogni genere e tipo. E’ questo un argomento di analisi che esige un compito ben più ampio di quello che qui ci siamo proposti. E’ però incontestabile che il male che ci è incondizionatamente richiesto di combattere risiede nelle applicazioni perverse della tecnica, nella cecità dinanzi ai pericoli per il futuro dell’uomo, della natura, della vita e della terra tutta quanta, su cui molte cose profonde e meritevoli della più attenta accoglienza hanno scritto un grande filosofo come Hans Jonas (Il principio responsabilità) e lo scienziato inglese James Lovelock nei suoi memorabili libri su “Gaia”, il nome antico della Terra. Il compianto filosofo italiano Alberto Caracciolo ha operato una distinzione fondamentale tra il malum mundi, il male del mondo, e i mala in mundo, i molti mali contingenti e occasionali che accadono nel mondo. La scienza e la tecnica possono d’altro canto vincere contro i mala in mundo, ma fino a quando risultano affatto incapaci di meditazione sul mistero del “Male del mondo” sono pericolose e nemiche dell’uomo. Il malum mundi è sempre in agguato, è il “primo male” e ci colpisce anche contro la nostra volontà e contro ogni nostro sforzo, come profondamente osservò Plotino. Solo un soccorso trascendente può salvarci e liberarci da esso. E’ ciò che invocano tutte le religioni, ed ogni religione lo intende secondo i suoi modelli e secondo le sue tradizioni. Osserviamo in proposito che un’etica priva di ogni intentio religiosa è sterile ed insufficiente, e priva di qualunque forza di convincimento. Chiunque sostenga l’assoluta “laicità” e la totale estraneità dell’etica allo spirito religioso identifica e confonde malamente la “religione” con le istituzioni religiose e confessionali, e non comprende affatto che ci può essere anche una laicità non irreligiosa, mentre il laicismo preconcetto è sempre irreligioso.
L’imperativo supremo che il male non sia è già un’invocazione che il Bene e la Grazia discendano su di noi. Non per niente le ultime parole della preghiera fondamentale di Gesù dicono proprio questo: “liberaci dal male”.